Dal ritmo con il quale si sente parlare di reddito di
cittadinanza, anche sui giornali tradizionalmente scettici (addirittura Il
Sole24 ore!), sembra effettivamente che gli economisti delle nuove scuole –
tanto per intenderci, quelli del “soldo fa soldo” – siano in grave difficoltà.
Gli “outlook” sulle previsioni economiche non sono confortanti, le economie
orientali “virano” verso il mercato interno, l’inflazione è molto debole in Europa
(in Italia, addirittura, negativa) e Mario Draghi è affaccendato nel
distribuire un po’ di liquidità ai quattro venti, per capire se qualcuno
risponde.
Le frange più fantasiose, mesi or sono, meditarono –
paradossalmente – che una soluzione sarebbe stata quella di gettare soldi al
vento dagli elicotteri: una sorta di trovata alla Achille Lauro trasposta nel
terzo millennio?
I più bisognosi di argomenti sui quali litigare (la classe
politica), allora, s’inventa questo strano reddito di cittadinanza: oh, vediamo
un poco se qualcuno abbocca, tanto prometterlo non costa niente. Vai a vedere
che riusciamo a imbastirci una decina di puntate dall’Insetto? Tutti gli altri
giornalai seguiranno, sicuro.
Se usciamo dalla pura propaganda, ci troviamo di fronte l’economia:
alt! Di qui non si passa, presentare le credenziali. Allora torni a scuola e
cerchi d’avere queste famose credenziali: dopo qualche anno d’università,
eccoti lobotomizzato. Vaneggi solo più di 0, incrementi comparati, mutui
ipotecari sull’ipoteca del rendimento, ri-assicurazioni sul rischio ipotecario
ed altre baggianate del genere: sei pronto per prendere il tuo posto nella
grande sala degli iniziati, dove il tuo compito sarà quello di lucrare – come
lo farai, non c’interessa! – dei guadagni. Per chi? Per noi che ti paghiamo.
Stupidaggini? Facilonerie? Osservate i due grafici che
seguono:
Il primo ci indica, chiaramente, che le disuguaglianze
sociali sono in forte aumento in Italia: siamo il Paese (verde) che più si
distingue, fra quelli presi in esame, per la velocità con il quale l’indice
cresce.
Il secondo indica la nostra (rosso) posizione all’interno
dei Paesi OECD: l’indice italiano è 0,34 mentre alcuni studiosi (Wikipedia)
concordano che un valore di 0,25 (pressappoco quello dei Paesi a sinistra nel
grafico) sia quello ottimale per avere stabilità economica e sociale.
La Costituzione italiana, all’art 53 recita:
“Il sistema tributario è informato a criteri
di progressività.”
Sarebbe più giusto
affermare che era, progressivo. Al
momento della nascita, nel 1973, l’IRPEF aveva 32 aliquote (dal 10 al 72%) e
agiva per scaglioni di reddito dai 2 fino ai 500 milioni di lire.
Oggi, gli scaglioni di reddito sono 5, che vanno dai 15.000
euro ai 75.000 (ed oltre), con aliquote dal 23% al 43% e non si va oltre.
Per capire con un semplice esempio, un reddito di 250.000 euro del 1973 pagava
il 72% di tasse, mentre oggi compare nell’area indistinta “oltre 75.000 euro” e
paga solo il 43%.
Ecco come si è generata la disuguaglianza: gli autori? Ci
sono più firme sui vari decreti, ma quasi tutti dal 1992 in poi. Se riflettete
sulle attuali aliquote e scaglioni, si capisce perfettamente chi ha fatto
“suonare a morto” la campana per la classe media: quel “43%” per i redditi
oltre i 75.000 euro, la dice lunga.
Le stesse persone, o i loro epigoni, oggi ci parlano di
reddito di cittadinanza: credere loro? Agli stessi che (M5S a parte) hanno
istituito una simile ripartizione della ricchezza?
In ogni modo, andiamo ad osservare cosa raccontano le varie
proposte, raggruppate – forzatamente – in categorie omogenee per sommi capi.
Imposta negativa
Non si tratta di un reddito di cittadinanza, bensì di un
reddito minimo o assegno di povertà/disoccupazione.
Poggia su un meccanismo semplice: individuata una soglia di non
tassazione (in Italia, per i lavoratori dipendenti, è di 8.000 euro) tutti i
redditi superiori sono soggetti a tassazione, mentre quelli inferiori ricevono una
quota di reddito, quella che loro manca per arrivare ad 8.000 euro, che può
essere una percentuale, variabile, del mancato guadagno per arrivare ad 8.000.
Facendo un esempio: se la percentuale di assegno è calcolata
al 70% del mancato reddito, per una persona che guadagna 3.000 euro in un anno,
la quota versata dallo Stato sarà 5.000 x 0,7 (ossia la parte mancante ad 8.000
x il 70%) che fa 3.500 euro. Reddito complessivo, 6.500 annui. Per una persona
completamente senza reddito, saranno 8.000 x 0,7, quindi 5.600 euro l’anno.
L’esempio è riportato fedelmente dal “Sole24 ore”, il che
dovrebbe già raccontare qualcosa, almeno di chi ce lo propone. Ma, a mio
avviso, manca qualcosa, una cosa importante per una persona che perde il
lavoro.
La dichiarazione dei redditi viene presentata ogni anno
intorno a Maggio: almeno, per i lavoratori dipendenti così è.
Prendiamo il caso di una persona che abbia perso il lavoro a
Febbraio 2016: avrà una dichiarazione dei redditi per il 2016 negativa, che
presenterà a Maggio 2017. Poi ci sono i tempi di elaborazione, circa tre mesi
(per i rimborsi è così) e, finalmente, ad Agosto 2017 arriverà l’agognato
assegno. Un anno e mezzo senza percepire alcun reddito? Quelli del “Sole24 ore”
la mettono giù così...
La proposta di legge
del M5S (Disegno di legge n. 1148)
Bisogna riconoscere che gli estensori del documento, molto
onestamente, hanno definito “non ancora ideale” la loro richiesta che si basa
su un precedente (2014) studio dell’INPS, sotto la presidenza di Tito Boeri.
La richiesta del M5S è di fornire un’integrazione al reddito
– parziale o totale – pari (valori massimi) a 780 euro (considerata soglia di
povertà) per un singolo, a 1.014 euro per un genitore solo con un figlio minore
e 1.638 euro per una coppia con due figli minori. Il costo totale, quantificato
dall’INPS, sarebbe di circa 15,5 miliardi di euro, pari all’1% del PIL
nazionale.
Precisiamo meglio: le integrazioni al reddito sono
finalizzate a raggiungere la quota di 780 euro per persona, quindi è una
proposta per chi sta per precipitare nel baratro, nulla più. Quindi, per
redditi che si avvicinano alla soglia di povertà, l’assegno, proporzionalmente,
decresce: simile, per alcuni aspetti, a quello spiegato per l’Imposta Negativa.
Ciò che sconcerta un poco sono le modalità di applicazione:
mentre la proposta di legge parte bene (la creazione di un “libretto” elettronico,
ecc), successivamente continua col solito “soufflé” fra Comuni e Regioni che
devono cooperare, poi controllare...in un crescendo che puzza di vecchie muffe,
di stantio.
Non vorremmo che, fra Comuni, Regioni ed INPS, domani – come
al solito – i soldi arrivassero prima ai soliti costruttori per il solito
viadotto destinato a crollare la settimana seguente, piuttosto che al
disoccupato che finisce in strada se non paga l’affitto la settimana dopo.
Consiglieremmo al M5S di mettere già mano, nel corpo della
proposta, a parte dei cosiddetti “decreti attuativi”, lasciando così meno
spazio alle “fantasie” di qualche funzionario ministeriale. Occhio, ragazzi.
Bisogna altresì riconoscere che, questa proposta, nel
disastrato, profondo buio della via italiana ad un welfare almeno accettabile,
è una luce che si accende: siamo, insieme alla Grecia, l’unica nazione europea
a non avere un regolare assegno di disoccupazione.
Una piccola parentesi è qui necessaria: perché la quinta (o
quarta) potenza economica europea è ancora priva di questo strumento? Due le
risposte.
La genesi della classe politica italiana. La classe politica
uscita dal Risorgimento era una componente molto elevata, per reddito,
istruzione e “diritti del sangue”, della popolazione: infarcita di romanticismi
stucchevoli, era incapace per formazione a comprendere gli italiani. Si giunse
in queste condizioni alla famosa “crisi” della destra e sinistra “storiche”,
che coincise quasi con la Prima Guerra Mondiale. Poi ci fu il Fascismo, che
ebbe i suoi metri e le sue misure verso il problema (non è mia intenzione
fomentare inutili polemiche di natura storica) e si arrivò, col suffragio
universale, alle classi politiche del dopoguerra. Da nazione sconfitta, non lo
dimentichiamo.
La classe politica che governò per un trentennio era di
buona scuola democristiana, e più “popolare” delle precedenti: godette di un
periodo di buona crescita, ed abdicò quando le condizioni favorevoli (saggio di
profitto) terminarono. Giunse, “tangenzialmente” al potere anche il PCI, ed
alcuni provvedimenti di legge (il pre-salario di 500.000 lire annue agli
studenti, ad esempio, per rimanere in argomento) si fecero notare per la loro
novità in quel panorama asfittico del lungo “dopoguerra”.
A questo punto, se avessimo seguito le orme della maggior
parte d’Europa (pressappoco negli anni ’80), si sarebbe dovuto meditare
sull’assegno di disoccupazione (e la separazione dell’assistenza dalla
previdenza in due bilanci distinti), ma la classe politica era in altre
faccende affaccendata: Tangentopoli, la fine della 1° Repubblica, il cambio di
classe dirigente...e non si fece nulla.
Dopo quella stagione, la genesi della classe politica
divenne caotica, non più regolata da una selezione dei partiti tradizionali: il
nepotismo s’estese, e da qui il sempre maggior menefreghismo verso la
popolazione.
Il resto lo fece l’Europa: i politici capirono che bastava
essere fedeli servi di Francoforte per vivere in una gabbia dorata: ci
aspettiamo che pensino a noi? Pensate a uno come Razzi.
Se l’avo di Gentiloni fu l’estensore del “patto” che riportò
i cattolici in politica, oggi il discendente è quanto di più avulso dalla
realtà si possa immaginare. Credete che riescano veramente a capire un
disoccupato con figli a carico? Vi rendete conto della distanza che c’è fra la
“casta” ed i comuni cittadini? Sempre cafoni, per loro, restiamo.
La seconda ragione è che un terzo del Paese, circa, vive in
un'altra nazione. Le cosiddette “mafie” non sono più “coppola e doppietta” come
li raffigura la tradizione: sono delle holding che procedono, di pari passo,
col potere statale. Laddove lo Stato non arriva – e, credetemi, se il Paese
reale fosse quello delle statistiche, nel Sud ci sarebbero già state
incontenibili rivolte di piazza – giunge in soccorso il potere calmierante
delle mafie, il silente assenso, pagato con gli spiccioli dei mille traffici e
delle attività alla luce del sole, nelle quali i politici si prestano da
tramite per i necessari collegamenti. O pensate davvero che Messina Denaro sia
la Primula Rossa?
Questa parentesi era necessaria per inquadrare lo scenario
dove la proposta del M5S – anche se non è un reddito di cittadinanza, ma un
sostegno al reddito o un assegno di disoccupazione – si va ad inquadrare.
Perciò, non ci sembra da buttare, a patto che “qualcuno”
mediti davvero d’investire 15 miliardi per invertire la rotta di accumulazione
dei capitali seguita da decenni: è fattibile, se solo si decidesse che altre
spese – le mille spese “elettorali” dei partiti, le tangenti su ogni metro cubo
di cemento, le prebende per parenti ed amici, ecc – sono da eliminare.
Non dimentichiamo, inoltre, che il bilancio statale è
gravato da 80 miliardi d’interessi sul debito, ogni anno, e che il pareggio di
bilancio (in Costituzione!) è un bavaglio che non consente più parole, da
qualunque parte giungano le proposte. Qui si apre un altro scenario: quello
dell’Europa, della moneta e della banca di emissione, che sopravanziamo per non
appesantire la trattazione.
Perciò, concludiamo questo punto affermando che la proposta
di un sostegno al reddito del M5S è una buona proposta nel panorama italiano:
basta non definirla reddito di cittadinanza.
Il vero reddito di
cittadinanza
Per iniziare la nostra trattazione, partiamo da un punto di
vista (considerato) non coerente al contesto: il sindacato. Stupirà sapere che
la CGIL è contraria ad un reddito di cittadinanza, poiché continuano a chiedere
“lavoro” per tutti, quando tutti sappiamo che lavoro ce ne sarà sempre meno, a
causa dell’automazione: pare, in quella contrarietà, di scorgere il germe di
un’affezione dovuta più alla convenienza, alla sopravvivenza di se stessi.
Quindi, tutto il cinguettio fra sindacati e confindustria,
Ministero del Lavoro ed INPS – se vogliamo tracciare delle ipotesi per il
futuro – lo dobbiamo zittire.
Appena ci apprestiamo a parlare del reddito di cittadinanza,
diventiamo ansiosi per comprendere “dove si troveranno i soldi”? Mentre la vera
domanda è “senza di esso, può la nostra società sopravvivere?”
Iniziamo a chiarire i punti di vantaggio di un vero reddito
di cittadinanza:
1) Fine delle assistenze, concordate, per chi perde il
lavoro (cassa integrazione, ecc)
2) Fine di tutte le pensioni d’invalidità
3) Fine dei sussidi (semestrali o trimestrali) per la
disoccupazione
4) Fine dei provvedimenti, a carico dei Comuni, per
l’assistenza agli indigenti
I vantaggi:
1) Una società meno ansiosa per la paura di perdere il
lavoro
2) Una maggior calma, da parte dei giovani, per meditare
bene il proprio futuro
3) Una sensibile diminuzione della depressione dovuta allo
sconforto di non avere un reddito
4) Diminuzione dei drammi familiari dovuti alla mancanza di
lavoro
L’errore è, a mio avviso – fra i mille che immaginano e
blaterano di un reddito di cittadinanza – quello di credere che molte, nuove
risorse siano necessarie per addizionarle ai redditi. Non è così.
Dall’America, giunge il famoso “Malibu Paradox”, ossia se si
dovrebbe pagare il reddito di cittadinanza anche ai surfisti di Malibu
(spiaggia del Pacifico rinomata per questo sport). La risposta è “sì”. Perché
non conosciamo, uno ad uno, quegli sportivi, né possiamo immaginare il loro
futuro. Ancora un’immagine mediatica presa a prestito per contrastare
argomentazioni di tutt’altro genere.
Seguendo questo approccio, il “Sole24 Ore” giunge ad affermare
che, per istituire il nuovo reddito, sono necessari 350 miliardi di euro
l’anno. Impossibile, no? Allora non si fa.
Mentre altri, più documentati ed attenti nelle loro analisi,
stimano cifre dell’ordine dei 15-35 miliardi di euro (prof. Fumagalli) e simili
sono le analisi di De Simone, soprattutto per quanto riguarda i risparmi su
altre voci di spesa. Riflettiamo che, per “salvare” – ossia scaricare sullo
Stato i guai di una “loro” banca (vedi i rapporti fra MPS e PD) – il Monte
Paschi, non hanno battuto ciglio a sganciare 20 miliardi sul debito, che
diventeranno, il prossimo anno, circa un miliardo d’interessi in più da
ascrivere a bilancio, pagato – anche questa volta – con quote del “avanzo
primario”, ossia tagliando sanità, scuola e diritti vari.
Ciò che non sopporta questa gente è che un’elargizione
diventi un diritto: come farebbero a crearsi le clientele elettorali? Ancora
una volta, non è l’impossibilità nel percorrere una strada, ma la non volontà:
oh, mica riusciamo più a pagare un voto 50 euro!
E’ evidente che l’istituzione di questo reddito, pur essendo
erga omnes, non significherebbe un’aggiunta a stipendi e pensioni, bensì una
ri-definizione degli stessi. In altre parole, col Reddito di Cittadinanza
bisognerebbe ridefinire salari, stipendi e pensioni.
Il reddito di cittadinanza, quello vero, si configura come
una misura che non può procedere solinga: deve far parte di un processo di
ri-definizione del lavoro, dei salari e delle conseguenti tasse, sul lavoro e,
soprattutto, sui redditi. Esso non è un provvedimento comune di bilancio:
traccia un confine netto fra uno Stato espressione dei poteri che sempre
abbiamo conosciuto – da Cavour in poi – ad un altro Stato, quello che si
sovrappone, in gran parte, all’attuale Costituzione (mai applicata).
Facciamo qualche esempio, solo per pura ipotesi, supponendo
un reddito di cittadinanza di 500 euro:
- Pensione di 1.500 euro: 500 di RdC e 1.000 di pensione.
- Stipendio di 2.000 euro: 500 di RdC e 1.500 di stipendio.
Non è soltanto una mera sottrazione per giungere al medesimo
risultato, perché questo è ciò che apparirebbe nel panorama odierno, per
l’immediato, mentre in divenire tutto il comparto del lavoro sarebbe
rivoluzionato. Dalla novità, rivoluzionaria, che hai diritto di vivere per il
solo fatto di nascere.
Qualcuno afferma: “non si troverebbe più che va a rifare i
tetti” (un mestiere “duro” a caso).
A questo punto, la legge della domanda e dell’offerta
tornerebbe a fare la sua parte: nessuno viene con 1.000 euro? Eh, dalle mie
parti si racconta: “Nemmeno un cane, per 5 lire, muove la coda”. Quando il
salario diventerà di 2.000 euro, sicuro che qualcuno che tira avanti con 500
salterà fuori. Magari lavorerà per sei mesi soltanto: così ci sarà una
turnazione per i lavori più pesanti. Come mai trovano personale per le
piattaforme petrolifere off-shore? Per gli alti stipendi: pochi, però, lo fanno
per tutta una vita già oggi. Mettono da parte un gruzzolo e cambiano mestiere.
Un altro aspetto riguarda la formazione: oggi si vuole fare
ogni cosa in fretta (e bene!). Chiedetelo ad Alessandro Volta od a Leonardo da
Vinci se usavano lo stesso metro.
Più tempo, significa anche più studio, più preparazione per
giungere ad un appuntamento con il lavoro con maggiori sicurezze di svolgere i
propri compiti: oggi, la selezione viene fatta sui posti di lavoro, con pochi
che riescono a farcela e tanti che abbandonano, che non ce la fanno. E questi?
Conosco un ingegnere che vendeva le patatine, in giro col furgone. Può apparire
come una sorta di “darwinismo” sociale, ma il contraltare di tutto ciò è
l’anarchia sociale.
L’anarchia del lavoro che richiede, oggi, la
globalizzazione, non può essere tollerata in sociologia, in pedagogia e nei
rapporti sociali, poiché i costi – umani, relazionali e sociali – li paghiamo
tutti, direttamente o indirettamente.
Inoltre, il lavoro rinegoziato partendo da una posizione di
“non-disperazione” ha maggiori probabilità di giungere ad un successo, e non
solo per il lavoratore: anche per le imprese, che troverebbero persone motivate
e coscienti: per il maggiore guadagno oppure per sintonia con quel settore o/e
mansione.
Una delle fonti di finanziamento per il reddito di
cittadinanza è stata immaginata, per parecchi anni, la Tobin Tax, ovvero un
prelievo (molto piccolo) sulle transazioni finanziarie, anche quelle di chi
compra petrolio e lo rivende dopo pochi secondi.
Stupirà saperlo, ma la Tobin Tax in Italia esiste, come in
altri Paesi europei, solo che è stata congegnata apposta per poter essere
elusa: lo dicono gli stessi addetti ai lavori!
Le difficoltà di riscossione sono, per lo più, legate alle
cosiddette “transazioni istantanee”, ossia su chi compra e vende nel volgere di
pochi minuti, addirittura secondi, per lucrare, anche poco, su grosse cifre. La
maggior parte di queste transazioni, poi, sono eseguite automaticamente via
computer.
Non credo che esistano motivazioni tecniche al fiasco della
Tobin Tax: dobbiamo ricordare che l’idea di James Tobin – che raffinò le sue
analisi a partire dagli anni ’60 del Novecento, ricevendo anche il premio Nobel
per l’economia nel 1981 – era soprattutto quella di ridurre al minimo possibile
queste transazioni istantanee e, soprattutto, il mercato dei derivati, che
tanto danno ha fatto nelle economie reali, a tutto vantaggio delle economie cosiddette
“virtuali”. Ossia, Wall Street ha depredato Main Street. Per questo “non si
riesce a far funzionare” la Tobin Tax: per continuare a depredare.
Un altro esempio, dell’ordine della Tobin Tax, è quello di
tassare con una quota minima le transazioni bancarie.
Facciamo un esempio:
Pago l’affitto tramite banca, ipotizziamo 500 euro.
Applicando l’aliquota del 0,02%, mi troverei a versare per il reddito di
cittadinanza 10 centesimi di euro ogni mese.
Pago il dentista, 2.500 euro: pago 1 euro.
Acquisto un’auto da 15.000 euro: pago 3 euro.
Pago una ristrutturazione edilizia del costo di 20.000 euro:
pago 4 euro
Acquisto un’auto da 75.000 euro: pago 15 euro.
Acquisto casa, per 150.000 euro: pago 30 euro
Acquisto casa, per 450.000 euro: pago 90 euro
Compro petrolio per 5 milioni di euro: pago 1000 euro
Acquisto un complesso turistico/alberghiero per 12 milioni
di euro: pago 2.400 euro.
Qualche esempio pratico:
Le nuove immatricolazioni, in Italia nel 2015, sono state 1.574.872 e 263.000 quelle usate. Assumendo
un valore medio di 30.000 euro per le auto nuove e di 7.000 euro per quelle
usate:
Auto nuove: 9.449.232.000 (9 milioni e mezzo di euro)
Auto usate: 36.820
Non sono considerati, nei dati sopra citati, gli autoveicoli
commerciali e per uso agricolo: tutti di prezzo unitario superiore ai
precedenti.
Dal solo mercato degli autoveicoli, sarebbe possibile
ricavare cifre nell’ordine dei 10 milioni di euro.
Le compravendite immobiliari, nel 2016, sono state 449.000,
per una cifra di 76 miliardi di euro.
Le sole compravendite immobiliari (sempre con il
coefficiente dello 0.02%), avrebbero creato una cifra di 15.200.000 (15 milioni
di euro) da adibire al reddito di cittadinanza.
Non andiamo oltre: riflettiamo che, considerando due soli
universali di spesa, siamo giunti a 35 milioni di euro, quanto deriverebbe da
tutte le transazioni finanziarie? Dalle tegole al parmigiano, alla carne, ai
pomodori, alle lenzuola...forse il PIL? Non lo sappiamo, e nemmeno il PIL può
indicarcelo, perché lo stesso bene passa di mano più volte prima di giungere al
consumo. Però, per ogni passaggio di mano reale – fabbrica, grossista, mercato
ordinario – c’è un guadagno: giusto pagare un’imposta così minima.
Riflettiamo che, negli ultimi anni, l’IVA è stata aumentata
di 2 punti percentuale – cento volte rispetto al nostro scenario! – mentre non
si sono creati nessun problema a comprare una banca per 20 miliardi di euro,
semplicemente aumentando il debito.
35 milioni di euro, comunque, fanno un reddito di 500 euro
mensili, per un anno, per quasi 6.000 persone: non ci sembra una chimera – se
applicato a tutte le transazioni finanziarie – giungere a milioni di persone.
Mancano risorse? E’ più un problema politico che altro: si
possono alzare i coefficienti od altro ancora. Osservate le cifre delle
principali accise ed il loro gettito annuo:
Accise carburanti (2015): 173 miliardi di euro
Bolli auto: 5,93 miliardi di euro
Tassa Tv: più di 2 miliardi di euro
Tasse Enti Locali (sulle buste paga e sulle pensioni): più
di 13 miliardi di euro
Accise gas metano: 3 miliardi di euro
Giochi: 2,5 miliardi di euro
Razziano risorse come soldati di ventura: in totale, le
entrate tributarie dello Stato (2015) sono state pari a 404 miliardi di euro,
mentre le analisi degli esperti concordano su una cifra fra i 15 ed i 30
miliardi di euro per istituire almeno un serio assegno di disoccupazione. E
senza considerare una vera Tobin Tax,
che aprirebbe le porte al vero
reddito di cittadinanza.
Di più: a quanto ammontano le disponibilità dei ministeri?
Rammentiamo che, quelle “disponibilità”, altro non sono che mance elettorali
mascherate, giacché i costi del personale (ordinario) non rientrano in quei
fondi.
Perciò, non ce la raccontino e mettano mano al borsellino:
altrimenti, ci arrabbiamo.
Conclusioni
Abbiamo preso in considerazione tre ipotesi: imposta
negativa, assegno di disoccupazione e reddito di cittadinanza.
Il primo ci sembra, a tutti gli effetti, inutilizzabile
giacché richiede una dichiarazione e/o un’ispezione: tempi troppo lunghi (nella
forma presentata, più di un anno) per chi è quasi alla fame.
Il secondo (quello del M5S) è un serio assegno di
disoccupazione molto simile al sistema tedesco in vigore: è funzionale, ma
ricorda ad ogni passo l’avviamento al lavoro, la ricerca del lavoro, il corso
di aggiornamento per il lavoro. Sembrano non rendersi conto – con tutta la
buona volontà espressa – che domani sarà sempre di più il lavoro a mancare.
Rimane, col vuoto assoluto esistente, una buona proposta, da appoggiare. Ma non
risolverà i problemi nel lungo periodo.
Si potrebbe ipotizzare la formula del “lavorare meno e
lavorare tutti”: questo è avvenuto almeno fino al 1980, con la riduzione
generalizzata dell’orario di lavoro. Poi, come ben sappiamo, i governi hanno
sposato l’idea pazzesca della crescita infinita, catalizzata dai cultori del
neo-liberismo, scuola di Chicago in testa.
Oggi, ne vediamo i frutti: profitti per pochi, tassazione
solo sui redditi medi, povertà per gli altri.
Riconosco che la formula di lavorare meno per abbattere la
disoccupazione affascina (in alcune grandi case automobilistiche tedesche è
stato attuato), ma richiede che quella economia tragga molti profitti, per
calmierare gli investitori e soddisfare le maestranze. Difatti, ho chiarito:
“Germania”, ossia il Paese che si è “mangiato” la possibilità di un’Europa
unita con criteri di giustizia, non una unione di stati assoggettati a dei Gauleiter.
In fin dei conti, nel mondo del lavoro, il reddito di
cittadinanza sortirebbe un effetto abbastanza simile, soltanto che sarebbe il
lavoratore a scegliere dove, come e – soprattutto – per quanto tempo portare
avanti una certa occupazione.
Questo modello, però – non nascondiamocelo – è sì di grande
saggezza per il futuro, ma difficile da far digerire a chi guadagna 1 euro il
pezzo, perché crederà di poter vendere i suoi “pezzi” per un tempo infinito, e
persino aumentarli.
Se qualcuno pensa a scenari di maggiore “presa di coscienza”
dell’umanità, gli auguro tanta fortuna: pur non disdegnando affatto la cosa,
non la vedo presente nell’odierno orizzonte.
Saranno, al più, le condizioni economiche che renderanno
impossibile continuare – crescita zero, occupazione in costante calo, redditi
sempre più corrosi, rifiuti a mille – a rendere obbligatorio un simile passo:
per questa ragione credo sia giusto appoggiare l’assegno di disoccupazione
chiesto dal M5S, non dimenticando mai, però, che è un palliativo.
Di certo, negli ultimi 20 anni, abbiamo visto con i nostri
occhi il degrado della nostra civiltà, a livello planetario, lo abbiamo toccato
con mano, con sempre più difficili condizioni di vita, con sempre più povertà e
violenze.
Non ne facciamo colpa agli economisti, giacché sono soltanto
dei tecnici, ma alla politica, alla gestione della polis quale tutti siamo chiamati per semplice diritto di nascita. Perché
se dieci persone possiedono ricchezza pari a miliardi d’esseri umani, il gioco
è truccato: un conto è premiare il merito e l’inventiva, un altro appropriarsi
di ricchezze sedendosi sugli scranni più alti, quelli dei decisori.
Non serve a niente opporsi? Mah, da come vedo che vanno le
cose, mi sembra che la circolazione delle idee sia, oggi, ciò che più li
impaurisce: la mente, quella, non potranno mai rubarcela.
RispondiEliminaTutto giusto.
Riflessioni di saggezza e buon governo.
I vantaggi per i cittadini e per la società, da te espressi negli otto punti, appaiono palesi.
Peccato che "colà ove si puote ciò che si vuole" vogliano esattamente il contrario di quanto da te auspicato, e perseguano sistematicamente la distruzione dello stato sociale, l'insicurezza sistemica della vita dei cittadini, la rapina dei nostri risparmi.
Persino l'Arabia Saudita ed il Kuwait hanno un reddito di cittadinanza: coloro che non lavorano ricevono dallo stato $500 al mese, o per lo meno erano tali quando frequentavo quei lidi per lavoro, non so se siano variati.
E' opportuno mettere in circolo queste idee, non solo perché servono a controbilanciare il turbo-liberismo fideistico ed il mercatismo di stampo religioso attualmente imperanti, ma perché c'è bisogno di idee nuove, di aria fresca nei nostri cervelli. Parlo per quelli che ce l'hanno, naturalmente, e che li usano.
E comunque nel nostro paese, in cui la costituzione dichiara eguali tutti i cittadini di fronte alla legge, se mai si dovesse parlare di sostegno al reddito, si leverebbe un coro da parte di coloro che ancora indossano elmi longobardi, da parte di femmine scarmigliate con le caviglie ricoperte di anelli d'oro e di rame: "Prima i veneti!", "Solo gli italiani!", "Solo i friulani!". Le truppe di Asterix ed Obelix sono ancora acquartierate nell'Italia settentrionale, e minacciano di oltrepassare il Rubicone. E non c'è più Giulio Cesare per contrastarle. Fra costoro il normale buon senso è merce rarissima.
Sai, Eli, quello che dici sull'Italia del Nord è vero, ma sta attenuandosi. Anche il successo della Lega non è più improntato alla secessione del Nord, quanto all'uscita dall'Europa. Anche qui la crisi morde, i supermercati prolificano e sono sempre più in crisi...non si sente più il "vento di Bossi", perché quell'orgoglio è svanito, portato via dall'euro, dalla deindustrializzazione, dalla corruzione...
RispondiEliminaLo dico solo perché tu vivi lontano, io qui, nel sempre più (s)"profondo" Nord.
Ciao
Carlo
L'autore compie uno sforzo commendevole per trovare le fonti economiche necessarie al sostegno al reddito.
RispondiEliminaForse non ce n'è bisogno.
Anzi, così facendo si accetta implicitamente quello che pretendono gli avversatori del sostegno al reddito, andando di fatto a sostenerne le argomentazioni.
Costoro fanno i loro conti volendo far credere falsamente che i denari elargiti per il sostegno al reddito finiscano in un buco nero.
Cosa evidentemente non vera ma che nessuno si cura mai di rilevare a livello degli organi di informazione allineati, dimostrando che i veri ostacoli sono di ordine ideologico e di volontà politica. Ma soprattutto della destinazione che è stata decisa per questo paese. Che è di declino e non di ripresa.
Le somme inerenti il sostegno al reddito venendo spese per la loro totalità, sarebbero il volano migliore per la ripresa economica e sarebbero caratterizzate da un moltiplicatore ben maggiore e quindi di fatto molto più efficiente di quello attribuito per solito alla spesa pubblica. Proprio perché questa finisce quasi tutta presso le clientele, mentre il sostegno al reddito sarebbe, almeno si spera, a carattere universale.
Delle somme elargite a quel titolo, il 22% rientrerebbe immediatamente nelle casse dell'erario sotto forma di IVA. Inoltre, generando un forte incremento per la domanda aggregata, produrrebbero in primo luogo un aumento del gettito fiscale, conseguente ai maggiori guadagni degli esercenti e fornitori di servizi presso cui quelle somme verrebbero spese.
L'aumento di domanda così prodotto causerebbe la necessità di maggiore produzione, e quindi di assumere personale, da cui riduzione della platea dei percettori del sostegno al reddito e nuovo gettito irpef, iva e tassazioni varie. Ciò indurrebbe poi un ulteriore aumento dei consumi da parte dei nuovi occupati e quindi di nuovo aumento del gettito, del PIL e così via, secondo un circolo virtuoso che in sostanza andrebbe ad autoalimentarsi, ingrossandosi sempre di più.
Una volta a regime dunque si avrebbe che il sostegno al reddito non ha bisogno di essere finanziato ma è esso stesso una fonte di finanziamento per lo Stato.
Non a caso, infatti, i paesi più in crisi dell'eurozona sono proprio quelli in cui il sostegno al reddito non è riconosciuto: Grecia e Italia.
Non lo si riconosce proprio perché le conseguenze di tale sostegno sarebbero il primo, formidabile, ostacolo al destino neo-coloniale che per essi è stato deciso.
Quale dimostrazione migliore?
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L'autore compie uno sforzo commendevole per trovare le fonti economiche necessarie al sostegno al reddito.
RispondiEliminaForse non ce n'è bisogno.
Anzi, così facendo si accetta implicitamente quello che pretendono gli avversatori del sostegno al reddito, andando di fatto a sostenerne le argomentazioni.
Costoro fanno i loro conti volendo far credere falsamente che i denari elargiti per il sostegno al reddito finiscano in un buco nero.
Cosa evidentemente non vera ma che nessuno si cura mai di rilevare a livello degli organi di informazione allineati, dimostrando che i veri ostacoli sono di ordine ideologico e di volontà politica. Ma soprattutto della destinazione che è stata decisa per questo paese. Che è di declino e non di ripresa.
Le somme inerenti il sostegno al reddito venendo spese per la loro totalità, sarebbero il volano migliore per la ripresa economica e sarebbero caratterizzate da un moltiplicatore ben maggiore e quindi di fatto molto più efficiente di quello attribuito per solito alla spesa pubblica. Proprio perché questa finisce quasi tutta presso le clientele, mentre il sostegno al reddito sarebbe, almeno si spera, a carattere universale.
Delle somme elargite a quel titolo, il 22% rientrerebbe immediatamente nelle casse dell'erario sotto forma di IVA. Inoltre, generando un forte incremento per la domanda aggregata, produrrebbero in primo luogo un aumento del gettito fiscale, conseguente ai maggiori guadagni degli esercenti e fornitori di servizi presso cui quelle somme verrebbero spese.
L'aumento di domanda così prodotto causerebbe la necessità di maggiore produzione, e quindi di assumere personale, da cui riduzione della platea dei percettori del sostegno al reddito e nuovo gettito irpef, iva e tassazioni varie. Ciò indurrebbe poi un ulteriore aumento dei consumi da parte dei nuovi occupati e quindi di nuovo aumento del gettito, del PIL e così via, secondo un circolo virtuoso che in sostanza andrebbe ad autoalimentarsi, ingrossandosi sempre di più.
Una volta a regime dunque si avrebbe che il sostegno al reddito non ha bisogno di essere finanziato ma è esso stesso una fonte di finanziamento per lo Stato.
Non a caso, infatti, i paesi più in crisi dell'eurozona sono proprio quelli in cui il sostegno al reddito non è riconosciuto: Grecia e Italia.
Non lo si riconosce proprio perché le conseguenze di tale sostegno sarebbero il primo, formidabile, ostacolo al destino neo-coloniale che per essi è stato deciso.
Quale dimostrazione migliore?
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In fin dei conti, Leo, tu affermi che sarebbe necessaria una redistribuzione della ricchezza che, in soldoni, è la pura verità. I mezzi possono essere tanti. Chiamandolo reddito di cittadinanza, però, stabilirebbe un diritto, una categoria del pensiero che oggi non è presente nel dettato economico. Per questo c'è molta resistenza ad attuarlo. Ciao. Carlo
RispondiEliminasign carlo una domanda... anzi un dubbio... ma non e' che che RD universale crea un effetto inflazionario?
RispondiEliminaIo direi, sig. Pansera, che con i chiari di luna attuali non ci sarebbero questi rischi: siamo in deflazione!
RispondiEliminaSaluti
Tutto questo impegno, Carlo mio... per arrivare a sostenere un sussidio di disoccupazione pitocco, per di più condizionato alla frequentazione di corsi di formazione, e all'accettazione di proposte di lavoro purchessia (perché se non ricordo male, la proposta dei 5 Stelle prevede che alla terza offerta di lavoro rifiutata il sussidio viene ritirato, o no?).
RispondiEliminaA ogni modo, il fatto che il reddito di cittadinanza debba prevedere una decurtazione del salario o della pensione non mi sembra molto funzionale. Oltre a costituire un precedente pericolosissimo, determinerebbe un abbassamento del potere d'acquisto di chi ne è oggetto. Eh sì, se a me da un giorno all'altro mi togli cinquecento euro di mesata mi costringi a rovistare tra gli avanzi del mercato, come quel signore della foto. Studiamola meglio, e facciamo che comunque il reddito da lavoro, o la pensione sono diritti acquisiti che non si toccano.
Io non sostengo la proposta M5S, che è un sussidio di disoccupazione - anche se ritengo che sia meglio di niente - ma un vero RdC, erga omnes. Ciao
RispondiEliminaComunque te lo confermo: la proposta grillina prevede che i percettori del reddito di cittadinanza siano tenuti (articolo 11) a svolgere attivamente ricerca di lavoro per almeno due ore al giorno, e a recarsi per due volte al mese presso il centro per l'impiego. Nell'articolo 12 è precisato che il percettore del reddito perde il diritto alla percezione del medesimo qualora non ottemperi a tali prescrizioni, oppure "qualora sostenga più di tre colloqui di selezione con palese volontà di ottenere esito negativo, "accertata dal responsabile del centro per l’impiego attraverso le comunicazioni ricevute dai selezionatori o dai datori di lavoro, c) rifiuta, nell’arco di tempo riferito al periodo di disoccupazione, più di tre proposte di impiego ritenute congrue ai sensi del comma 2 del presente articolo, ottenute grazie ai colloqui avvenuti tramite il centro per l’impiego o le strutture preposte di cui agli articoli 5 e 10; d) recede senza giusta causa dal contratto
RispondiEliminadi lavoro, per due volte nel corso dell’anno solare;" [...]
Ora, se un diritto è tale, lo è incondizionatamente, ed è facile vedere come tale impianto sia volgarmente ricattatorio, con elementi di totalitarismo, volto a creare una società di "forzati del lavoro". Quindi, per come la vedo io la proposta dei 5Stelle è molto peggio di niente, e come tale da avversare energicamente.
Aggiungo un'altra cosa: la relazione preliminare alla proposta di legge dei 5Stelle parla, in effetti, della preferenza per un reddito di cittadinanza incondizionato, che prescinda dal fatto se si lavori o no. Poi, però, ritenendo la proposta per ora inapplicabile, ripiega sul reddito minimo garantito, condizionato all'accettazione di proposte di lavoro più o meno adeguate, alla frequentazione di corsi di aggiornamento, alla presenza per due volte al mese al Centro per l'impiego. E' la classica politica dei due tempi, che in genere è un film che si ferma al primo tempo.
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