Non so come sono capitato sulla notizia: la Nuova Zelanda ha il
record mondiale nei suicidi di giovani in rapporto alla popolazione (1). Chi
l’avrebbe mai detto. E pensare che ero andato a finire su un sito neozelandese
per questioni di vela e di mare…i “kiwi”, uno degli Stati dove è più difficile
stabilirsi per lavoro…un ecosistema incontaminato…ci hanno persino girato “Il signore degli anelli” perché gli
scenari naturali sono incantevoli…
E questi si suicidano.
Detto così, sembra quasi inconcepibile visto che la Nuova Zelanda continua la sua
crescita economica in piena recessione mondiale e, anzi, ha allentato i cordoni
della borsa anche sul fronte immigrazione.
Eppure, i dati sono inconfutabili: il doppio dell’Australia,
il triplo della Gran Bretagna…e così via.
Così, mi sono messo a cercare cosa dicevano di questa vera e
propria “massa” di giovani che ogni anno si tolgono la vita gli “addetti ai
lavori”, ossia sociologi e psicologi ma…a parte qualche intuizione sensata, non
mi hanno convinto.
Certo, che la cultura maori sia profondamente maschilista,
che i miti della forza siano propalati ai quattro venti…che chi non si sente
“macho” al mille per cento fosse un po’ in difficoltà…tutto questo ci sta, ma
non spiega questa vera e propria epidemia di suicidi giovanili. I più uomini,
ma anche tante donne.
Poi, mi sono imbattuto in questo articolo (2), che ha
iniziato a squarciare il velo del “politically correct” ed a fornirmi qualche
buona riflessione. E mi è tornato alla mente un ragazzo canadese, che viveva a
Torino insegnando yoga, in anni lontanissimi…il quale, la sera, andava a zonzo
a Porta Nuova, la stazione centrale.
Bisogna dire che, all’epoca, Porta Nuova non era un luogo
pericoloso: ci andavo a comprare la prima edizione della “Stampa”, che usciva
intorno all’una di notte. Perché? Un giorno gli chiesi.
La risposta fu strabiliante: “se tu fossi vissuto in un
posto dove i tuoi vicini sono a 50 miglia da te, correresti alla stazione tutte
le sere, per vedere i visi, tanti, le persone, le espressioni…”
Già, proveniva da una zona del Canada con una popolazione di
1 abitante per chilometro quadrato…eppure in Canada non si suicidano come in
Nuova Zelanda…
Siamo abituati a vivere al centro del mondo, e non ce ne
rendiamo nemmeno conto: in due ore di volo abbiamo Roma, Parigi, Londra,
Vienna, Madrid, Berlino, Amsterdam, Atene…
La Storia
dell’umanità abita nella porta accanto: un amico che abitava a Trastevere, al
piano terreno, aveva la parte bassa dei muri perimetrali che erano ancora quelli
costruiti dai Romani, poi altri costruirono sopra, e via…non lontano da Regina
Coeli.
“Mentre attraversavo
il London Bridge…” recitava una ballata medievale…e noi non ci stupiamo poi
neanche tanto: attraversiamo il London Bridge ed entriamo nel quartiere di
Banks, la gioia degli investitori internazionali.
Non riusciamo nemmeno ad immaginare cosa vuol dire vivere in
una “natura incontaminata” 365 giorni l’anno, con la sensazione che tutto quel
che capita nel mondo avvenga a diecimila miglia dal cottage in stile inglese
circondato da montagne, che sembra “incapsulato” in un mondo che non vuoi, che
ti annoia, al punto di toglierti il gusto della vita.
Fra le ragioni citate dai sociologi una mi ha colpito: “una
colonizzazione mai completata”. I Maori non saranno d’accordo, ma le cose sono
andate così: gli inglesi avevano i fucili, loro archi e frecce. Bisogna
guardare avanti.
La leggenda dei “due cuori e una capanna”, magari al limite
di un bosco infinito, si stempera nella realtà di figli che vedono il mondo
solo su Internet, quando c’è. Questo è il risvolto delle colonizzazioni
inglesi, condite con severi stigmi razziali, senza curarsi del domani: un
boccale di birra, la sera, ogni tanto la sbornia all’osteria (miglia e miglia…)
e quattro vecchie ballate, uguali nei secoli.
Questi ragazzi, coi loro suicidi, sono paradossalmente dei
rivoluzionari: fanno una richiesta estrema, dateci qualcosa per vivere!
Anche altre nazioni del Commonwealth britannico soffrono di
simili problemi, come l’Australia (un continente con 24 milioni d’abitanti!) ma
non il Canada, che ha saputo prevenirli per tempo. L’agricoltura canadese è
gestita in modo assai ingegnoso: le famiglie si spostano nei campi (gestiti con
molta tecnologia) solo nella buona stagione. A Luglio mietono il frumento, ad
Agosto arano ed a Settembre seminano: poi, via in città (di medie dimensioni,
ma con un’offerta culturale e sociale appagante). Che ci stai a fare in luoghi
coperti dalla neve, regni di lupi ed orsi, a dieci o venti sotto zero? Ad
immaginare le piantine di grano sotto la neve?
Bisogna anche riconoscere che il Canada non è solo
anglosassone, una buona dose di sangue francese scorre nelle loro vene: una
cultura più permissiva dei tetri luterani anglofoni.
Forse un po’ di sangue latino è quel che ci vorrebbe per
mitigare quelle lande desolate, che il British Empire disseminò nel pianeta,
macinando le culture autoctone e sostituendole con l’effige di un re che viveva
all’altro capo del mondo.
Tutto ciò, però, richiama alla nostra attenzione le migrazioni,
sempre esistite dai primordi dell’umanità, spesso accompagnate da guerre, poi
da fusioni di culture, infine da periodi di stabilità. Per, poi, tornare da
capo con una nuova migrazione.
Va da sé che l’attuale migrazione verso l’Europa sia antistorica:
coloro che migrano non giungono in armi per sottomettere un’altra popolazione,
bensì vengono addirittura accolti.
Se fosse soltanto un problema economico e sociologico la
storia finirebbe qui, giacché non ha nessun senso. E’ vero che, per alcune strutture
economiche, la presenza di persone che vivono ancora il rapporto uomo/animale
in modo ancestrale – non corrotto dalla Disney! – torna utile: basti riflettere
su tutta la “filiera” dei prodotti d’origine animale: carne, latte, formaggi.
Solo per il parmigiano ed il grana padano sono decine di migliaia i magrebini,
neri o slavi che hanno trovato un’occupazione. E bisogna riconoscere che
pochissimi giovani italiani 3.0 ambirebbero a diventare mungitori, mandriani,
fattori, ecc. Piuttosto, preferiscono elemosinare un “favore” da parte di un
politico, oppure scaldare la poltrona di papà e mamma. Finché dura.
E’ una realtà della quale dobbiamo prendere coscienza: molti
anni fa, un ufficiale degli Alpini mi raccontò che la transizione “oltre il
mulo” – di là delle questioni d’ordine tattico/strategico – era inevitabile,
giacché s’era inaridita la fonte dei ben noti “conducenti di mulo”, ossia la
società agropastorale di un tempo.
Non puoi sbattere un ragazzotto cresciuto a pane e nutella a
fianco di un mulo, perché manca quella conoscenza dei “segni” che nascono da
generazioni d’esperienza. Anche negli eserciti professionali: è il medesimo
problema. Eppure, gli Alpini sono andati in Afganistan, caldamente desiderati
dai comandi statunitensi: era una guerra di poveri, fatta da gente povera con
mezzi primitivi – fucile, razzo, esplosivo – roba di un secolo fa per noi. Ci
voleva gente abituata a quegli scenari di guerra in montagna, della guerra dei
poveri.
Ma, di là degli scenari bellici – se torniamo alla Nuova
Zelanda – forse scopriamo che per l’immigrazione (o completamento della
colonizzazione) si è atteso troppo tempo, al punto che la società ha perso la
spinta vitale, il senso del vivere.
Osservate questi, sintetici e semplici, dati:
Italia
Superficie: 301 340 km2
Clima: temperato caldo
Abitanti: 60.532.325
Densità della popolazione: 201,1 ab./km2
Nuova Zelanda
Superficie: 267 710 km2
Clima: temperato piovoso
Abitanti: 4.578.900
Densità della popolazione: 17 ab./km2
All’atto dell’Unificazione, l’Italia aveva circa 20 milioni
d’abitanti: 4 volte gli abitanti della Nuova Zelanda attuali!
Per avere una densità simile a quella neozelandese, bisogna
risalire a prima del 1800!
Abbiamo compreso che l’attuale fase migratoria dall’Africa
all’Europa è stata abilmente diretta, distruggendo quel poco di buono che gli
africani erano riusciti a creare: osservandole oggi, le cosiddette “primavere
arabe” sono state la dissoluzione di qualsiasi tentativo di superare l’eterno
medio evo islamico, laddove l’assenza del pensiero illuminista li imbriglia in
un mondo ancestrale.
Libia e Siria erano gli Stati nel mirino dei globalizzatori,
e Libia e Siria sono state forgiate col fuoco per anni, affinché smarrissero le
strade tracciate da Gheddafi e da Assad per accomunarsi nell’indistinto marasma
mediorientale, con la conseguente rapina delle risorse destinate alle
popolazioni. La lezione di Mossadeq è sempre attuale. La Siria pare, oggi, salva ma
domandiamoci: quanto ci vorrà per uscire da questi anni di guerra e
distruzione? La Libia
è, oramai, uno scatolone di sabbia e basta.
L’immigrazione di massa, dunque – soprattutto in un Paese
come l’Italia che vive in recessione da decenni – non è servita a niente: né
agli italiani, né agli africani. Forse quella più “centellinata” dei decenni
precedenti qualche frutto l’ha dato…riflettendo che, parimenti, c’è un
movimento d’emigrazione dall’Italia verso l’Europa e gli USA.
Una nazione con circa 40 milioni d’abitanti potrebbe essere
più stabile per il territorio italiano, mentre non è pensabile avere una
nazione (Nuova Zelanda) grande pressappoco come l’Italia che non raggiunge i 5
milioni d’abitanti.
L’uomo è un animale sociale, che vive in questa socialità
(e, dunque, anche nelle migrazioni) un rapporto di incontro/scontro, laddove
gli estremismi (no ai neri! accogliamoli tutti!) non servono ad altro che ad
alimentare risse da pollaio. Senza risolvere nulla.
Sappiamo che, generalmente, le società ricche ma con poche fiducie
(e sogni) tendono ad un edonismo quasi malinconico, che li dissangua sul fronte
della natalità. Fin che ci sono risorse (statali) per alimentare artatamente il
cosiddetto “terzo figlio”, queste società riescono a sopravvivere, ma la
sperequazione nella ripartizione della ricchezza (fortemente voluta dal sistema
finanziario) le conduce verso il cul de sac dell’estinzione.
Il fenomeno neozelandese ci racconta un nuovo aspetto: anche
in presenza di un’economia in crescita e di un certo benessere economico, la
società soffre, al punto che i giovani si tolgono la vita.
Qual è il punto d’equilibrio?
Oggi, in Italia, si sente urlare da più parti che siamo
stati “invasi”, che siamo troppi, che ci dà fastidio la sovrappopolazione, che
non sopportiamo questa “gente” a “casa nostra”, ecc.
A ben vedere, questo è quello che (giustamente o no) prova
un cittadino, ossia un abitante di una città.
Ma nel territorio, le cose vanno proprio così?
Intere valli si stanno spopolando: prima se ne va la
farmacia, poi il giornalaio, quindi il tabaccaio…rimane l’ultimo bar, ma solo
per qualche tempo. Poi, poche case abitate, buie, solo riflessi di Tv accese
con vecchi che attendono la morte oppure il ricovero nelle strutture per
anziani. Muoiono. Figli e parenti ereditano: cosa se ne fanno, gli eredi, di
queste case?
Le vendono per quattro soldi – se ci riescono – oppure le
chiudono e vanno in rovina.
Qualcuno dice: potrebbero darle ai migranti, se non sanno
dove andare, cosa fare, ecc…non discuto la validità (oppure no) di queste
ipotesi, però faccio notare una cosa.
Per pianificare un simile intervento – che si tratti di
giovani italiani o migranti – bisogna avere la capacità di strutturare un piano
pluriennale, seguirlo, correggerlo dove non funziona…in altre parole, attuarlo.
Abbiamo una classe politica in grado di farlo?
Anni fa, quando s’iniziò a meditare sulle biomasse per il
riscaldamento domestico, una delegazione di imprenditori del settore si recò
dal governo (non ricordo quale) e chiese: se procediamo con queste scelte,
dobbiamo saperlo per tempo, perché dovremo progettare e costruire nuove
macchine agricole, una tecnologia diversa da quella attuale.
Pensate che qualcuno abbia risposto? Ecco.
Negli stessi anni, un ricercatore dell’ENEA stese un piano
per recuperare le cadute d’acqua un tempo sfruttate dai mulini ad acqua o da
altre, simili strutture. Erano circa 800 MW di potenza idroelettrica (una stima
minimale), l’equivalente di una grande centrale a carbone.
Se ne fece qualcosa? Ecco.
Oggi importiamo quasi la totalità del pellet che usiamo,
mentre – ogni tanto – qualcuno rialza la testa e chiede centrali nucleari.
Siccome le risorse sono sul territorio, e a nessuno importa
niente di trovare i modi per utilizzarle, tutto va a ramengo: come vedete, non
è una questione di scelta fra italiani o migranti, è la scelta di fare o non
fare degli interventi, poi, chi devono essere gli attori del piano non
m’interessa, m’interesserebbe che qualcuno meditasse d’averne uno.
Così, viviamo una situazione paradossale: atmosfere da
banlieu parigina in – stimiamo – un centinaio di città e situazioni
“neozelandesi” nel territorio, invaso da cacciatori, cicloturisti, guardoni di
uccelli, boy scout quarantenni, comitive dell’associazione ex combattenti,
gitanti sperduti ed ammennicoli vari.
Metà della popolazione non ha i mezzi per campare
decentemente nei centri abitati – la deindustrializzazione ha colpito duro –
mentre l’altra metà saprebbe come fare, ma la distruzione della società
agropastorale non è stata avvertita per tempo, ed il “collante” fra gli attori
sociali è andato perduto.
In Nuova Zelanda la colonizzazione non è stata “completata”,
mentre da noi diciamo che è andata perduta.
A parte i morti per rissa, alcool, droghe e coltellate
varie…a quando i primi suicidi d’adolescenti?