“Ogni volta che qualcuno dice di non credere alle fate, una Fata muore.”
James Matthew Barrie –
Peter Pan – 1902
Se ne parla, si scrive, si dibatte, si litiga...ma ciascuno
per proprio conto, avendo un’idea del reddito di cittadinanza diversa dagli
altri, senza una vera base sulla quale confrontarsi.
Cercherò, se ne sarò in grado, di fornire qualche
indicazione in merito avendo come “faro” per questa analisi gli scritti di
Domenico de Simone e le analisi del prof. Fumagalli dell’Università di Pavia.
Gli unici, a mio avviso, ad aver centrato in pieno il problema, ossia che non
si tratta di creare un nuovo assegno di disoccupazione, né una pensione
riveduta e corretta.
Per questa ragione, partiamo da lontano.
Qualche riferimento
storico
Se spiccassimo un salto nella Mezzaluna Fertile – circa
10.000 anni or sono – siamo certi di quel che incontreremmo: una albero di
mele, selvatiche, poiché all’epoca non esisteva ancora la tecnica degli innesti.
C’erano, anzi, più alberi di mele...e poi pere, susine,
ciliegie...e tutto il resto, che era a disposizione di chiunque le
raccogliesse: forse c’era una rudimentale forma di proprietà? Non importa,
perché gli alberi di mele (o simili) abbondavano, ed erano superiori alle
possibilità umane di raccolta. Quando non lo furono più, si meditò come
migliorarle: secondo Jared Diamond – Armi, acciaio e malattie – i primordi delle
tecniche di miglioramento genetico presero vita nei cessi a cielo aperto dei villaggi.
Ognuno cercava, per sé, i migliori frutti, le più rigogliose piantine da
trapiantare: ecco la prima base della selezione genetica. In ogni modo, era
disponibile un patrimonio di frutti per puro diritto di nascita: bastava
raccoglierli.
Saltiamo a piè pari qualche millennio ed atterriamo nelle
Pianure Centrali nord-americane nell’anno 1.500 D.C., cosa troviamo? Un popolo,
i Nativi, che cacciano il bisonte a piedi (il cavallo fu introdotto, anzi,
probabilmente re-introdotto, dagli europei) con l’arco e raccolgono verdure e
frutta selvatiche. Una bella fatica, certo, ma le risorse erano a disposizione
di tutti e superiori al possibile consumo.
Di qua dell’Atlantico, invece, i contadini potevano servirsi
delle terre comuni, dove raccogliere
verdure selvatiche, frutta, miele selvatico, funghi e legna. Al tempo del
leggendario Robin Hood, ad esempio, i ribelli (veri) s’installarono proprio
nelle terre comuni, che i feudatari dell’epoca non potevano controllare per
mancanza...di controllori!
Appena la nobiltà si riorganizzò – siamo sotto Luigi XIV –
presero il via le cartolarizzazioni,
vale a dire la compravendita di patenti di nobiltà sulla base di cessione (vere
o presunte) di terre: è facilmente comprensibile dove i feudatari andarono a
scovare nuovi territori – le nuove colonie erano ancora lontane – ossia nelle
terre comuni. Fine della proprietà comune di terre e beni agricoli: circa 4
secoli or sono. Le terre comuni furono lo stesso denominatore per le
rivoluzioni inglese e francese.
Da quel momento in poi, ogni forma di proprietà comune è
stata perseguitata e/o derisa: da ultimo, abbiamo subito un furto colossale,
che ha riguardato le cosiddette “privatizzazioni”, ossia centinaia di miliardi
di euro rapinati alla proprietà industriale pubblica e finiti in mano private.
La crisi economica? Cercate (anche) da quelle parti (1).
Oggi, non è più possibile avere proprietà che non
appartengano a qualcuno: per pura curiosità, all’isola di Tristan da Cunha
(corona britannica) la proprietà privata è stata istituita nel 1999, senza che
nessuno ne avvertisse il bisogno.
Anche ogni forma d’autosufficienza è ostacolata, almeno per
ciò che riguarda lo “staccarsi” dalle comuni reti di rifornimento di beni:
personalmente, coltivo l’orto, le olive per l’olio, raccolgo frutti da alberi
abbandonati, funghi nel bosco, faccio il sapone con l’olio esausto ed ho
costruito, da solo, un impianto per l’acqua calda ma non per questo posso dirmi
autosufficiente.
I prelievi che lo Stato compie – spesso in cambio di nulla –
sono eccessivi e moltiplicati da amministrazioni locali fameliche: non
m’interessa fornire cifre sulla tassazione, perché sono tutte fasulle, basti
pensare che ogni bene è gravato da imposte indirette per più del 20%.
In questo scenario, parlare di reddito di cittadinanza
sembra una nota stonata: “chi non lavora non mangia” è un detto antico che
sembra incontrovertibile. Per avvicinarci a questo concetto dobbiamo fare
sforzi immani, per non convincerci – da soli – che stiamo progettando una
pazzia. Eppure, non lo è – come vedremo in seguito – anzi, può essere la
salvezza per questo mondo veramente pazzo.
Il dilemma di un
diritto
Se desideriamo cercare nel diritto qualcosa che giustifichi
il reddito di cittadinanza, per prima cosa dobbiamo pensare alla nostra nascita:
siamo venuti al mondo senza sapere un perché – per volere di un Dio o per la
legge del karma, non importa – ma la prima domanda che, probabilmente, ci siamo
posti è stata: “Qual è la mia parte di tutto questo?” Io, sono arrivato a 49
anni per avere una casa di proprietà: beninteso, col mutuo da pagare fino alla
pensione.
Qual è il senso di giustizia di una simile situazione? Che
differenza c’è fra chi nasce con dieci case e chi con nessuna? Nel reparto di
Maternità sembravamo tutti uguali.
Eppure, la discriminante della nascita ha posto un confine,
un limite: e quando il limite era insuperabile? Non sei nobile? Peccato...una
vita di m...ti aspetta. Confida in Dio o nella prossima vita.
Non si tratta, qui, di riscrivere il dibattito filosofico di
25 secoli, ma di estrapolare un nuovo mezzo che consenta un ulteriore passo in
avanti (o la sopravvivenza) della nostra civiltà: dopo aver abolito i privilegi
del sangue, riflettiamo su come far essere, almeno, garantiti quei neonati del
reparto di Maternità.
Nei fatti, oggi, già lo sono: nessuno, in Italia, muore di
fame e nemmeno mancano i soldi per la ricarica del telefono o per le sigarette:
gran parte di questo compito spetta, ora, alle famiglie che non ce la fanno più
a reggere il peso di una società che produce tantissimo e non ha mezzi per
acquistare gli stessi beni. Difatti, dove non c’è una famiglia alle spalle, per
molti non rimane che la Caritas ed i cartoni per opporsi al gelo.
Il guaio è epocale: per parecchi decenni tutti gli
incrementi di produttività sono stati incassati dai capitalisti, i quali – oggi
– constatano una nuova crisi dei consumi, come avvenne nel 1929. “Acceso” il
fuoco sotto la “caldaia” cinese, incassati profitti e dividendi, ora che anche
il mondo sembra andare stretto per l’espansionismo economico cinese, non si sa
far altro che proclamare ai quattro venti lo scoppio di una crisi. Non dovrebbe
essere il compito dell’economia quello di risolverle?
Sapevamo da almeno un secolo che le macchine avrebbero
centuplicato ogni prodotto con facilità, eppure siamo rimasti legati ad un
concetto medievale: “chi non lavora non mangia”, piuttosto si butta via il
cibo, come fanno ogni giorno i supermercati italiani.
La Costituzione che abbiamo appena difeso, all’art. 4
recita:
“La Repubblica riconosce
a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano
effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le
proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che
concorra al progresso materiale o spirituale della società.”
Come si nota, l’articolo è suddiviso in due sezioni: la
prima dove si parla chiaramente di lavoro, mentre nella seconda i concetti sono
più sfumati: “attività”, “funzione” che concorrano al “progresso materiale o spirituale”.
La prima parte richiederebbe una riflessione: oggi, la
Repubblica non è in grado di riconoscere quel diritto, né riesce a
“promuoverlo”.
Il motivo è semplice: siamo in mezzo a lupi famelici, che
s’arrabattano con qualsiasi boccone per calmare la loro fame. Prova ne sia che,
recentemente, persino la Corte di Cassazione ha dichiarato legittimo un
licenziamento soltanto perché consentiva all’azienda “più profitti”.
Molti nemici, poco
onorevoli
La miscela esplosiva dei “nemici” è composta dai membri dei
consigli d’amministrazione industriali, bancari, assicurativi, ecc – gente che
ha molto potere sui media – e, nonostante non siano in numero esorbitante,
trovano nel denaro uno strumento per “languire” le coscienze univoco e
determinante.
Difatti, la più comune obiezione al reddito di cittadinanza
è sempre “nessuno più lavorerebbe” oppure (Elsa Fornero dixit) “gli italiani si
farebbero solo più dei grandi piatti di pastasciutta”: messaggi semplici ed
intuitivi, contro argomentazioni che passano dalla filosofia all’economia, che
necessitano di un pubblico attento e responsabile.
Vorremmo chiedere a questa gente “dove” troveranno posti di
lavoro quando una sola fabbrica con – poniamo – cento dipendenti passerà dal
produrre 10.000 telefonini il mese a sfornarne 100.000 grazie a nuove macchine
(Marx ha dimostrato che non tutti andranno a costruire nuove macchine: solo una
piccola parte, è scritto nella storia stessa del capitalismo). Sono in grado
d’assicurarci un incremento dei posti di lavoro pari a 10 volte? Eppure, questa
è la storia del fordismo, delle macchine, lo sappiamo bene.
Il grande ostacolo, prima che tecnico od economico, si
chiama “etica del lavoro”, come immaginarsi di parlare di abolizione della
schiavitù in un mercato dell’antica Roma: le sassate erano certe.
Il senso comune di etica del lavoro risale a Marx ed
Heidegger, mentre De Simone ne dà una lettura diversa, direi più “mediatica”,
ossia l’esaltazione del lavoro come forma nobile di risposta alle avversità del
mondo naturale, qualcosa a metà fra Stakanov che forgia l’acciaio e Mussolini
che miete il grano: notate che le due figure sono molto simili, portano
identico messaggio “lavorare è giusto e bello”. Appartengono, inoltre, agli
stessi anni, quando i rispettivi regimi mostravano nel lavoro la risposta ai
vari nemici esterni ed interni.
Perché nessuno ripropone, oggi, simili esempi? Perché
sarebbero degli insuccessi pubblicitari, garantito.
Eppure, il lavoro ci mostra anche oggi la sua forma etica (o
di esaltazione) nell’uomo con il casco giallo in testa che avvita un bullone in
una torre di trivellazione, oppure in una donna in camice bianco che osserva
una provetta...cambiano i modelli, gli schemi seguono i tempi, ma lo scopo è il
medesimo.
Il lavoro ha bisogno di pubblicità per sopravvivere, giacché
il lavoro obbligatorio è una sorta di pena, con “fine pena” intorno, oramai, ai
settant’anni: come recepiscono il lavoro a voucher i giovani? Come una
dannazione, una pena necessaria per vivere. Non è certo questo il lavoro
immaginato in Costituzione, e ci confortano i Latini che usavano due termini
distinti: labor ed opus.
Gran parte delle responsabilità di tutto ciò risiedono nella
“vendita” di loro stessi che hanno preferito operare i sindacati, per i succosi
“trenta denari” che ben conosciamo. Per questa ragione, non ci si deve infilare
nei ragionamenti sindacati/confindustria/finanza – né immaginare sussidi di
disoccupazione – perché questi mezzi sono viziati all’origine da una scelta
obbligata, quella del lavoro. Bisogna rilanciare, perché ne abbiamo tutto il
diritto: non è facile comprenderlo.
Anzitutto, dal fordismo in poi, cosa è cambiato? Con
l’invenzione del telaio meccanico, della pressa, del tornio...cosa è mutato?
L’ingegno umano ha creato macchine che sostituivano, meglio
e più in fretta, parte del lavoro manuale. Chi ne è stato l’artefice?
E’ quasi impossibile fornire questa risposta, l’unica che
abbia senso è “le generazioni precedenti”, senza distinzione fra lavoro e
capitale.
Oggi, questa eredità, a chi appartiene?
Ai successori: a noi, ai nostri figli e nipoti, non al Fondo
d’investimenti di Vattelapesca, il quale sta alla finestra, osserva chi genera
i più succosi profitti, investe i suoi capitali (frutto di un’anomala e
sbilanciata ripartizione fra profitti e salari) e soddisfa, così, i propri
“adepti”, che ringraziano con Rolex d’Oro e sontuose prebende chi s’adopera per
questo mercimonio.
Perché, ragazzi cari, per ogni fondo che s’arricchisce c’è
un intero quartiere che precipita nella povertà: questa è gente che non fa
assolutamente nulla – dei veri mangiapane a tradimento – come la giuria di Miss
Italia, solo lì per misurare fianchi e petti, nient’altro!
L’indice di Gini cresce sempre, ci racconta che la
sperequazione dei redditi aumenta ogni giorno che passa, eppure parlare di una
misura che porterebbe maggior equità sociale, consumi più “livellati” su beni
necessari e meno spreco è vista come la peste. Per loro, indubbio: per questa
ragione lo accusano d’ogni male!
Conclusioni (prima
parte)
Qualcuno obietterà che ho sprecato tempo e spazio per dei
concetti ovvi: buon per lui se questa è la sua opinione, ma non sono certo che
le cose fossero così chiare per tutti. Il reddito di cittadinanza è un diritto
dovuto, per l’incapacità degli economisti ad indicare un’alternativa, valida
nel tempo, alla spirale impazzita automazione-produzione-consumo-rifiuti.
La sola via d’uscita per la società umana è una
re-distribuzione dei redditi: ogni altro “rimedio” conduce inevitabilmente a
guerre, sangue e disastri infiniti.
Quando lo capiranno?
Mai, risponde qualcuno. Non sarei così certo.
La notizia che la Cina sta spostando l’obiettivo del proprio
apparato produttivo verso il mercato interno significa solo una cosa: le
esportazioni languono rispetto ai “tempi d’oro”, quando qualsiasi bene veniva
acquistato, in Occidente, solo per i bassissimi prezzi d’acquisto. E’ un
segnale (per qualcuno) preoccupante, non certo per i disastrati europei ed
americani, ai quali – detto fuori dai denti – di quanto e come mangiano i cinesi non importa
una mazza.
Per questa ragione anche gli apparati iniziano ad
interessarsi, ad introdurre nel dibattito sui media la nuova parola, il nuovo
termine “Reddito di cittadinanza”, a non considerarlo più un tabù, anche se gli
studi ed i dibattiti datano oramai da almeno un secolo, mentre la codificazione
ufficiale nella storia dell’economia è del 1795.
Hanno paura, una paura dannata che i rendimenti dei fondi
d’investimento precipitino per mancanza di domanda: allora abbozzano, chinano
la testa, soltanto un pochino. E’ solo carità pelosa: non illudiamoci.
Nella seconda parte proseguiremo, ampliando i concetti qui
espressi ed “incrociandoli” con le varie proposte e le indicazioni in merito di
economisti, politici, giornalisti, scrittori, ecc.
Non cediamo, però, ricordiamo che non si può monetizzare il
diritto alla sopravvivenza: è un nostro diritto, non una carità dello Stato.
Anzi, dovrebbe essere il suo compito primario.