28 dicembre 2018

Strane coincidenze





E’ passato Natale, verrà Capodanno e l’Etna si è svegliata. Per fortuna il vulcano catanese non è come il suo collega napoletano e non combina sfracelli: rutta, vomita, ma non provoca nubi piroclastiche che ammazzano intere popolazioni. Questo perché è un vulcano a magma basico, vale a dire che la non acidità del suo magma non procura…stitichezza, ossia non permette la formazione di “tappi” nel condotto magmatico i quali, quando i gas interni premono, fanno saltare per aria tutto.

Qualcuno, però, pensava all’Etna in modo diverso…

“Nel 1953 Mattei aveva tentato la via della geotermia, costituendo insieme alla Finelettrica, la Società Italiana Forze Endogene (SIFE). La nuova società, in cinque anni, e con un investimento di due miliardi di lire, doveva incrementare la ricerca nel settore; ma il mancato accordo sul prezzo di vendita dell’energia elettrica prodotta con i vapori naturali fece fallire il progetto e la SIFE fu subito sciolta (1954).” (1)

Mattei era un uomo volitivo e coraggioso: non si poneva limiti al suo agire, giacché il suo compito fu quello di trovare risorse energetiche per un’Italia che s’apprestava a diventare un grande Paese industriale. La questione si chiuse rapidamente poiché il prezzo del barile di petrolio, all’epoca, era veramente  irrisorio (pochi dollari il barile). Perciò, Mattei si gettò a capo fitto nella ricerca d’accordi con i Paesi produttori, che terminò con lo schianto di Bascapè, deciso dagli “stati maggiori” internazionali dell’energia, e non solo energia. Ma non è questa la sede per approfondire quei lontani eventi.

La domanda che giunge spontanea è: l’Italia, ha mai esplorato la possibilità di trarre dal sottosuolo una porzione importante del suo fabbisogno energetico?
Stupirà, ma – a parte Larderello, tuttora attivo – non ci sono stati altri tentativi: eppure, siamo un Paese  che ha sul suo territorio ben 4 vulcani in attività e, cosa non meno importante, tutta l’aera tosco-laziale è un’area di “letti caldi” e mica poco caldi!

La storia dell’energia geotermica, in Italia, è quasi tutta confinata fra gli anni ’30 e gli anni ’60 del Novecento e sono giunte fino a noi le memorie – potremmo dire quasi “testamentarie” – d’ingegneri e geologi che lavorarono e sperimentarono, cercando di gestire al meglio il poco esistente (Larderello), nella totale indifferenza della classe politica e, soprattutto, delle aziende (ENI, ENEL, ecc) che ebbero in mano il destino energetico del Paese.

Fa quasi tenerezza leggere le memorie del Dr. Claudio Sommaruga che, nel 1974, cercava di raccontare i termini di un’avventura vissuta in perfetta solitudine, nel senso che nessuno gli diede retta (2). Eppure, grazie alle pompe di calore, riuscì a soddisfare le esigenze di riscaldamento della città di Ferrara (ed altre) ed un grande impianto a Milano, che funzionò per il riscaldamento civile dal 1935 al 1971. Poi, amaramente, concluse che tutto fu “modernizzato” con alimentazione a gasolio o metano.
Nel 2010, infine, fu organizzata una manifestazione in ricordo di quegli anni eroici e le conclusioni, assai amare, furono espresse (immagino dallo stesso Sommaruga, o da uno dei suoi allievi) con orgoglio unito ad amarezza:

Concludo, con un conforto e un rammarico. Questa carrellata e testimonianza di una storia dimenticata, ma tessuta in primo piano dai geotermici italiani: la constatazione oggi che le nostre speranze giovanili degli anni ’50 non erano utopie e il rammarico che non siamo stati abbastanza convincenti nella promozione del ruolo che le fonti geotermiche meriterebbero tra le energie rinnovabili.” (3)

A latere, queste vicende ricordano altri primati dell’ingegno italiano – il dirigibile, che con Umberto Nobile ci rese celebri nel mondo, ricordando che il celebre Norge, il dirigibile norvegese che per primo giunse al Polo Nord era, in realtà, l’N-1 della Regia Marina venduto ai norvegesi – o come Carlo Ghega, ingegnere veneziano, che costruì parecchie, ardimentose ferrovie austroungariche, al punto da essere immortalato nelle banconote da 20 scellini e d’avere una tomba monumentale al Cimitero Centrale di Vienna. Potremmo continuare con Meucci, Marconi, ed altri…ma non è il caso: tutti siamo a conoscenza del grande genio italico. Oggi, in tutto il mondo, si tornano a costruire dirigibili, e noi ce ne siamo…dimenticati!

Lasciamo queste lamentazioni e torniamo ai nostri vulcani: tralasciamo il vulcanesimo quiescente (quello che genera i “letti caldi” e che sta tornando in auge con le pompe di calore), e vediamo i vulcani attivi.
Due sono nelle Eolie (Stromboli e Vulcano) e la ristrettezza degli spazi agibili, più i legittimi interessi turistici, non consigliano di costruire chissà quali meraviglie della tecnologia su quelle isole.
Poi c’è il vulcano che più di tutti ha dato preoccupazioni, sin dal tempo di Plinio il Vecchio: il Vesuvio e tutta l’area flegrea. Il ragazzo è un tipo imprevedibile, perché è a magma acido: forma spessi “tappi” che occludono il canale di scorrimento delle lave, poi si sveglia di colpo e combina sfracelli. Ci sono alcuni studi sullo sfruttamento energetico del Vesuvio ma, domandiamoci: siccome è capace di restare silente per decine o anche centinaia di anni per poi svegliarsi come un dio irato, vale la pena d’investire quattrini su quel vulcano? E non basta: tutta l’area flegrea è ricca di sorgenti d’acqua calda e sarebbe perfetta per lo sfruttamento energetico, ma è soggetta a fenomeni di bradisismo, si aprono voragini, ci sono stati terremoti devastanti.

Rimane l’Etna, che è il maggior vulcano italiano, ed anche quello che sì ha dato problemi, ma solo per le “sciare” di lava che si aprono in alta quota e poi scendono in canaloni devastando ogni cosa.
Il vulcano, però, ha le sue bocche più recenti (da secoli) sul versante sud-orientale, mentre l’area nord-occidentale è da secoli tranquilla. E, anche se si aprisse una bocca di sfogo su un altro versante, si potrebbe intervenire (com’è già stato fatto) con canali artificiali di scorrimento: l’importante, è che l’Etna non è un vulcano esplosivo per sua natura, come il Mauna Loa delle Hawaii, che da decenni erutta senza mai esplodere.

Anni fa, m’interessai all’eruzione del 2001: ebbene, in quella eruzione, l’Etna vomitò una quantità di lava ad alta temperatura corrispondente, all’incirca, al 6% del fabbisogno energetico complessivo annuo italiano.
Non si tratta, ovviamente, di far bollire dell’acqua nelle lave a 1.200 gradi centigradi, perché sarebbe da folli, però ci sono alcuni interessanti studi sullo sfruttamento del vulcanesimo attivo.

Il maggior impianto, per importanza e funzionalità nel tempo, è senza dubbio “The Geysers”, nel Nord della California, che alimenta di energia elettrica l’intera città di San Francisco. Con una potenza installata di circa 1600 MW, fornisce circa 1.000 MW di energia in modo costante: è molto, è l’equivalente di una grande centrale nucleare.
E’ stata costruita in una località dove già i Nativi sapevano dell’esistenza dei soffioni d’acqua calda poi, grazie alla tecnologia, è stato possibile lo sfruttamento.



L’Islanda (insieme al Giappone) è all’avanguardia negli studi e nello sfruttamento dell’energia geotermica, già si produce energia elettrica e quasi tutta l’energia termica per il riscaldamento delle abitazioni. Presto, mediante perforazioni, raggiungeranno un sito dove le rocce sono a circa 500 °C, e quindi produrranno vapore supercritico per alimentare le turbine. L’Islanda, presto, diventerà esportatrice d’energia, e la Gran Bretagna si è detta disponibile ad importare l’energia elettrica islandese in eccesso.



In molte parti del Pianeta la geotermia sta interessando il settore energetico: non è inquinante, non è pericolosa, sfrutta tempi “geologici”, che agli investitori piacciono. Necessitano ingenti investimenti, però una volta compiuti la resa degli impianti è costante nel tempo, per molti anni, decenni…forse secoli…

Mi domandavo se l’Etna non sia sfruttabile in questo senso: grazie all’innovativo sistema HDR (Hard Dry Rocks) è possibile, dopo aver scavato un pozzo, immettere acqua fredda e ricavare vapore alla temperatura di centinaia di gradi, rimanendo all’esterno della caldera del vulcano (4). Dopo, funziona tutto come in una centrale termoelettrica, solo che non si consuma un grammo di carbone, né di petrolio o gas.
Probabilmente, gli sviluppi di quella tecnologia giungeranno a far circolare l’acqua/vapore non a contatto con le rocce vere e proprie, bensì solo all’interno di tubi piazzati nei pozzi: le acque termali sono ricche di sali e corrodono facilmente le attrezzature. In quel modo, circolerebbe solo acqua distillata.

Non voglio, però, toccare molto gli aspetti tecnici, giacché questa è materia per geologi ed ingegneri minerari, piuttosto capire come, dove, quando e perché si potrebbero/dovrebbero attuare queste tecnologie, come già ricordava il Dr. Sommaruga nel suo accorato ricordo del tempo dei “pionieri”.

Purtroppo, in Italia non esiste una “centrale operativa” per quanto riguarda gli aspetti energetici: oddio, c’è, ma è esterna alle istituzioni democratiche. Ossia il complesso ENI-ENEL, che tutto fa e decide: s’è visto quale potere abbia messo in gioco l’ENI per il caso Regeni – di là della sua gravità o delle implicazioni che si possono leggere in quella tragedia – soprattutto per la caparbietà con la quale ENI ha difeso i suoi interessi (i nuovi giacimenti di gas egiziani), che sono anche gli interessi italiani nell’energia e nel Mediterraneo, ma che non sempre sono sovrapponibili e conciliabili. Forse, se fosse esistita una struttura statale al riguardo, Giulio Regeni sarebbe stato fermato prima d’infilarsi in guai più grandi di lui.

Mi ha molto stupito che il M5S abbia fatto poco nel settore energetico – non m’aspettavo niente dalla Lega, che ha sempre ignorato il problema – perché parte del suo elettorato era ed è molto sensibile al riguardo: qui, c’entra poco la questione del riscaldamento ambientale, mentre si entra nel territorio che fu di Mattei, ossia l’indipendenza energetica o, almeno, la certezza delle fonti.
Nulla da eccepire sul secondo punto per quanto riguarda l’ENI, che non ha mai fatto mancare il rifornimento energetico al Paese, però suscita un po’ d’apprensione che non vi sia una controparte pubblica che dialoghi con i due colossi dell’energia italiana. Domani, dovremo gestire la transizione al trasporto elettrico: sicuri che non serva un qualcosa che funzioni come un Ministero per l’Energia? Senza più utilizzare i “servigi” di una società privata e quotata in Borsa per questioni che sono legittimamente e squisitamente d’ordine politico?

L’ENI è una società quotata in Borsa, come del resto lo è l’ENEL, ma per entrambe esiste ancora la “Golden Share”, ossia la possibilità, da parte pubblica, d’intervenire per le questioni strategiche. Si tratta di un quadro normativo fragile, che non consente un reale dialogo fra le parti: sa più di ricatto per entrambe le parti, non di dialogo.
Abbiamo ancora nella mente l’immagine di Carlo Rubbia che sbatté la porta e se ne andò in Spagna, per costruire là quelle centrali termodinamiche nelle quali credeva (Andasol 1,2 e 3), mentre la prima (ed unica) centrale termodinamica italiana (Priolo Gargallo) fu associata ad un impianto ENI termoelettrico, depotenziando le peculiarità dell’impianto e temporeggiando, per la costruzione, finché nessuno si ricordo più (e dubito che qualcuno lo ricordi ancora) della piccola centrale sperimentale che, peraltro, è un decimo di potenza installata rispetto a quelle spagnole.

I Paesi produttori hanno il Ministero per l’Energia, mentre i consumatori hanno soltanto strutture private per acquistarla: è conveniente? Per qualcuno senz’altro, per la gran parte dei cittadini, ne dubito. Perché lo Stato, vale a dire quello democraticamente eletto, non può intervenire per le questioni tecnologiche d’importanza primaria? O un Paese è in grado di decidere autonomamente, almeno sul suo territorio, le proprie scelte energetiche, oppure è inutile parlare di sovranità. Tertium, non datur.
  

(*) By Stepheng3 - Own work, CC0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=19087599


4 commenti:

  1. Grazie Bersani,articolo sempre molto interessanti e propositivi.

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  2. Scusi neh, Bertani non Bersani, qualcuno potrebbe offendersi.

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  3. E' vero, tanti si sbagliano. Però, stranamente, i due cognomi non corrspondono ad aree geografiche vicine: Bersani è piacentino, ma quel cognome è diffuso in molte aree piemontesi fino alla Lombardia. Bertani, invece, porta un marchio d'origine preciso: Reggio Emilia.

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  4. sarebbe troppo intelligente sfruttare i vulcani per l'energia...come potrebbero magnacciare i maneggioni costruttori di cattedrali nel deserto, Boccia...ti !

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