Più questa crisi avanza, e più m’accorgo ch’era assolutamente certo che avvenisse. Lo sapevo da tanto: anzi, era una domanda che avevo iniziato a pormi quand’ero adolescente.
Nessuno proferiva la parola “crisi” negli anni ’60: il vocabolo utilizzato era “congiuntura”. La “congiuntura”, etimologicamente, è qualcosa che “congiunge” due periodi ed è quindi un elemento di labile rottura nel continuum temporale: dunque, la “congiuntura” può essere anche un periodo favorevole, un “giro di boa”. L’uso del termine, in economia, deriva dal tedesco Konjunktur, e non è che un passaggio leggero fra due, diversi approcci del capitalismo internazionale.
E’ interessante notare che la “congiuntura” non considera essenziale l’intervento umano: è una sorta di leggera influenza, che si risolve da sola, stando a letto e bevendo spremute d’agrumi.
Il passaggio dai sistemi elettromeccanici controllati dall’uomo – nella grande industria – a quelli a controllo numerico (informatico), degli anni 70-80 del Novecento, può essere indicato come un fattore determinante della “congiuntura”, ossia il transito da un sistema meno automatizzato (maggior presenza umana) ad un altro più efficiente, per la diminuzione delle ore/lavoro necessarie per produrre un singolo bene.
Fin qui, nulla di strano: basta rileggere Marx.
Oggi, il termine è desueto: solo per una questione di stile? Parrebbe di no, ed alcune “prudenze” linguistiche sono state addirittura consigliate dal Presidente del Consiglio. Perché?
La tessera P2 n. 1816 – Silvio Berlusconi – lavora alacremente per ridurre l’Italia ad una sorta di “grande Mediaset" – questo lo sappiamo – laddove un solo Konducator indica la via da seguire. Gli altri, seguono.
Ne è un esempio la recente bagarre scoppiata in seno al Consiglio dei Ministri – Scajola ha abbandonato la seduta sbattendo la porta ed esclamando il classico “non finisce qui” (finirà lì Scajola, mi creda, e lei tornerà ad assentire, ossequiente, come sempre ha fatto, così come i suoi colleghi Bossi, Bondi, Gelmini, Carfagna…) – perché Berlusconi ha avocato a sé la gestione di tutti i fondi stanziati per fronteggiare la crisi (in gran parte “riciclati” da precedenti stanziamenti, addirittura del precedente governo, si veda la prima stesura del D.M. n. 122).
In effetti, quelli che Berlusconi indica come “abbondanti risorse” stanziate, in realtà sono soltanto indicazioni di bilancio ma, in cassa, non c’è nulla. Per questa ragione strombazzano solo grandi opere: perché, per fare quelle piccole (per le quali, sarebbe difficile accampare scuse) i soldi dovrebbero scucirli davvero.
Ovviamente, tutti hanno mostrato il borsellino drammaticamente vuoto, ma il Konducator è passato oltre, adducendo che la situazione richiede procedure eccezionali. Perché? Per superare la crisi.
Ecco, il termine che viene oggi usato per indicare le mestizie nella quali siamo imprigionati.
L’etimo della parola “crisi” – krisis (gr) – non indica, però, un elemento di per sé negativo poiché significa “scelta” o “giudizio”, ossia un’azione che prevede la partecipazione attiva del soggetto: sì, scegliere, proprio quello che ci viene impedito di fare.
E’ allucinante leggere i comunicati dell’Epsco (Consiglio per l'Occupazione, la Politica Sociale, Salute e Consumatori), dove si leggono le proposte per affrontare la crisi economica e la disoccupazione[1]:
(la crisi) “sta arrecando grossi danni ed esige interventi urgenti,,,(per prevenire e combattere la disoccupazione) senza intaccare le riforme del mercato del lavoro…evitare le misure che favoriscono il ritiro prematuro dalla vita lavorativa, quali programmi di prepensionamento o limiti d'età per le opportunità di formazione, in modo tale da mantenere e aumentare la partecipazione al mercato del lavoro…affrontare l'adeguatezza e la sostenibilità a lungo termine dei sistemi pensionistici con riforme adeguate…”
Siamo nelle mani di una masnada di folli e nessuno, ovviamente, ha intenzione di cambiare strada: le cose vanno bene così e, se dovessero peggiorare, accelereremo ancor più nel percorso che ci ha condotti a questo sfacelo. Speriamo che il muro, in fondo alla via, non sia di cemento armato.
Ovviamente – se qualcuno potesse scegliere – le scelte dovrebbero essere agghindate d’aggettivi, anzi, è quasi essenziale indicare, tramite la coloritura di un aggettivo, ciò che c’attende. Avremo così scelte difficili, gioiose, liberatorie, drammatiche, ininfluenti, coraggiose…
L’unico aggettivo proibito dal Konducator è stato proprio quel “drammatico”, subito cassato a Tremonti, perché – checché se ne dica – la tessera P2 n. 1816 è il più formidabile comunicatore della Penisola. I suoi fini sono marci fino al midollo, ridurrà l’Italia ad una pletora di zombie – perché è bravo a comunicare e ad organizzare, ma manca della cultura di base necessaria per svolgere una vera funzione politica e di governo – ma, sull’esternazione, nessuno lo batte. Potrete scrivere e blaterare ciò che vorrete: lui, farà la solita battuta cretina, s’arrufferà in ragionamenti semplici, da mercato rionale, e quel 60% d’italiani che non legge mai un libro abboccherà contento. Non c’è niente da fare.
Si può batterlo usando le sue stesse armi, soprattutto l’informazione e la satira: questa asserzione, è rivolta a coloro i quali credono che basti una solida “linea Maginot” per la difesa della Costituzione (per la tutela della quale, sia ben inteso, il sottoscritto ha firmato). Lui, della Costituzione, se ne frega: pubblicherà (a nostre spese) qualche libercolo nel quale comparirà con la solita calza di nylon per mascherare le rughe e magari racconterà una barzelletta.
Perché la parola “crisi” deve essere bandita? Poiché esiste sempre quel 20% di persone che leggono e s’informano, le quali oggi non hanno peso ma domani, qualora i morsi della rovina economica dovessero dissanguarci, potrebbero ricordare che c’era “crisi”, e dunque scelta. Quali scelte?
Spicchiamo, prima, un salto indietro nel tempo, quando c’era soltanto “congiuntura”.
Una delle immagini che iniziò a sconcertare, nella placida prima “congiuntura” degli anni ’60, fu quella dei trattori che distruggevano tonnellate d’arance nel Meridione. Per comprendere quanto quelle immagini fossero dirompenti, dobbiamo riflettere che non erano ancora trascorsi vent’anni dalla Seconda Guerra Mondiale, quando un chilo di pasta era ciò che s’aveva per campare una settimana. Distruggere il cibo?!? Una bestemmia, e così era colta dalla maggior parte degli italiani i quali, già allora, non s’accorsero che quelle erano già “scelte”, solo che qualcuno le compiva al posto nostro. Conosciamo la ragione di quelle distruzioni: sovrapproduzione, concorrenza internazionale, ecc…ma il messaggio che – già allora! – passò era che si doveva, in primis, salvaguardare il mercato degli agrumi. Siccome il “mercato” non poteva che salvaguardarsi da solo, s’applicava la legge della domanda e dell’offerta, e via col tango.
Senza scomodare la scomodissima ragione illuminista, basta il buon senso per capire che non è logico né razionale impiegare ore/lavoro, concimi, energia, ecc, per poi schiacciare il prodotto sotto le ruote dei trattori: c’era, evidente, un vulnus perché, da quando mondo è mondo, le derrate alimentari servono per sfamarsi.
Dopo qualche anno di trasmissioni della solita scena – i trattori che schiacciano, ecc – la notizia non fu più notizia, e s’addormentò nel retrobottega dei palinsesti televisivi. Così, il primo imprinting era stato dato.
Ma gli anni ’60 – da qualcuno definiti “favolosi”, non saprei perché – volgono al termine e, nel 1969, una scolaresca attende, nelle assolate giornate di Maggio, che s’arrivi finalmente a Luglio per correre alla lotteria della nuova maturità – “provvisoria”, beninteso – declamata come la rivoluzione della scuola italiana, quella del ministro Sullo. Tanto “provvisoria” che durò fino al 1999.
La tensione per la nuova maturità scivola, sotterranea, fra i banchi e fa caldo: la finestra è aperta, giungono effluvi di fiori e la voglia è poca. Anche il professore – un meridionale colto, fisico un po’ flaccido, aria perennemente stanca – non ha gran voglia, e allora si parla. “Si fa” a domande e risposte: talvolta si tenta ancora oggi di farlo, solo che si corre il rischio che ti domandino se hai guardato l’Isola dei Penosi.
Un allievo medita, ricorda precedenti discussioni – formali ed informali – e domanda «Professore, lei sostiene che è inevitabile una contrazione della manodopera nell’industria poiché il fordismo e la produzione su vasta scala s’affermano ovunque. Il fenomeno produce inesorabilmente disoccupazione: chi non avrà lavoro, che farà?»
Il professore quasi ringrazia per la domanda, che consente a quella piccola comunità di scapolare una mezzora noiosa, ma si rende conto che la risposta non può essere che sintetica: «Vede (allora, ci si dava del “Lei”), solo lo Stato può compensare la diminuzione dell’occupazione: le persone che non troveranno occupazione nell’industria saranno assorbite dai servizi. Il mondo dei servizi al cittadino è in espansione: quella è l’unica strada percorribile.»
Certo – pensa il ragazzo – meno occupati a costruire automobili e più infermieri negli ospedali…ma…chi paga?
Intanto, altri stanno argomentando e deve attendere il suo turno.
Finalmente, può porre la domanda: «Professore, se lei afferma che i disoccupati saranno assorbiti nei ruoli pubblici, il gravame economico per lo Stato aumenterà, dovranno aumentare le tasse…insomma, chi pagherà?»
Il professore non aveva una risposta, però lui era il professore e gli altri semplici allievi: «Come le ho già detto, lo Stato sarà la cassa di compensazione, ci sarà un’inevitabile aumento dei dipendenti statali.»
Già, lui può ripetere due volte la risposta senza rispondere: se lo fai tu, mica la passi liscia. Di più: è pure fortunato, perché suona la campanella.
In ogni modo, il professore ebbe ragione: l’anno seguente (1970) fu varato l’ordinamento regionale ed iniziò “l’otto volante” della spesa pubblica. Nuove competenze furono inventate per nutrire l’espansione incontrollata del ceto politico da piazzare nelle Regioni, le Province furono compensate – già allora, per salvarle! – con la ripartizione del personale scolastico, mentre i Comuni ebbero le Circoscrizioni. Gli italiani, impararono che non si può essere presi a calcinculo solo dallo Stato, ma anche dalle amministrazioni periferiche.
Eppure, riflettere su questi brevi aneddoti, può aprire molte “porte” sull’infinito dissertare del malaugurio economico che stiamo vivendo. Oops! Scusate: se Saddamoni mi sente, mi dà del disfattista.
Non vale sperticarsi in tremebondi aruspici: chi lo fa, compie un’azione semplice, ossia “lo scrivo, poi i casi saranno due. O l’evento non si compirà – e sarò presto dimenticato – oppure si manifesterà, e allora potrò scrivere il classico articolo sul “io ve lo avevo detto”. Non è questo il modo di fare informazione.
Sulle radici internazionali e geopolitiche di questa crisi non intendo ripetermi; chi vorrà prenderne visione, potrà leggere il mio “Ma cos’è questa crisi?”: oggi, vogliamo addentrarci fra le possibili soluzioni.
La prima considerazione da fare è che la logica del mercato che si auto-regolamenta è fallita: a dire il vero, non è mai esistito un mercato completamente libero dall’intervento umano, ma alcune situazioni (gli USA prima della Grande Depressione, ad esempio) s’avvicinarono molto.
Allo stesso modo, non è mai esistita un’economia completamente diretta dallo Stato: anche nell’URSS, il 3% delle terre coltivabili era a conduzione privata.
In mezzo a queste due, estreme impostazioni, c’è la cosiddetta economia “mista”, la quale si nutre d’entrambi i principi, cercando – in questa difficile mediazione – di trovare l’equilibrio più soddisfacente. Ma non finisce qui.
Un altro fattore da considerare è l’aggregazione sul territorio dei soggetti economici – chi produce beni e servizi – che l’affermazione degli stati nazionali riunì in universali piuttosto ampi, mentre – precedentemente – i “localismi” avevano maggior peso. Si pensi, ad esempio, alla Germania prima dello Zollverein.
Quindi, la produzione e la ripartizione delle risorse devono tener conto d’entrambi i fattori: geografici e politici, per riassumere in breve i due aspetti.
Oggi, il “succo” della crisi – che non riteniamo sarà la fine del capitalismo, così come lo osserviamo – è che uno spostamento verso il liberismo economico ha prodotto guai a non finire. Non ci riferiamo soltanto agli ultimi atti – la truffa di creare valore fasullo dal nulla, per compensare una ricchezza che è migrata verso altri lidi – poiché quel processo è iniziato già con la deregulation di Reagan, con la politica antipopolare della Thatcher, con la dismissione a prezzi stracciati delle Partecipazioni Statali. Insomma: il mondo ha preso l’abbrivio verso forme di Far West, liberandosi delle “pastoie” che una schiera d’economisti keynesiani pretendevano d’imporre. Dimenticando che Keynes fu solo una delle “cure” per la Grande Depressione: l’altra, fu la Seconda Guerra Mondiale.
Cercare aiuto dalle parti di John Maynard Keynes, oggi, sarebbe come chiedere a Pietro Badoglio un parere per uscire dall’impasse in Afghanistan: è l’angolo degli sprovveduti, poiché il pianeta ha mutato pelle.
Gli stati che applicarono le dottrine keynesiane erano nazioni poco o per nulla indebitate, che possedevano la gran parte dei mezzi di produzione del pianeta e che avevano, proprio nel resto del pianeta, le fonti d’approvvigionamento di materie prime a basso costo, poiché la manodopera era coloniale.
Si può ragionevolmente ipotizzare d’applicare “ricette” usate all’epoca nel nostro tempo? Modificarle? Modernizzarle? Probabile, ma bisogna allora affrontare quella scelta – krisis – che si tende a negare con mezzi e mezzucci mediatici.
In definitiva, dovremmo stabilire quale sistema economico applicare, cercando di non incorrere in plateali errori del passato e neppure esternare affermazioni sì accattivanti ed apparentemente risolutive, che però nessuno sa quali frutti potranno produrre.
Il primo approccio è sempre l’analisi: ciò che è stato applicato nelle epoche storiche a noi vicine (andare lontano complicherebbe la faccenda, dovremmo introdurre sempre più fattori di “correzione”) ed osservare quali effetti produsse.
Per quanto riguarda la dimensione delle entità economiche, oggi si tende a ritenere che economie su piccola scala siano più a misura d’uomo e che il pianeta possa, con questo approccio, meglio sopportarci.
Si tratta di un’avvincente ipotesi, ma mancano gli elementi per affermare che un mondo di comunità sarebbe migliore di quello attuale. Anzitutto, quali attributi assegnare a queste comunità? L’autosufficienza produttiva totale? Lo scambio? Perché – se si ammette lo scambio, ossia se non si ritiene percorribile la via dell’autosufficienza – si torna a dissertare di valore, e dunque di monete o quant’altro per assegnare un valore alle merci.
L’autosufficienza non può essere raggiunta da piccole comunità – la “base” è troppo ristretta per reggere nel tempo – e quindi, allargando i confini della comunità, nasce inevitabilmente la necessità di stabilire ruoli in qualche modo “istituiti”, e dunque – anche se ad un livello forse praticabile – “istituzionali”.
Chi scrive ha alle spalle un’esperienza di vita comunitaria – che è stata addirittura, recentemente, oggetto di studio per una tesi di laurea – e può assicurare che le dinamiche sociali, anche in gruppi ristretti, ricalcano in pieno atteggiamenti e pratiche delle comunità più complesse.
In genere, le comunità degli anni ’70 partirono con un naturale spontaneismo mutuato dal comunismo utopistico, e finirono in liti per dividersi le seggiole. Perché? Poiché le dinamiche socioeconomiche esterne alla comunità rimanevano le stesse: si aveva un bel dire che s’era tutti uguali, ma chi aveva uno stipendio, od era benestante, era un tantino più uguale degli altri.
In ogni modo, una sola esperienza non può essere considerata esaustiva dell’argomento: al più, rende più coscienti dei pericoli insiti nel lasciar correre l’ottimismo.
Esistono esperienze da osservare, per trarne insegnamenti?
L’India dei “mille villaggi” di Gandhi rimase nella mente del grande pensatore indiano, ed oggi osserviamo cos’è diventata l’India. Le comunità ebraiche dei kibbutzim, all’inizio, furono veramente avveniristiche: l’educazione collettiva dei giovani, e la ripartizione del lavoro di stampo socialista, erano un bagaglio più europeo che insito nella cultura ebraica.
Quell’approccio, portato soprattutto dagli askenazi dell’est, era la grande cultura socialista e libertaria che aleggiava nella prima metà del Novecento in Europa: là trovò una primitiva applicazione, ma c’era un peccato originale.
Cercare le vette della socialità su una terra che è stata rubata, lentamente trasformò quelle comunità in fortini, al punto che oggi Tzahal li considera, praticamente, degli avamposti. Non crediamo ad una pratica d’evoluzione sociale, quando il tuo compagno di strada è un Galil a tracolla.
L’unica comunità che sfida i secoli è senza dubbio quella degli Amish, ma qui siamo in presenza di valori religiosi molto restrittivi, che implicano la rinuncia alla modernità: siamo certi che saremmo in grado di rifiutare la tecnologia degli ultimi due secoli? La vedo dura, soprattutto perché ho provato personalmente a falciare l’erba con la falce: dopo mezza giornata, chiesi ad un amico di prestarmi il trattore.
Nelle società che ancora adottano l’organizzazione tribale troviamo equilibri che sembrerebbero reggere, ma ci sono due fattori da considerare: per prima cosa, queste comunità sono in estinzione – forse non demografica, ma certamente culturale – e poi, noi non siamo stati allevati in una cultura tribale!
Il ritorno alla piccola comunità potrebbe derivare da uno sconquasso – economico, bellico, ambientale, ecc – ma, in questo caso, non abbiamo gli elementi per decifrare il quadro: si sconfina nella profezia. Quanti esseri umani sopravvivrebbero? In quali condizioni? Dove? Con quali e quanti strumenti tecnologici? Le domande sono veramente troppe.
Possiamo ricordare che il ritrarsi in comunità avvenne nei secoli che seguirono il crollo di Roma, ma quelle furono necessità contingenti, mica scelte. Oltretutto, il Medio Evo – apice delle piccole comunità – non fu certo il migliore dei mondi possibili, basta leggere le cronache del tempo.
Oggi, siamo una società segnata dalla tecnologia (a differenza di quel lontano mondo), ma la tecnologia richiede che esistano centri che la producano, sistemi di scambio, controvalore da fornire, ecc: siamo in grado di reggere (e desideriamo) un arretramento tecnologico? Chi s’affida frettolosamente a qualche frase letta qui e là, ma anche a seri autori che teorizzano un ritorno al “piccolo”, riesce a comprendere cosa sarebbe un mondo privo di quelle certezze alle quali siamo abituati? Si fa presto a “quotare”.
Chi si metterebbe, in un mondo di piccole comunità slegate, a raffinare il Silicio per i circuiti? Oppure, all’opposto, chi ancora sa bardare un cavallo?
Ciò nonostante – e questa è la colonna sonora del nostro vagare ondivago fra tesi opposte – si sente un gran bisogno di rinsaldare legami comunitari, di tornare ad avvertire nel vicino di casa un amico, non una targhetta sulla porta. Il mondo del dopoguerra era così: almeno fra i ceti popolari, i bambini passavano forse più tempo in casa d’altri che nella propria. Giocavano insieme ed i nonni raccontavano storie fantastiche ad uditori eterogenei: nei cortili giungevano musicisti popolari che si guadagnavano da vivere così, con le poche lire gettate dai balconi al termine dell’esibizione.
Avremmo un gran bisogno di un mondo che ricalcasse quei valori, ma decenni di pessime abitudini (in gran parte imposte) ci hanno snaturati: tutte le rilevazioni – Istat, Eurispes, ecc – raccontano un’Italia composta da “poltiglia sociale”.
Forse, la strada di ricostruire l’empatia perduta trova troppi ostacoli nell’esigenza – divenuta un’iperbole con la globalizzazione – d’essere placidi ed acquiescenti individui, “coerenti” con le necessità del “mercato” (che sta fallendo).
Proviamo, allora, a sondare dalle parti dei sistemi economici, ossia quello che l’esperienza ci può insegnare.
I regimi autoritari della prima metà del Novecento non ci potranno fornire molti spunti per la nostra analisi: il Nazionalsocialismo tedesco durò, guerra a parte, soltanto 6 anni, e un’economia di guerra non può essere presa come valido cespite per l’analisi.
Il Fascismo italiano durò più tempo, ma partì come forza rivoluzionaria e terminò come zerbino, dapprima della classe imprenditoriale poi – nelle ultime fasi della guerra – dell’alleato germanico. Chi ha ancora dei dubbi su questa genesi, rammenti che la “Marcia su Roma” sarebbe stata facilmente impedita da una compagnia di Carabinieri, se il Re non avesse consentito loro di giungere a Roma: in fin dei conti – pensò il Savoia – meglio questo Mussolini che i bolscevichi. Un incarico “pro tempore”, fino al Luglio del 1943.
Più durevole l’esempio iberico, poiché la penisola rimase per molto tempo “addormentata” da regimi i quali, più che “fascismi”, furono “clericalismi” autoritari. In effetti, le innovazioni iberiche furono assai poche, e la penisola giunse agli anni ’70 del Novecento con un’economia prevalentemente agricola, arretrata rispetto al resto d’Europa. In aggiunta, per il Portogallo, ci fu l’annosa questione coloniale: la prima e l’ultima nazione direttamente coloniale della storia.
In sostanza, nessuno di quei regimi tentò una via d’uscita dal capitalismo, o il superamento dello stesso con nuove forme d’aggregazione sociale, che non fossero imposte con l’autoritarismo dell’epoca. Soprattutto il Fascismo ed il Nazionalsocialismo crearono valide, per l’epoca, forme di sostegno sociale (l’ OMNI, Opera Nazionale Maternità ed Infanzia, ad esempio), oppure – questo solo in Germania – restituirono allo Stato la sovranità monetaria.
In definitiva, i regimi autoritari dell’epoca si connaturarono con un principio di preminenza dello Stato sul cittadino: di per sé accettabile formalmente, un po’ meno per come venne applicato. Alla fine, i cittadini divennero semplicemente “milioni di baionette”. Morte sotto la neve.
Sull’altra sponda troviamo il mondo del socialismo reale: termine coniato per mascherare con eleganza il fallimento della prospettiva socialista, così com’era stata pensata da Lenin.
Ma, per contrappeso, la società sovietica che riaprì le porte al mondo non era più la sterminata landa desolata, l’infinita steppa russa del 1917. Era una nazione che possedeva una tecnologia con i fiocchi: aveva, però, i piedi d’argilla prodotti da un conflitto economico mai risolto, quello fra l’ideologia e la realtà. Per questa ragione fu “socialismo reale”, quasi un ossimoro.
A nostro avviso, l’esperienza sovietica è stata troppo frettolosamente scapolata: vuoi per un malcelato senso d’orgoglio da parte di chi aveva “vinto”, vuoi per il traboccante senso di colpa di chi aveva “perso”. In realtà, non c’era nulla da “vincere” o da “perdere”: c’era da capire. Forse, oggi possiamo farlo senza acrimonie.
Il gran fallimento della società sovietica, più che le difficoltà produttive (che, comunque, ci furono), fu il dramma della distribuzione. Ci sono molte cronache al riguardo, e non le riporto solo per questioni di spazio.
La vita del cittadino sovietico trascorreva nell’ossessione delle “liste”: per ogni bene s’entrava in lista. Anche per sostituire un pezzo del frigorifero c’era la corrispondente lista: il funzionamento del frigorifero dipendeva dalla produzione di una lontana fabbrica dell’est, sempre che non intervenissero altri fattori (spostamento di manodopera per altri scopi, mancanza di materie prime, ecc) a complicare il quadro.
Se moltiplicheremo questo andazzo per ogni oggetto, capiremo facilmente poiché l’URSS – a differenza della Russia odierna, terra di grande corruzione – fosse una sterminata plaga di piccola corruzione, che dilagava dal piccolo villaggio al funzionario di partito, a tutti i livelli. Ogni mezzo, per procurarsi quel dannato pezzo del frigorifero, era usato.
Il crollo dell’URSS avvenne prima della recente rivoluzione digitale, del Web ovunque, e sarebbe interessante vagliare quale potrebbe essere l’impatto del mezzo informatico in una società che producesse sufficienti beni – anche se suddivisa in molte comunità economiche – per la loro distribuzione. E’ un aspetto da non sottovalutare, poiché i costi di trasporto sono spesso il tallone d’Achille della filiera distributiva.
Ciò che l’URSS non riuscì mai a risolvere furono i rapporti economici interni: oscillò sempre fra stagioni di piccole liberalizzazioni, che incrementavano la produttività, ad altre di restrizioni di stampo ideologico, che ottenevano l’effetto opposto. Qui, c’è poco da imparare: se l’espansione continua del mercato non funziona più, possiamo credere ad uno Stato che s’assume la responsabilità di produrre e distribuire beni?
Diversa è stata la risposta della Cina: Pechino sta usando il capitalismo quasi “dosando” gli interventi in economia, nella ricerca di una difficile alchimia. Anche se, a prima vista, i cinesi hanno semplicemente sposato il capitalismo di mercato, non dimentichiamo che intendono mantenere il controllo dell’economia in mani pubbliche:
“…anche se la proprietà dello Stato rimarrà il principio fondamentale di base dell’economia nazionale, tutte le forme di proprietà – di Stato, collettiva e privata – dovranno essere messe in gioco nello sviluppo dell’economia…è necessario attenersi al principio dello sviluppo congiunto di settori economici multipli tra i quali la proprietà pubblica svolga un ruolo dominante; è necessario trasformare ulteriormente i meccanismi di gestione delle imprese di proprietà dello Stato e istituire un sistema imprenditoriale moderno che soddisfi i requisiti richiesti dall’economia di mercato”[2].
Certamente, quel “soddisfare i requisiti richiesti dall’economia di mercato” stride alquanto con la prima parte del testo, e facciamo tanti auguri ai cinesi di riuscire in un’impresa che sembra più un volo pindarico.
Abbiamo concluso: non c’è altro. Le sperimentazioni economiche del Novecento terminano qui, ed è tutto ciò che abbiamo per capire dove potremmo andare a parare.
L’aspetto veramente terrificante del “mercatismo” – da Reagan in poi – è stato quello, dapprima, di liquidare come insulsaggini tutti gli altri tentativi, per poi finire in un cul de sac senza soluzioni.
Certamente, oggi non abbiamo la possibilità – per via democratica – di mettere in discussione delle ipotesi di cambiamento radicale: possiamo solo subire ed addormentarci mentre guardiamo Ballarò.
Detto questo, rimane una via che potremmo definire “socialdemocratica” (in senso storico), ossia la faticosa via dell’aggregazione sociale su obiettivi, anche minimi, ma condivisi.
Scendere in trincea per difendere questo o quell’orpello del passato sarebbe tempo sprecato: che ci frega di salvaguardare labari littori o passi dell’oca sulla Piazza Rossa? Ai disoccupati non servono: serve, invece, iniziare a riflettere sulle possibili vie d’uscita dall’imperante (e fallimentare) “mercato”. Con quello che abbiamo, con l’esperienza che siamo riusciti a trarre, magari con qualche guizzo d’ingegno: sarà dura, ma non abbiamo altra via che la riflessione su cosa siamo stati, su cosa non siamo riusciti ad essere, su cosa potremmo diventare.
Qualche intervento – coerente con l’attuale Costituzione – è possibile: se qualcuno ascoltasse. Anzitutto, non è vero che lo stato nazionale ha completamente abdicato a legiferare, che lo spauracchio dell’Unione Europea è sulla porta, attento ad ogni minima mossa. Tanto per capirci, in Francia le donne vanno in pensione a 60 anni, ma nessuno solleva la questione di portare l’età a 65. Sarà perché che le burocrazie europee sanno che con l’Italia “sempre si vince”?
Con l’avanzare della crisi, ben presto gli stati dovranno compiere delle scelte, ma Bruxelles è lontana e le popolazioni vicine. Sta a noi farci sentire: proviamo ad indicare qualche idea come esempio, tanto per far comprendere dove vorremmo andare a parare, sperando che queste indicazioni ne catalizzino altre.
Se consideriamo un incentivo alla decrescita la produzione di beni più durevoli, lo Stato ha a disposizione il Codice Civile, anzi: c’è addirittura uno specifico Testo Unico al riguardo. Oggi, la garanzia dei beni che utilizzano energia elettrica (quasi tutti, perché anche l’auto ha l’impianto elettrico) è limitata a 2 anni. Domanda: perché, un bene che durerà circa 10 anni (automobile), deve essere coperto da garanzia per soli due? E se si rompe dopo due anni ed un giorno? Non si può certo estendere la garanzia a vita, ma raddoppiarla de iure sarebbe già un bell’incentivo per costruire qualcosa che non si rompa appena scade la garanzia. Il trucco l’abbiamo compreso da tempo.
Gli inglesi, tempo fa, scoprirono con orrore che tenevano in funzione una centrale elettrica soltanto per mantenere in tensione milioni d’alimentatori inutilizzati: ogni aggeggio elettronico ne ha uno. Telefonini, televisori, computer, ecc: perché non imporre, per il mercato italiano, l’obbligo di un interruttore con led che segnali se l’apparecchio è in tensione? Poi, saranno cavoli di ciascuno di noi se vuole pagare di più per niente.
La benzina sale, la benzina scende, ma sale in fretta e scende piano. Sappiamo a cosa serve il trucco: a far credere che esista una Robin Tax. Perché non si torna al prezzo controllato, oppure si stabilisce – giornalmente! – la variazione, ad effetto immediato? Le reti telematiche, a cosa servono? La sera, insieme alle previsioni del tempo, dovrebbe essere pubblicato il prezzo massimo per il giorno seguente. Scaroni: cuntent?
Nel mio precedente articolo – “Venti nucleari” – ho indicato una strada per creare ricchezza e lavoro dalle rinnovabili e destinarla ad usi sociali: perché, oramai quasi solo in Italia, non si fa un solo passo in quella direzione? Ah, già: faremo le centrali nucleari…
Le burocrazie europee si scervellano per mantenere la gente al lavoro nelle aziende: ma, signori miei, anche chi non ha un master ad Harvard sa che, se non si vende ciò che si produce, è inutile costruirlo. Avranno visto quei Tg degli anni ’60, quelli delle arance?
Abbiamo invece bisogno di un sacco di lavoro in altri posti: le intemperie di questo rigido inverno hanno ridotto le strade a dei tratturi. Tinteggiare le aule di una scuola è un’impresa da incubo: si sprecano più soldi in telefonate, riunioni e quant’altro che a “dare il bianco”.
Il patrimonio artistico è sempre più abbandonato, al punto che solo pochi giorni fa, in Piazza della Signoria, qualcuno ha staccato un dito al “Ratto di Polissena” di Pio Fedi. Un po’ di sorveglianza e di manutenzione, è chiedere troppo?
Se non vogliamo chiamarli lavori “socialmente utili” inventiamoci un sinonimo, ma diamo uno stipendio almeno decente a chi perde il lavoro, se in cambio si occupa delle mille incombenze puntualmente dimenticate. Non lanciarsi verso impossibili iperboli, oppure raccontare che la crisi è causata dalla cattiva informazione; ma come si fa a dire (Berluskaiser): “non leggete più i giornali”?
Ramsetoni – è solo un avatar di Saddamoni, Napoloni, Cesaroni, ecc – vorrebbe inviarli tutti, novelli schiavi della Nubia, a rialzare l’ottava meraviglia del Pianeta, a Messina. Da Napoli, bisognerebbe urlargli, in coro: ma facitece ‘o piacere!
Perché? Non ci sono i soldi per fare quell’inutile orpello! Testa dura, eh?
Dove si possono trovare soldi?
Ricordiamo che fu proprio Tremontoni, nel 2003, a cambiare le aliquote IRPEF: ridusse le tasse ai ricchi!
Il risultato?
In Italia, la distribuzione delle ricchezza è fra le più inique: il 10% della popolazione possiede il 45% della ricchezza nazionale. In pratica, una persona su dieci si prende quasi la metà, mentre le altre nove si dividono il resto. Questo ci ha fatto precipitare al livello di USA e Polonia, e solo il povero Messico ha una ripartizione della ricchezza più iniqua della nostra. Nessun altro, in Europa, vive una così drammatica differenza di reddito fra le classi sociali.
Perché non iniziare ad aumentare le tasse, progressivamente, a chi guadagna più di 100.000 euro l’anno? Se chi guadagna 100.000 euro ne dovesse pagare 1000 in più, si ridurrebbe in miseria? Ecco dove trovare i fondi per finanziare i disoccupati, non prelevandoli dall’INPS (che ha un attivo di 11 miliardi!) per poi, alla fine della questione, aumentare di nuovo l’età della pensione per far cassa!
Purtroppo per noi la classe politica – intera – fa parte di quel 10% dorato, e non si farà, da sola, un simile autogol: sempre che non s’inizi, in tanti e continuamente, a ricordarlo. Tutti i giorni: scrivendo sui blog, facendo girare messaggi via mail, su Facebook, ecc.
Certo, dissertare sui massimi sistemi può essere utile, ma ricordiamo le parole di un grande presidente, Sandro Pertini: «La democrazia inizia con la pancia piena».
Nessuno proferiva la parola “crisi” negli anni ’60: il vocabolo utilizzato era “congiuntura”. La “congiuntura”, etimologicamente, è qualcosa che “congiunge” due periodi ed è quindi un elemento di labile rottura nel continuum temporale: dunque, la “congiuntura” può essere anche un periodo favorevole, un “giro di boa”. L’uso del termine, in economia, deriva dal tedesco Konjunktur, e non è che un passaggio leggero fra due, diversi approcci del capitalismo internazionale.
E’ interessante notare che la “congiuntura” non considera essenziale l’intervento umano: è una sorta di leggera influenza, che si risolve da sola, stando a letto e bevendo spremute d’agrumi.
Il passaggio dai sistemi elettromeccanici controllati dall’uomo – nella grande industria – a quelli a controllo numerico (informatico), degli anni 70-80 del Novecento, può essere indicato come un fattore determinante della “congiuntura”, ossia il transito da un sistema meno automatizzato (maggior presenza umana) ad un altro più efficiente, per la diminuzione delle ore/lavoro necessarie per produrre un singolo bene.
Fin qui, nulla di strano: basta rileggere Marx.
Oggi, il termine è desueto: solo per una questione di stile? Parrebbe di no, ed alcune “prudenze” linguistiche sono state addirittura consigliate dal Presidente del Consiglio. Perché?
La tessera P2 n. 1816 – Silvio Berlusconi – lavora alacremente per ridurre l’Italia ad una sorta di “grande Mediaset" – questo lo sappiamo – laddove un solo Konducator indica la via da seguire. Gli altri, seguono.
Ne è un esempio la recente bagarre scoppiata in seno al Consiglio dei Ministri – Scajola ha abbandonato la seduta sbattendo la porta ed esclamando il classico “non finisce qui” (finirà lì Scajola, mi creda, e lei tornerà ad assentire, ossequiente, come sempre ha fatto, così come i suoi colleghi Bossi, Bondi, Gelmini, Carfagna…) – perché Berlusconi ha avocato a sé la gestione di tutti i fondi stanziati per fronteggiare la crisi (in gran parte “riciclati” da precedenti stanziamenti, addirittura del precedente governo, si veda la prima stesura del D.M. n. 122).
In effetti, quelli che Berlusconi indica come “abbondanti risorse” stanziate, in realtà sono soltanto indicazioni di bilancio ma, in cassa, non c’è nulla. Per questa ragione strombazzano solo grandi opere: perché, per fare quelle piccole (per le quali, sarebbe difficile accampare scuse) i soldi dovrebbero scucirli davvero.
Ovviamente, tutti hanno mostrato il borsellino drammaticamente vuoto, ma il Konducator è passato oltre, adducendo che la situazione richiede procedure eccezionali. Perché? Per superare la crisi.
Ecco, il termine che viene oggi usato per indicare le mestizie nella quali siamo imprigionati.
L’etimo della parola “crisi” – krisis (gr) – non indica, però, un elemento di per sé negativo poiché significa “scelta” o “giudizio”, ossia un’azione che prevede la partecipazione attiva del soggetto: sì, scegliere, proprio quello che ci viene impedito di fare.
E’ allucinante leggere i comunicati dell’Epsco (Consiglio per l'Occupazione, la Politica Sociale, Salute e Consumatori), dove si leggono le proposte per affrontare la crisi economica e la disoccupazione[1]:
(la crisi) “sta arrecando grossi danni ed esige interventi urgenti,,,(per prevenire e combattere la disoccupazione) senza intaccare le riforme del mercato del lavoro…evitare le misure che favoriscono il ritiro prematuro dalla vita lavorativa, quali programmi di prepensionamento o limiti d'età per le opportunità di formazione, in modo tale da mantenere e aumentare la partecipazione al mercato del lavoro…affrontare l'adeguatezza e la sostenibilità a lungo termine dei sistemi pensionistici con riforme adeguate…”
Siamo nelle mani di una masnada di folli e nessuno, ovviamente, ha intenzione di cambiare strada: le cose vanno bene così e, se dovessero peggiorare, accelereremo ancor più nel percorso che ci ha condotti a questo sfacelo. Speriamo che il muro, in fondo alla via, non sia di cemento armato.
Ovviamente – se qualcuno potesse scegliere – le scelte dovrebbero essere agghindate d’aggettivi, anzi, è quasi essenziale indicare, tramite la coloritura di un aggettivo, ciò che c’attende. Avremo così scelte difficili, gioiose, liberatorie, drammatiche, ininfluenti, coraggiose…
L’unico aggettivo proibito dal Konducator è stato proprio quel “drammatico”, subito cassato a Tremonti, perché – checché se ne dica – la tessera P2 n. 1816 è il più formidabile comunicatore della Penisola. I suoi fini sono marci fino al midollo, ridurrà l’Italia ad una pletora di zombie – perché è bravo a comunicare e ad organizzare, ma manca della cultura di base necessaria per svolgere una vera funzione politica e di governo – ma, sull’esternazione, nessuno lo batte. Potrete scrivere e blaterare ciò che vorrete: lui, farà la solita battuta cretina, s’arrufferà in ragionamenti semplici, da mercato rionale, e quel 60% d’italiani che non legge mai un libro abboccherà contento. Non c’è niente da fare.
Si può batterlo usando le sue stesse armi, soprattutto l’informazione e la satira: questa asserzione, è rivolta a coloro i quali credono che basti una solida “linea Maginot” per la difesa della Costituzione (per la tutela della quale, sia ben inteso, il sottoscritto ha firmato). Lui, della Costituzione, se ne frega: pubblicherà (a nostre spese) qualche libercolo nel quale comparirà con la solita calza di nylon per mascherare le rughe e magari racconterà una barzelletta.
Perché la parola “crisi” deve essere bandita? Poiché esiste sempre quel 20% di persone che leggono e s’informano, le quali oggi non hanno peso ma domani, qualora i morsi della rovina economica dovessero dissanguarci, potrebbero ricordare che c’era “crisi”, e dunque scelta. Quali scelte?
Spicchiamo, prima, un salto indietro nel tempo, quando c’era soltanto “congiuntura”.
Una delle immagini che iniziò a sconcertare, nella placida prima “congiuntura” degli anni ’60, fu quella dei trattori che distruggevano tonnellate d’arance nel Meridione. Per comprendere quanto quelle immagini fossero dirompenti, dobbiamo riflettere che non erano ancora trascorsi vent’anni dalla Seconda Guerra Mondiale, quando un chilo di pasta era ciò che s’aveva per campare una settimana. Distruggere il cibo?!? Una bestemmia, e così era colta dalla maggior parte degli italiani i quali, già allora, non s’accorsero che quelle erano già “scelte”, solo che qualcuno le compiva al posto nostro. Conosciamo la ragione di quelle distruzioni: sovrapproduzione, concorrenza internazionale, ecc…ma il messaggio che – già allora! – passò era che si doveva, in primis, salvaguardare il mercato degli agrumi. Siccome il “mercato” non poteva che salvaguardarsi da solo, s’applicava la legge della domanda e dell’offerta, e via col tango.
Senza scomodare la scomodissima ragione illuminista, basta il buon senso per capire che non è logico né razionale impiegare ore/lavoro, concimi, energia, ecc, per poi schiacciare il prodotto sotto le ruote dei trattori: c’era, evidente, un vulnus perché, da quando mondo è mondo, le derrate alimentari servono per sfamarsi.
Dopo qualche anno di trasmissioni della solita scena – i trattori che schiacciano, ecc – la notizia non fu più notizia, e s’addormentò nel retrobottega dei palinsesti televisivi. Così, il primo imprinting era stato dato.
Ma gli anni ’60 – da qualcuno definiti “favolosi”, non saprei perché – volgono al termine e, nel 1969, una scolaresca attende, nelle assolate giornate di Maggio, che s’arrivi finalmente a Luglio per correre alla lotteria della nuova maturità – “provvisoria”, beninteso – declamata come la rivoluzione della scuola italiana, quella del ministro Sullo. Tanto “provvisoria” che durò fino al 1999.
La tensione per la nuova maturità scivola, sotterranea, fra i banchi e fa caldo: la finestra è aperta, giungono effluvi di fiori e la voglia è poca. Anche il professore – un meridionale colto, fisico un po’ flaccido, aria perennemente stanca – non ha gran voglia, e allora si parla. “Si fa” a domande e risposte: talvolta si tenta ancora oggi di farlo, solo che si corre il rischio che ti domandino se hai guardato l’Isola dei Penosi.
Un allievo medita, ricorda precedenti discussioni – formali ed informali – e domanda «Professore, lei sostiene che è inevitabile una contrazione della manodopera nell’industria poiché il fordismo e la produzione su vasta scala s’affermano ovunque. Il fenomeno produce inesorabilmente disoccupazione: chi non avrà lavoro, che farà?»
Il professore quasi ringrazia per la domanda, che consente a quella piccola comunità di scapolare una mezzora noiosa, ma si rende conto che la risposta non può essere che sintetica: «Vede (allora, ci si dava del “Lei”), solo lo Stato può compensare la diminuzione dell’occupazione: le persone che non troveranno occupazione nell’industria saranno assorbite dai servizi. Il mondo dei servizi al cittadino è in espansione: quella è l’unica strada percorribile.»
Certo – pensa il ragazzo – meno occupati a costruire automobili e più infermieri negli ospedali…ma…chi paga?
Intanto, altri stanno argomentando e deve attendere il suo turno.
Finalmente, può porre la domanda: «Professore, se lei afferma che i disoccupati saranno assorbiti nei ruoli pubblici, il gravame economico per lo Stato aumenterà, dovranno aumentare le tasse…insomma, chi pagherà?»
Il professore non aveva una risposta, però lui era il professore e gli altri semplici allievi: «Come le ho già detto, lo Stato sarà la cassa di compensazione, ci sarà un’inevitabile aumento dei dipendenti statali.»
Già, lui può ripetere due volte la risposta senza rispondere: se lo fai tu, mica la passi liscia. Di più: è pure fortunato, perché suona la campanella.
In ogni modo, il professore ebbe ragione: l’anno seguente (1970) fu varato l’ordinamento regionale ed iniziò “l’otto volante” della spesa pubblica. Nuove competenze furono inventate per nutrire l’espansione incontrollata del ceto politico da piazzare nelle Regioni, le Province furono compensate – già allora, per salvarle! – con la ripartizione del personale scolastico, mentre i Comuni ebbero le Circoscrizioni. Gli italiani, impararono che non si può essere presi a calcinculo solo dallo Stato, ma anche dalle amministrazioni periferiche.
Eppure, riflettere su questi brevi aneddoti, può aprire molte “porte” sull’infinito dissertare del malaugurio economico che stiamo vivendo. Oops! Scusate: se Saddamoni mi sente, mi dà del disfattista.
Non vale sperticarsi in tremebondi aruspici: chi lo fa, compie un’azione semplice, ossia “lo scrivo, poi i casi saranno due. O l’evento non si compirà – e sarò presto dimenticato – oppure si manifesterà, e allora potrò scrivere il classico articolo sul “io ve lo avevo detto”. Non è questo il modo di fare informazione.
Sulle radici internazionali e geopolitiche di questa crisi non intendo ripetermi; chi vorrà prenderne visione, potrà leggere il mio “Ma cos’è questa crisi?”: oggi, vogliamo addentrarci fra le possibili soluzioni.
La prima considerazione da fare è che la logica del mercato che si auto-regolamenta è fallita: a dire il vero, non è mai esistito un mercato completamente libero dall’intervento umano, ma alcune situazioni (gli USA prima della Grande Depressione, ad esempio) s’avvicinarono molto.
Allo stesso modo, non è mai esistita un’economia completamente diretta dallo Stato: anche nell’URSS, il 3% delle terre coltivabili era a conduzione privata.
In mezzo a queste due, estreme impostazioni, c’è la cosiddetta economia “mista”, la quale si nutre d’entrambi i principi, cercando – in questa difficile mediazione – di trovare l’equilibrio più soddisfacente. Ma non finisce qui.
Un altro fattore da considerare è l’aggregazione sul territorio dei soggetti economici – chi produce beni e servizi – che l’affermazione degli stati nazionali riunì in universali piuttosto ampi, mentre – precedentemente – i “localismi” avevano maggior peso. Si pensi, ad esempio, alla Germania prima dello Zollverein.
Quindi, la produzione e la ripartizione delle risorse devono tener conto d’entrambi i fattori: geografici e politici, per riassumere in breve i due aspetti.
Oggi, il “succo” della crisi – che non riteniamo sarà la fine del capitalismo, così come lo osserviamo – è che uno spostamento verso il liberismo economico ha prodotto guai a non finire. Non ci riferiamo soltanto agli ultimi atti – la truffa di creare valore fasullo dal nulla, per compensare una ricchezza che è migrata verso altri lidi – poiché quel processo è iniziato già con la deregulation di Reagan, con la politica antipopolare della Thatcher, con la dismissione a prezzi stracciati delle Partecipazioni Statali. Insomma: il mondo ha preso l’abbrivio verso forme di Far West, liberandosi delle “pastoie” che una schiera d’economisti keynesiani pretendevano d’imporre. Dimenticando che Keynes fu solo una delle “cure” per la Grande Depressione: l’altra, fu la Seconda Guerra Mondiale.
Cercare aiuto dalle parti di John Maynard Keynes, oggi, sarebbe come chiedere a Pietro Badoglio un parere per uscire dall’impasse in Afghanistan: è l’angolo degli sprovveduti, poiché il pianeta ha mutato pelle.
Gli stati che applicarono le dottrine keynesiane erano nazioni poco o per nulla indebitate, che possedevano la gran parte dei mezzi di produzione del pianeta e che avevano, proprio nel resto del pianeta, le fonti d’approvvigionamento di materie prime a basso costo, poiché la manodopera era coloniale.
Si può ragionevolmente ipotizzare d’applicare “ricette” usate all’epoca nel nostro tempo? Modificarle? Modernizzarle? Probabile, ma bisogna allora affrontare quella scelta – krisis – che si tende a negare con mezzi e mezzucci mediatici.
In definitiva, dovremmo stabilire quale sistema economico applicare, cercando di non incorrere in plateali errori del passato e neppure esternare affermazioni sì accattivanti ed apparentemente risolutive, che però nessuno sa quali frutti potranno produrre.
Il primo approccio è sempre l’analisi: ciò che è stato applicato nelle epoche storiche a noi vicine (andare lontano complicherebbe la faccenda, dovremmo introdurre sempre più fattori di “correzione”) ed osservare quali effetti produsse.
Per quanto riguarda la dimensione delle entità economiche, oggi si tende a ritenere che economie su piccola scala siano più a misura d’uomo e che il pianeta possa, con questo approccio, meglio sopportarci.
Si tratta di un’avvincente ipotesi, ma mancano gli elementi per affermare che un mondo di comunità sarebbe migliore di quello attuale. Anzitutto, quali attributi assegnare a queste comunità? L’autosufficienza produttiva totale? Lo scambio? Perché – se si ammette lo scambio, ossia se non si ritiene percorribile la via dell’autosufficienza – si torna a dissertare di valore, e dunque di monete o quant’altro per assegnare un valore alle merci.
L’autosufficienza non può essere raggiunta da piccole comunità – la “base” è troppo ristretta per reggere nel tempo – e quindi, allargando i confini della comunità, nasce inevitabilmente la necessità di stabilire ruoli in qualche modo “istituiti”, e dunque – anche se ad un livello forse praticabile – “istituzionali”.
Chi scrive ha alle spalle un’esperienza di vita comunitaria – che è stata addirittura, recentemente, oggetto di studio per una tesi di laurea – e può assicurare che le dinamiche sociali, anche in gruppi ristretti, ricalcano in pieno atteggiamenti e pratiche delle comunità più complesse.
In genere, le comunità degli anni ’70 partirono con un naturale spontaneismo mutuato dal comunismo utopistico, e finirono in liti per dividersi le seggiole. Perché? Poiché le dinamiche socioeconomiche esterne alla comunità rimanevano le stesse: si aveva un bel dire che s’era tutti uguali, ma chi aveva uno stipendio, od era benestante, era un tantino più uguale degli altri.
In ogni modo, una sola esperienza non può essere considerata esaustiva dell’argomento: al più, rende più coscienti dei pericoli insiti nel lasciar correre l’ottimismo.
Esistono esperienze da osservare, per trarne insegnamenti?
L’India dei “mille villaggi” di Gandhi rimase nella mente del grande pensatore indiano, ed oggi osserviamo cos’è diventata l’India. Le comunità ebraiche dei kibbutzim, all’inizio, furono veramente avveniristiche: l’educazione collettiva dei giovani, e la ripartizione del lavoro di stampo socialista, erano un bagaglio più europeo che insito nella cultura ebraica.
Quell’approccio, portato soprattutto dagli askenazi dell’est, era la grande cultura socialista e libertaria che aleggiava nella prima metà del Novecento in Europa: là trovò una primitiva applicazione, ma c’era un peccato originale.
Cercare le vette della socialità su una terra che è stata rubata, lentamente trasformò quelle comunità in fortini, al punto che oggi Tzahal li considera, praticamente, degli avamposti. Non crediamo ad una pratica d’evoluzione sociale, quando il tuo compagno di strada è un Galil a tracolla.
L’unica comunità che sfida i secoli è senza dubbio quella degli Amish, ma qui siamo in presenza di valori religiosi molto restrittivi, che implicano la rinuncia alla modernità: siamo certi che saremmo in grado di rifiutare la tecnologia degli ultimi due secoli? La vedo dura, soprattutto perché ho provato personalmente a falciare l’erba con la falce: dopo mezza giornata, chiesi ad un amico di prestarmi il trattore.
Nelle società che ancora adottano l’organizzazione tribale troviamo equilibri che sembrerebbero reggere, ma ci sono due fattori da considerare: per prima cosa, queste comunità sono in estinzione – forse non demografica, ma certamente culturale – e poi, noi non siamo stati allevati in una cultura tribale!
Il ritorno alla piccola comunità potrebbe derivare da uno sconquasso – economico, bellico, ambientale, ecc – ma, in questo caso, non abbiamo gli elementi per decifrare il quadro: si sconfina nella profezia. Quanti esseri umani sopravvivrebbero? In quali condizioni? Dove? Con quali e quanti strumenti tecnologici? Le domande sono veramente troppe.
Possiamo ricordare che il ritrarsi in comunità avvenne nei secoli che seguirono il crollo di Roma, ma quelle furono necessità contingenti, mica scelte. Oltretutto, il Medio Evo – apice delle piccole comunità – non fu certo il migliore dei mondi possibili, basta leggere le cronache del tempo.
Oggi, siamo una società segnata dalla tecnologia (a differenza di quel lontano mondo), ma la tecnologia richiede che esistano centri che la producano, sistemi di scambio, controvalore da fornire, ecc: siamo in grado di reggere (e desideriamo) un arretramento tecnologico? Chi s’affida frettolosamente a qualche frase letta qui e là, ma anche a seri autori che teorizzano un ritorno al “piccolo”, riesce a comprendere cosa sarebbe un mondo privo di quelle certezze alle quali siamo abituati? Si fa presto a “quotare”.
Chi si metterebbe, in un mondo di piccole comunità slegate, a raffinare il Silicio per i circuiti? Oppure, all’opposto, chi ancora sa bardare un cavallo?
Ciò nonostante – e questa è la colonna sonora del nostro vagare ondivago fra tesi opposte – si sente un gran bisogno di rinsaldare legami comunitari, di tornare ad avvertire nel vicino di casa un amico, non una targhetta sulla porta. Il mondo del dopoguerra era così: almeno fra i ceti popolari, i bambini passavano forse più tempo in casa d’altri che nella propria. Giocavano insieme ed i nonni raccontavano storie fantastiche ad uditori eterogenei: nei cortili giungevano musicisti popolari che si guadagnavano da vivere così, con le poche lire gettate dai balconi al termine dell’esibizione.
Avremmo un gran bisogno di un mondo che ricalcasse quei valori, ma decenni di pessime abitudini (in gran parte imposte) ci hanno snaturati: tutte le rilevazioni – Istat, Eurispes, ecc – raccontano un’Italia composta da “poltiglia sociale”.
Forse, la strada di ricostruire l’empatia perduta trova troppi ostacoli nell’esigenza – divenuta un’iperbole con la globalizzazione – d’essere placidi ed acquiescenti individui, “coerenti” con le necessità del “mercato” (che sta fallendo).
Proviamo, allora, a sondare dalle parti dei sistemi economici, ossia quello che l’esperienza ci può insegnare.
I regimi autoritari della prima metà del Novecento non ci potranno fornire molti spunti per la nostra analisi: il Nazionalsocialismo tedesco durò, guerra a parte, soltanto 6 anni, e un’economia di guerra non può essere presa come valido cespite per l’analisi.
Il Fascismo italiano durò più tempo, ma partì come forza rivoluzionaria e terminò come zerbino, dapprima della classe imprenditoriale poi – nelle ultime fasi della guerra – dell’alleato germanico. Chi ha ancora dei dubbi su questa genesi, rammenti che la “Marcia su Roma” sarebbe stata facilmente impedita da una compagnia di Carabinieri, se il Re non avesse consentito loro di giungere a Roma: in fin dei conti – pensò il Savoia – meglio questo Mussolini che i bolscevichi. Un incarico “pro tempore”, fino al Luglio del 1943.
Più durevole l’esempio iberico, poiché la penisola rimase per molto tempo “addormentata” da regimi i quali, più che “fascismi”, furono “clericalismi” autoritari. In effetti, le innovazioni iberiche furono assai poche, e la penisola giunse agli anni ’70 del Novecento con un’economia prevalentemente agricola, arretrata rispetto al resto d’Europa. In aggiunta, per il Portogallo, ci fu l’annosa questione coloniale: la prima e l’ultima nazione direttamente coloniale della storia.
In sostanza, nessuno di quei regimi tentò una via d’uscita dal capitalismo, o il superamento dello stesso con nuove forme d’aggregazione sociale, che non fossero imposte con l’autoritarismo dell’epoca. Soprattutto il Fascismo ed il Nazionalsocialismo crearono valide, per l’epoca, forme di sostegno sociale (l’ OMNI, Opera Nazionale Maternità ed Infanzia, ad esempio), oppure – questo solo in Germania – restituirono allo Stato la sovranità monetaria.
In definitiva, i regimi autoritari dell’epoca si connaturarono con un principio di preminenza dello Stato sul cittadino: di per sé accettabile formalmente, un po’ meno per come venne applicato. Alla fine, i cittadini divennero semplicemente “milioni di baionette”. Morte sotto la neve.
Sull’altra sponda troviamo il mondo del socialismo reale: termine coniato per mascherare con eleganza il fallimento della prospettiva socialista, così com’era stata pensata da Lenin.
Ma, per contrappeso, la società sovietica che riaprì le porte al mondo non era più la sterminata landa desolata, l’infinita steppa russa del 1917. Era una nazione che possedeva una tecnologia con i fiocchi: aveva, però, i piedi d’argilla prodotti da un conflitto economico mai risolto, quello fra l’ideologia e la realtà. Per questa ragione fu “socialismo reale”, quasi un ossimoro.
A nostro avviso, l’esperienza sovietica è stata troppo frettolosamente scapolata: vuoi per un malcelato senso d’orgoglio da parte di chi aveva “vinto”, vuoi per il traboccante senso di colpa di chi aveva “perso”. In realtà, non c’era nulla da “vincere” o da “perdere”: c’era da capire. Forse, oggi possiamo farlo senza acrimonie.
Il gran fallimento della società sovietica, più che le difficoltà produttive (che, comunque, ci furono), fu il dramma della distribuzione. Ci sono molte cronache al riguardo, e non le riporto solo per questioni di spazio.
La vita del cittadino sovietico trascorreva nell’ossessione delle “liste”: per ogni bene s’entrava in lista. Anche per sostituire un pezzo del frigorifero c’era la corrispondente lista: il funzionamento del frigorifero dipendeva dalla produzione di una lontana fabbrica dell’est, sempre che non intervenissero altri fattori (spostamento di manodopera per altri scopi, mancanza di materie prime, ecc) a complicare il quadro.
Se moltiplicheremo questo andazzo per ogni oggetto, capiremo facilmente poiché l’URSS – a differenza della Russia odierna, terra di grande corruzione – fosse una sterminata plaga di piccola corruzione, che dilagava dal piccolo villaggio al funzionario di partito, a tutti i livelli. Ogni mezzo, per procurarsi quel dannato pezzo del frigorifero, era usato.
Il crollo dell’URSS avvenne prima della recente rivoluzione digitale, del Web ovunque, e sarebbe interessante vagliare quale potrebbe essere l’impatto del mezzo informatico in una società che producesse sufficienti beni – anche se suddivisa in molte comunità economiche – per la loro distribuzione. E’ un aspetto da non sottovalutare, poiché i costi di trasporto sono spesso il tallone d’Achille della filiera distributiva.
Ciò che l’URSS non riuscì mai a risolvere furono i rapporti economici interni: oscillò sempre fra stagioni di piccole liberalizzazioni, che incrementavano la produttività, ad altre di restrizioni di stampo ideologico, che ottenevano l’effetto opposto. Qui, c’è poco da imparare: se l’espansione continua del mercato non funziona più, possiamo credere ad uno Stato che s’assume la responsabilità di produrre e distribuire beni?
Diversa è stata la risposta della Cina: Pechino sta usando il capitalismo quasi “dosando” gli interventi in economia, nella ricerca di una difficile alchimia. Anche se, a prima vista, i cinesi hanno semplicemente sposato il capitalismo di mercato, non dimentichiamo che intendono mantenere il controllo dell’economia in mani pubbliche:
“…anche se la proprietà dello Stato rimarrà il principio fondamentale di base dell’economia nazionale, tutte le forme di proprietà – di Stato, collettiva e privata – dovranno essere messe in gioco nello sviluppo dell’economia…è necessario attenersi al principio dello sviluppo congiunto di settori economici multipli tra i quali la proprietà pubblica svolga un ruolo dominante; è necessario trasformare ulteriormente i meccanismi di gestione delle imprese di proprietà dello Stato e istituire un sistema imprenditoriale moderno che soddisfi i requisiti richiesti dall’economia di mercato”[2].
Certamente, quel “soddisfare i requisiti richiesti dall’economia di mercato” stride alquanto con la prima parte del testo, e facciamo tanti auguri ai cinesi di riuscire in un’impresa che sembra più un volo pindarico.
Abbiamo concluso: non c’è altro. Le sperimentazioni economiche del Novecento terminano qui, ed è tutto ciò che abbiamo per capire dove potremmo andare a parare.
L’aspetto veramente terrificante del “mercatismo” – da Reagan in poi – è stato quello, dapprima, di liquidare come insulsaggini tutti gli altri tentativi, per poi finire in un cul de sac senza soluzioni.
Certamente, oggi non abbiamo la possibilità – per via democratica – di mettere in discussione delle ipotesi di cambiamento radicale: possiamo solo subire ed addormentarci mentre guardiamo Ballarò.
Detto questo, rimane una via che potremmo definire “socialdemocratica” (in senso storico), ossia la faticosa via dell’aggregazione sociale su obiettivi, anche minimi, ma condivisi.
Scendere in trincea per difendere questo o quell’orpello del passato sarebbe tempo sprecato: che ci frega di salvaguardare labari littori o passi dell’oca sulla Piazza Rossa? Ai disoccupati non servono: serve, invece, iniziare a riflettere sulle possibili vie d’uscita dall’imperante (e fallimentare) “mercato”. Con quello che abbiamo, con l’esperienza che siamo riusciti a trarre, magari con qualche guizzo d’ingegno: sarà dura, ma non abbiamo altra via che la riflessione su cosa siamo stati, su cosa non siamo riusciti ad essere, su cosa potremmo diventare.
Qualche intervento – coerente con l’attuale Costituzione – è possibile: se qualcuno ascoltasse. Anzitutto, non è vero che lo stato nazionale ha completamente abdicato a legiferare, che lo spauracchio dell’Unione Europea è sulla porta, attento ad ogni minima mossa. Tanto per capirci, in Francia le donne vanno in pensione a 60 anni, ma nessuno solleva la questione di portare l’età a 65. Sarà perché che le burocrazie europee sanno che con l’Italia “sempre si vince”?
Con l’avanzare della crisi, ben presto gli stati dovranno compiere delle scelte, ma Bruxelles è lontana e le popolazioni vicine. Sta a noi farci sentire: proviamo ad indicare qualche idea come esempio, tanto per far comprendere dove vorremmo andare a parare, sperando che queste indicazioni ne catalizzino altre.
Se consideriamo un incentivo alla decrescita la produzione di beni più durevoli, lo Stato ha a disposizione il Codice Civile, anzi: c’è addirittura uno specifico Testo Unico al riguardo. Oggi, la garanzia dei beni che utilizzano energia elettrica (quasi tutti, perché anche l’auto ha l’impianto elettrico) è limitata a 2 anni. Domanda: perché, un bene che durerà circa 10 anni (automobile), deve essere coperto da garanzia per soli due? E se si rompe dopo due anni ed un giorno? Non si può certo estendere la garanzia a vita, ma raddoppiarla de iure sarebbe già un bell’incentivo per costruire qualcosa che non si rompa appena scade la garanzia. Il trucco l’abbiamo compreso da tempo.
Gli inglesi, tempo fa, scoprirono con orrore che tenevano in funzione una centrale elettrica soltanto per mantenere in tensione milioni d’alimentatori inutilizzati: ogni aggeggio elettronico ne ha uno. Telefonini, televisori, computer, ecc: perché non imporre, per il mercato italiano, l’obbligo di un interruttore con led che segnali se l’apparecchio è in tensione? Poi, saranno cavoli di ciascuno di noi se vuole pagare di più per niente.
La benzina sale, la benzina scende, ma sale in fretta e scende piano. Sappiamo a cosa serve il trucco: a far credere che esista una Robin Tax. Perché non si torna al prezzo controllato, oppure si stabilisce – giornalmente! – la variazione, ad effetto immediato? Le reti telematiche, a cosa servono? La sera, insieme alle previsioni del tempo, dovrebbe essere pubblicato il prezzo massimo per il giorno seguente. Scaroni: cuntent?
Nel mio precedente articolo – “Venti nucleari” – ho indicato una strada per creare ricchezza e lavoro dalle rinnovabili e destinarla ad usi sociali: perché, oramai quasi solo in Italia, non si fa un solo passo in quella direzione? Ah, già: faremo le centrali nucleari…
Le burocrazie europee si scervellano per mantenere la gente al lavoro nelle aziende: ma, signori miei, anche chi non ha un master ad Harvard sa che, se non si vende ciò che si produce, è inutile costruirlo. Avranno visto quei Tg degli anni ’60, quelli delle arance?
Abbiamo invece bisogno di un sacco di lavoro in altri posti: le intemperie di questo rigido inverno hanno ridotto le strade a dei tratturi. Tinteggiare le aule di una scuola è un’impresa da incubo: si sprecano più soldi in telefonate, riunioni e quant’altro che a “dare il bianco”.
Il patrimonio artistico è sempre più abbandonato, al punto che solo pochi giorni fa, in Piazza della Signoria, qualcuno ha staccato un dito al “Ratto di Polissena” di Pio Fedi. Un po’ di sorveglianza e di manutenzione, è chiedere troppo?
Se non vogliamo chiamarli lavori “socialmente utili” inventiamoci un sinonimo, ma diamo uno stipendio almeno decente a chi perde il lavoro, se in cambio si occupa delle mille incombenze puntualmente dimenticate. Non lanciarsi verso impossibili iperboli, oppure raccontare che la crisi è causata dalla cattiva informazione; ma come si fa a dire (Berluskaiser): “non leggete più i giornali”?
Ramsetoni – è solo un avatar di Saddamoni, Napoloni, Cesaroni, ecc – vorrebbe inviarli tutti, novelli schiavi della Nubia, a rialzare l’ottava meraviglia del Pianeta, a Messina. Da Napoli, bisognerebbe urlargli, in coro: ma facitece ‘o piacere!
Perché? Non ci sono i soldi per fare quell’inutile orpello! Testa dura, eh?
Dove si possono trovare soldi?
Ricordiamo che fu proprio Tremontoni, nel 2003, a cambiare le aliquote IRPEF: ridusse le tasse ai ricchi!
Il risultato?
In Italia, la distribuzione delle ricchezza è fra le più inique: il 10% della popolazione possiede il 45% della ricchezza nazionale. In pratica, una persona su dieci si prende quasi la metà, mentre le altre nove si dividono il resto. Questo ci ha fatto precipitare al livello di USA e Polonia, e solo il povero Messico ha una ripartizione della ricchezza più iniqua della nostra. Nessun altro, in Europa, vive una così drammatica differenza di reddito fra le classi sociali.
Perché non iniziare ad aumentare le tasse, progressivamente, a chi guadagna più di 100.000 euro l’anno? Se chi guadagna 100.000 euro ne dovesse pagare 1000 in più, si ridurrebbe in miseria? Ecco dove trovare i fondi per finanziare i disoccupati, non prelevandoli dall’INPS (che ha un attivo di 11 miliardi!) per poi, alla fine della questione, aumentare di nuovo l’età della pensione per far cassa!
Purtroppo per noi la classe politica – intera – fa parte di quel 10% dorato, e non si farà, da sola, un simile autogol: sempre che non s’inizi, in tanti e continuamente, a ricordarlo. Tutti i giorni: scrivendo sui blog, facendo girare messaggi via mail, su Facebook, ecc.
Certo, dissertare sui massimi sistemi può essere utile, ma ricordiamo le parole di un grande presidente, Sandro Pertini: «La democrazia inizia con la pancia piena».
[1] Fonte: Repubblica, 9 Marzo 2009, http://www.repubblica.it/2009/03/sezioni/economia/crisi-19/ue-disoccupati/ue-disoccupati.html
[2] “Decisioni su alcune questioni relative all’instaurazione di un sistema economico di mercato socialista”, Plenum del Comitato Centrale del Partito Comunista cinese, 14 novembre del 1993. Fonte: Michele Fabbri: “Economia socialista di mercato o capitalismo tout court?” http://www.marxismo.net/fm188/14_cina.html
Onestamente devo confessarti che, da un paio di lustri, non sono più convinto che si pensi solo usando il cervello...gli antichi dicevano che i pensieri e le decisioni più importanti venivano dal cuore...
RispondiEliminaHo letto in tre tempi questo tuo 'lavorone', perché mi sono venute alla mente, pardon, dal cuore, tre immagini del mio passato:
-ho passato parte dell'infanzia seduto, assieme ad altri, per terra attorno ad un "nonno" (quasi cieco) che raccontava, a noi bambini, favole e viaggi fantastici inframmezzati da esperienze reali. Era analfabeta ma aveva una ricchezza ed una fantasia, una capacità comunicativa diremo oggi, che ammaliava...e non solo noi:
qualche genitore gli chiese se poteva registrare le sue storie con il 'geloso' (ho ancora un paio di nastri ma non ho più il 'geloso').
Non so bene a cosa mi è servito, però ti posso dire che dai 10 ai 20 anni mi sono letto un intera biblioteca (circa 4mila libri eterogenei della nostra minuscola biblioteca del paese). Ero un 'drogato' di storie, tolti i libri di economia e qualche saggio 'tecnico' mi sono divorato diversi quintali di carta stampata...
(siccome sono sempre lungo, la parte fra quadre la puoi saltare)
[L'incredibile è che non mi ricordo quasi nulla! In questi giorni ho l'occasione di ascoltare 'ad alta voce' di radiotre, durante i miei trasferimenti in auto, stanno leggendo "Ventimila Leghe sotto i mari"...io l'ho letto almeno tre volte (forse cinque o più) fra i 12 ed i 17 anni (cioè più di 30anni fa)...ma non riesco a riconoscere nemmeno un passaggio!?...E la cosa più terribile è che -invece- mi vengono in mente le immagini del film di waltDisney!!! Ma porc... ecco cosa fanno i 'media'...]
-ho avuto l'occasione, nel 1984 e nel 1985, di lavorare a Mosca e Leningrado (allora si chiamava così) e ci sono stato per un totale di un paio di mesi. Dal tuo bel testo mi sono riaffiorate alla mente, ops di nuovo, al cuore, immagini di supermercati semivuoti di derrate alimentari ma traboccanti di 'matrone' russe (un po' puzzone per la verità) che si spintonavano in fila. Mi sono andato a cacciare nei negozi più 'popolari' evitando accuratamente quelli dedicati ai turisti e/o agli occidentali. Serbo ancora diversi prodotti, tipo un set da 'campeggio' tutto in robusto metallo 'pesante' russo. Forse sai già che il prezzo, di questi oggetti, è stampato in rilievo sul metallo del pezzo stesso!...(cioè è proprio 'scritto' nello stampo della 'pressa' che l'ha formato)... forse il "mercato" è assurdo (intendendo come "mercato" il "mercatismo" moderno cioè quello da te citato) ma anche il prezzo inciso sul metallo non è proprio una furbata...
[Io ho comunque un grosso debito verso tutte le persone che ho conosciuto in quei mesi, in Russia. Mi sono trovato difronte a persone molto accoglienti ma sopratutto ingenue, di una ingenuità pura, quasi fanciullesca, verso le cose della vita...mi hanno trasmesso una umanità, una fiducia verso l'altro, che da noi 'occidentali' già si era persa...mi hanno ricordato il 'vecchio delle storie'...il pane fatto in casa...
Mi ricordo che ho pensato: se dovessero abbattere il muro questi hanno solo da perderci, in mano ai volponi, cinici e spietati, europei si faranno distruggere in pochi anni...invece hanno fatto da sé...]
-il "mercato", hai fatto bene a scriverlo fra virgolette. Mi è tornato al cuore (ce l'ho fatta) un articoletto di una trentina di anni fa (forse 'solo' 20), che ho letto su "Famiglia Cristiana" (non era una delle mie letture preferite...la trovai per caso). C'era tutta una descrizione sociale e culturale sul significato della parola mercato e sull'uso che la moderna economia ne faceva distorcendo l'idea che la gente ha in testa della parola mercato, per vendergli il "mercatismo" come buono...
[Il mercato, si diceva nell'articolo ma in effetti l'ho sempre detto e pensato anch'io (e forse tutti noi), è la piazza del paese ovvero il piazzale del 'mercato' bovino, dove si svolge, periodicamente, la compravendita delle 'cose'.
Come funziona il mercato?
Chi vende espone le cose in bella mostra sulla bancarella, le bancarelle sono tutte vicine, in file ordinate, raggruppate spesso per genere merceologico.
Chi compra ha sempre la possibilità di vedere, di toccare, di provare, di assaggiare. Ma sopratutto chi compra e chi vende sono sullo stesso piano (la piazza!) sono sotto la luce del sole, sono in contatto diretto, direi: umano.]
Ecco come ci hanno fregato, hanno sostituito dentro le nostre teste l'idea del mercato, hanno usurpato il significato della parola.
Il "mercato" è in realtà una bella fregatura, direi un ladrocinio, un assalto piratesco di pochi a spese di molti.
Chi ha permesso queste cose non solo deve vergognarsene (e sono sicuro che -prima o poi- lo farà, basta una settimana per pentirsi di una vita, chiedere a R.Gardini) ma deve anche fare ammenda.
Concludendo...
Per me (ma anche per te mi sembra di capire) una delle prime mosse che bisognava fare (ma forse si è ancora in tempo) era proprio la sospensione (oppure anche il parziale annullamento) dei debiti (mutui ecc) delle fasce sociali più deboli (operai, impiegati di basso livello e rispettive famiglie). La banca ha fallito perché ha sbagliato politica economica? Per cui anch'io perdo o riduco il lavoro (non per colpa mia) e quindi il reddito, allora perché devo continuare a pagare le rate del mutuo alla banca fallita? Perché il peso della 'crisi' deve essere solo sulle mie spalle?
Sarebbe un inizio...non è così folle come sembra, pensate che ormai gli immobili valgono molto meno di quello che valevano solo 2 anni fa e nel mercato ce ne sono molti derivanti da 'ipoteche' che le banche non riescono a vendere...ovvero devono svendere...Le banche il danno economico ce l'hanno comunque...
Ho una idea ancora più balzana e sarebbe la possibilità di pagare i servizi, almeno quelli locali, non con denaro ma con altri servizi oppure anche con 'crediti' (una sorta di moneta locale gestita dai comuni o da 'banche' di cittadini appositamente associati).
Poi si potrebbe estendere anche all'acquisto di merci...
La vedo un po' così:
-tu comune mi porti il figlio a scuola con il pulmino per nove mesi?
Ti dovrei 300 euro? Ma sono un operaio a orario ridotto...
In cambio ti posso pulire i giardini, ti posso sostituire le lampadine negli uffici, ti posso riparare le tapparelle della sede comunale, verniciare la mensa o le aule della scuola (lo so che l'hai detto proprio tu, ma posso provare che l'avevo personalmente proposto ad un Consiglio di Istituto di qualche mese fa...).
Complimenti, ancora ed ancora, non so se ti farà piacere ma hai una eleganza e ricercata purezza, nello scrivere, che ti invidio e che mi ricorda quella di uno dei miei autori preferiti...il Vate, tu sei più
raffinato, lui più estetico...o forse meno, chissà.
ciao
RA
Grazie Roberto, e grazie di cuore, perché il tuo commento è la naturale prosecuzione dell'articolo. Il mezzo elettronico è freddo, mica è come stare all'osteria di fronte ad un bicchiere di vino, però qualcosa ci può dare. In senso comunitario.
RispondiEliminaAlmeno, riesce ad avvicinare - noi, lontani - ed a farci capire che non siamo solo dei sognatori idioti. Forse, non abbiamo quella "spinta" verso l'ambizione, che tanti hanno, e farebbero meglio a contenere.
Forse, qualcosa da raccontare l'abbiamo: solo questo, possiamo fare.
Un abbraccio
Carlo
Bellissima ed interessante analisi.
RispondiEliminaConcordo sull'ultimo punto: far girare questo tipo di informazioni (soprattutto fra i giovani) è vitale in un momento come questo.
Vorrei ringraziarla per il prezioso lavoro che svolge; non la conoscevo, ma ho letto gli ultimi post e sono diventata subito sua fan.
PS Avere qualcosa da raccontare, in una società basata sul nulla, non è poco, è una facoltà rara, da proteggere!
Grazie, holamotohd, per l'intervento e benvenuta in questa comunità di pazzi!
RispondiEliminaCarlo Bertani
Cari ragazzi da oggi bisogna che siate più attenti al cliente,il buffet della sala colazione deve essere sempre pieno e voi, dimenticando tutti i giorni i vostri problemi e le vostre famiglie dovete essere sempre attenti e sorridenti con il cliente.Il vostro datore di lavoro se perdura la crisi sarà costretto a tagliare il personale, purtroppo egli non è un benefattore non si può permettere la misericordia, quindi forza ragazzi mettetecela tutta da adesso in poi massima abnegazione.Allora Marco tu che ne pensi: Bè vede direttore mi fa piacere che lei parli di attenzione verso il cliente, sono anni che cerco di metterlo al centro del mio operato, però mi ricordo in tempi non molto lontani dove dovevamo cacciare via la gente dall' hotel che venivo ripreso perchè perdevo tempo a interloquire con i clienti, il suo discorso mi sembra sensato ma mi sa un pò "di ricatto".Marco non è un ricatto voi dovete capire che chi fa impresa rischia di suo e quando dico di essere cordiali con i clienti intendo finalizzare il tutto alla vendita di un prodotto, se riuscite a vendergli una bottiglia di Brunello va bene altrimente glissate. Mi scusi "non avevo capito la sottigliezza" d' altronde è lei che conosce il marketing io so soltanto portare piatti.(Discorso tenuto in un albergo romano tra il Direttore e i suoi dipendenti per affrontare la crisi). Caro Carlo tu parli bene ma io questo mercato non lo capisco, il comunitarismo è l' unica soluzioene sono pienamente d' accordo ma sei convinto che questi sciacalli ce lo lascino fare? Un saluto con eterna stima.
RispondiEliminaRinchiudersi in piccole comunità magari no, ma che almeno ci sia una comunità... proprio sotto a dove abito da sempre, a Roma, quando ero bambino c'era il sambuco e dei baraccamenti. Poi negli anni Ottanta hanno buttato giù quasi tutto, anche gli edifici che meritavano di essere salvaguardati, perché gli abitanti sono stati mandati nelle case dell'Iacp: alveari immensi con gli ascensori perennemente guasti e i pavimenti in linoleum.
RispondiEliminaHanno costruito un parcheggio, la fermata della metro, la fermata delle FS, ma mica si vive di solo pendolarismo.
Adesso nello sterrato della valle che è rimasto abbandonato per decenni ci vogliono fare un centro commerciale. Un altro...
A ridosso c'è la collina (per intenderci dove hanno girato "Brutti, sporchi e cattivi" di Ettore Scola nel 1975) dove da qualche tempo sono ritornate le pecore al pascolo. Ecco, se continuiamo a pensare solo a costruire complessi residenziali e centri commerciali che fine faranno i pascoli? Non abbiamo bisogno dei pascoli?
Non si tratta di rinunciare al silicio, ma di rendersi conto che oltre a costruire microprocessori serve anche preservare i terreni da pascolo, con buona pace degli immobiliaristi.
E invece, guardate i sindaci di Roma: Rutelli, Veltroni, Alemanno, tutti inginocchiati a baciare le mani ai potenti dell'edilizia. Che la cosa più bella che sono riusciti a costruire è stata la Nuova Fiera di Roma: è il posto asettico dove hanno girato il film "Tutta la vita davanti". Andateci in una giornata di pioggia... da una parte il centro di permanenza temporanea, dall'altra il corridoio che porta alla fiera (?).
Un paio di chilometri più avanti il centro commerciale Parco Leonardo (no, non è Leonardo da Vinci, è Leonardo Caltagirone).
Luca
Caro Marco, se sostituiamo il "cliente" con "l'utenza" e il "servizio" con "l'offerta formativa", potremmo scambiare i direttori d'albergo con i Dirigenti Scolastici. Anche la solfa, oramai, è globalizzata.
RispondiEliminaNon farci caso: gliela fanno imparare a memoria. Piuttosto, dobbiamo far passare il principio che chi perde il lavoro non perde il diritto di vivere, e l'unico modo che trovo per farlo è farmi ascoltare da più persone possibili.
Ci vuole tempo, ma il tempo - inizio a credere - lavora per noi.
Caro Luca, ti sei accorto che, i richiami al comunitarismo sociale, colpiscono più di mille analisi?
Io e te - grandi estimatori di Pasolini - conosciamo la potenza evocativa della parola. La usa il konducator? Rendiamogli la pariglia!
la tua descrizione della Roma post...post...post...è evocativa, terrificante nella sua semplice freddezza.
Per Roberto: da qualche parte, dovrei ancora avere il "Geloso": nero=stop, giallo=indietro, verde=ascolta, rosso=registra. Chissà se l'alimentatore è ancora in vita?
Un abbraccio a tutti
Carlo
Me ne sono accorto, Carlo, comunque per quanto mi riguarda ho trovato la tua analisi interessante complessivamente, poi ovviamente mi sono soffermato su un singolo aspetto per non dilungarmi troppo.
RispondiEliminaNeanche a farlo apposta, i film da me citati nel commento sono emblematici (non so se li hai visti): il primo è forse il più complesso e provocatorio dei film di Ettore Scola, e il più pasoliniano (seppure in chiave di contrappunto). Il secondo mette in scena in chiave tragicomica uno spicchio di società, appunto "post-post-post"... forse uno dei pochi film italiani degli ultimi anni davvero interessanti.
ma tutto quello che lei scrive o scriverà,ma non voglio frenare il suo impeto e la sua rabbia, io l'ho letto in questi giorni,rileggendo,nelle Belle Bandiere,nel Caos,nelle Lettere Luterane di Pier Paolo Pasolini chiedendo anche il sostegno dei suoi colleghi,silenziosi ed asserviti al Palazzo ed alle retribuzioni dei loro Palazzi personali.
RispondiEliminaCaro Carlo,
RispondiEliminaho letto con interesse la tua analisi. Vorrei aggiungere alcune osservazioni. Per poter proporre delle possibili soluzioni all'attuale declino, è bene a mio avviso vedere esplicitamente quale parte tocca a noi "comuni comparse" nell'ormai onnipresente e malato mercato. Nell'ideologia del libero mercato noi siamo consumatori, facile. Il nostro compito primario, forse unico, è consumare. I nostri molto prevedibili e poco fantasiosi politici (in particolare lui, l'innomiminabile :-)), lo ripetono sempre: "Ragazzi non stà succedendo niente, va tutto bene!! Siate ottimisti! Andate e comprate ogni cosa, possibimente inutile e costosa, e vedrete che tutto si risolverà! Il mercato ripartià!". Ecco, noi oggi siamo solo consumatori ed ogni nostra azione viene misurata in termini di PIL (è meraviglioso tutto ciò, una cosa che non è esattamente - scientificamente - misurabile, il PIL, viene utilizzata come misura per il tutto...). Le altre forme di vita sociale che hai citato nel tuo articolo avevano ed hanno in comune tutte un unica cosa: non prevedono il consumismo. Il mercato sì, e come se lo prevedono. Ma non prevedono il consumismo, il considerare le risorse primarie disponibili infinite, l'esistenza del rifiuto, della "monnezza" a tutti i costi, perchè sanno benissimo che viviamo in un mondo finito.
Ecco, forse se semplicemente incominciassimo a "mitigare" il consumismo, sarebbe un bel punto di partenza. Mi sa che pretendo un pò troppo.....
Servus,
Alex
Scusate se rispondo con ritardo, ma sono stato colto da improvvisa influenza.
RispondiEliminaParentesi: bisognerebbe raccontare al Brunetto da Monpiccino quanto sono soggetti a batteri e virus i dipendenti della scuola e della sanità.
La scuola, con ragazzi che hanno fratellini e sorelline all'asilo, è il tripudio del batterio, l'epifania del virus. Chiusa parentesi.
Eh sì, non stupiscono i richiami a Pasolini, perché il "friulanaccio" era avanti di decenni. Che mente.
Sul versante dell'arte, solo Carmelo Bene gli poteva stare accanto.
Il mio intento, Alex, non era tanto quello di proporre soluzioni, quanto il ricordare che si dovranno prendere delle decisioni, e quindi stimolare il dibattito.
Credo che questa crisi cambierà profondamente le nostre abitudini, tutto non "sarà come prima".
Per questo, sarebbe interessante sondare quali spazi avrebbe una nuova forza politica che si proponesse un vero cambiamento di rotta (non la minestrina del PD) e con quali mezzi.
Alcuni punti fermi, non troppi, per iniziare a ragionare "sul campo" di decrescita.
Saluti a tutti: torno all'acqua e limone.
Carlo Bertani
Riguardati Carlo... te l'ho già detto che tempo fa ho letto il tuo post e mi sono sentito l'influenza... sono le correnti rigide del cuneese!
RispondiEliminaNon sono d'accordo sull'aumento di tasse ai redditi sopra i 100.000 euro, perche saranno si e no lo 0,5% dei contribuenti "noti" al fisco. I veri grandi ricchi , quel 10% che si mangia il 45% della ricchezza nazionale, sono fra noi, invisibili al fisco eppure palesi (si vedano le mandrie di SUV che infestano le nostre strade e i nostri parcheggi!). Una misura come quella proposta darebbe ricavi irrisori a fronte di un forte risentimeno da parte di quei contribuenti che per il loro lavoro riescono a guadagnare onestamente sino a 100.000 euro all'anno "non occultabili" in alcun modo (per esempio come me!). Si veda anche "l'Amaca" di Michele Serra su Repubblica di un paio di giorni fa. Cordiali saluti
RispondiElimina