21 marzo 2009

Dietro le quinte del “Obamismo”

Il presidente Obama impazza ai quattro venti sulle reti televisive, compiendo anche qualche gaffe: sappiamo, quando l’attività ferve, che un errore linguistico – come quello sulle Paraolimpiadi – può scappare. Fossero questi i problemi.
L’esaltazione è al massimo: quello che non condividiamo è il giocoso ottimismo di Vittorio Zucconi[1] – forse la miglior “penna” italiana negli USA – come se bastasse essere giovane, negretto, simpatico ed atletico per rovesciare decenni di soprusi, interferenze interne nella politica d’altri Paesi, sciagurate scelte economiche, truffe finanziarie, innaturali compari strategici, omissioni climatiche…con in aggiunta una spocchia ed una presunzione senza pari.

Quando si hanno le pezze al sedere – caro Barack, caro Vittorio – la prima cosa da fare è un bagno d’umiltà.
Lo ha ricordato, con naturale ed estrema semplicità, l'ayatollah Ali Khamenei – massima autorità degli sciiti iraniani – affermando “ho sentito slogan sul cambiamento, ma il cambiamento non si è visto[2].
Comprendiamo le “peste” (o “la” peste?) nelle quali si trova impelagato fino al collo il giovane Presidente USA: dopo otto anni di sciagure “targate” Bush, la china da risalire è dura e deve lottare su più fronti, interni ed internazionali.
Siccome Barack – nei suoi affetti personali – pare baciato dalla fortuna più di un “galletto” come Clinton o di un “sorvegliato speciale” come Bush, sembra aver dimenticato che, in amore come in politica, ciò che regge al tempo sono i compromessi, il buon senso e le concessioni. I buoni propositi, dopo i tradimenti, lasciano il tempo che trovano.
E, di “mogli tradite”, la diplomazia americana ne ha interi harem, sparpagliati nei cinque continenti (non abbiamo notizie di guai dall’Antartide). Più, ovviamente, mogli, fidanzate, compagne ed amanti deluse che si ritrova in casa.

E’ proprio di oggi la notizia che un’antica fidanzata – con la quale, nel passato, ci fu baruffa forza 9 – ha sbattuto la porta e se n’è andata, senza nemmeno curarsi dell’argenteria o di chiedere gli alimenti.
Il Ministro della Difesa spagnolo, la signora Carme Chacon, Giovedì 20 Marzo 2009 ha annunciato direttamente ai militari spagnoli in Kosovo, appena scesa all’aeroporto di Djakova, che sarebbero tornati a casa[3].
Tralasciamo il minuetto diplomatico fra le cancellerie europee, quel “io l’avevo detto”, “no, non l’avevi detto”, “sì, l’ho fatto e non avete sentito”, “no, l’hai detto mentre eravamo voltati”.
Suvvia, signori, queste sono manfrine e giochetti che si fanno alla scuola elementare: “Marco ama Francesca”, “no, ama Giada e lo sa anche la maestra”, “li ho visti mano nella mano in cortile”, “no, Giada m’ha assicurato che andrà solo al suo compleanno”.
Insomma, signori Ministri degli Esteri (‘Gnazio, hai sentito?), lasciate il banco delle elementari e rendetevi conto che siete in diplomazia. Dovreste dissertare su Metternich, Bismarck, Pitt, Napoleone…e non di compleanni.

Il succo della vicenda è che 632 militari spagnoli lasceranno a breve una delle aree più “calde” del Kosovo, quella dove ci sono le enclave serbe, a serio rischio d’estinzione per la “magnanimità” del “presidente” kosovaro Hashim Tachi, un tizio che ha scansato il Tribunale dell’Aia nominandosi presidente di qualcosa che non si sa bene cos’è[4]. Anche Milosevich era presidente, o sbagliamo? Pronto, signora del Ponte? Tuut, tuut…sempre occupato…
La vicenda rischia di diventare un boomerang per l’Italia, perché gli spagnoli sono schierati proprio nel settore di competenza italiano e quindi toccherà all’Italia, in primis, metterci una pezza. Cioè alle nostre tasse…pardon, tasche.

Parentesi: la novella delle indipendenze “auto-proclamate” ci sembra proprio un bel passo in avanti della diplomazia internazionale. Ciascuno fa, del suo (presunto) territorio, ciò che vuole. Potrei fondare “Bertania”? Mi dicono di no.
A prima vista parrebbe la soluzione più semplice, ma come la mettiamo con quelli che abitano sì in quei posti, ma si sentono legati ad altri? Tutti i veneti vogliono un Veneto indipendente? Non ci sembra proprio: i dati elettorali parrebbero negarlo.
L’andazzo, ci sembra ancora una volta mutuato dalla scuola elementare, laddove – quando si litigava con il compagno di banco – si tirava una bella riga in mezzo e si minacciava: “Se oltrepassi il confine, ti pungo con l’ago del compasso”. Torniamo a chiedere alle diplomazie internazionali di salire, almeno, alle medie. Fine della parentesi.

La questione spagnola non è un fulmine a ciel sereno: è, semplicemente, la naturale risposta ad un pessimo andazzo che ricalca tutte le missioni internazionali.
“Si va tutti insieme e si decide di partire tutti insieme”: certo, però quel “tutti insieme” finisce per essere un semplice fonogramma da Washington.
Ricordiamo che, in Kosovo nel 1999, 19 aviazioni operarono (compresi gli AMX di D’Alema) così d’amore e d’accordo che – quando gli USA decisero di bombardare l’ambasciata cinese (una quisquilia, ovviamente, in diplomazia) – lo fecero senza avvisare nessuno. E la Francia iniziò a “passare” i piani di volo ai serbi: fu veramente una famiglia gioiosa e colma d’amorosi sensi. Si vide il seguito in Iraq.
Perché, oggi, la Spagna si smarca?

Per prima cosa, poiché l’aquila americana – dopo l’Iraq – non fa più paura a nessuno: con tutti i guai che hanno a casa loro, cosa potranno fare? In Italia non ci siamo ancora arrivati. In Francia, invece, ci sono ricascati.
In seconda battuta perché c’è una crisi economica e, se si “taglia” lo stato sociale, non si capisce perché non si possano tagliare i fondi destinati all’Italian Infantry Army in Kosovo. Che, pur essendo praticamente un corpo di spedizione dell’esercito americano, viene pagato dai contribuenti italiani. La Spagna ci è arrivata: noi, restiamo “fedeli alleati” e costruiamo nuove basi yankee come a Vicenza.

Queste sono controversie del breve e medio periodo – magari con qualche compensazione economica, un tempo, si sarebbero appianate – ma gli USA potrebbero oggi garantire al massimo qualche tonnellata di bond tossici. Thank you, not.
Nel lungo periodo, invece, questo “ritiro” è il segno di quel che sta avvenendo in America Latina.
La Spagna non fu nazione sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale, e non aveva più – praticamente – possedimenti coloniali: particolari da non sottovalutare.
Gli stati latinoamericani pervennero da soli all’indipendenza, mentre il “boccone” più prelibato del restante impero coloniale spagnolo – le Filippine – fu ingurgitato proprio da Washington, imbastendo una false flag all’Avana (lo strano “attentato” alla corazzata Maine) in pieno stile Pearl Harbour od 11 Settembre.
Tutto passa in diplomazia, ma tutto resta, poiché gli interessi rimangono: se qualcuno ha dei dubbi, s’informi sulla “penetrazione” del Banco di Bilbao in America Latina.

A Sud di Monterrey, gli USA possono contare soltanto più su un “Fort Apache” in Colombia: per giunta, messo talvolta sotto scacco dai vicini. Se parlate dei gringo in Argentina, persino Maradona si mette alla testa di un treno per andare ad urlare la rabbia stratificata, quella di decenni di soprusi.
E poi Morales, Chavez, la Bachelet…oh, trovarne uno che si prostri a Washington: il Cile, aveva persino – timidamente – proposto un’affiliazione all’Unione Europea, mettendo in grave imbarazzo Bruxelles. Non scambiamo gli accordi commerciali di Lula con Bush per i biocarburanti: quelli sono affari e basta, e business is business.

Dove può trovare “sponda” la nuova America Latina – che s’è oramai affrancata dall’essere il “cortile di casa” di Washington – se non nell’antica madre/matrigna, ma pur sempre la nazione con la quale ha comunanza di lingua[5]?
Sappiamo d’accordi economici stabiliti fra il Brasile e l’India, militari fra il Venezuela e la Russia e poi Cina un po’ per tutti, ma Madrid rimane, per i latinoamericani, un faro. Molto, molto di più di Roma, che non ce la farà mai a scalzarla: basta osservare come sta andando la vicenda di Battisti.
La comunanza di lingua è un fattore importantissimo – oggi spesso ignorato, nel nome del cosiddetto “inglese internazionale” – ed invece, mentre l’impero americano declina, torna ad essere legame forte: riflettiamo che un libro in italiano può avere al massimo 60 milioni di potenziali lettori, uno in spagnolo rasenta il mezzo miliardo.

Per questa ed altre, moltissime ragioni, consiglieremmo ad Obama di meditare meglio sulla sua politica: per ora soltanto un ensemble di spot ben congegnati ad uso russo/cinese/europeo, che però rischiano d’esser mal compresi nel resto del Pianeta. Ad esempio, quel “noi non negozieremo il nostro stile di vita”, ascoltato nel suo discorso d’insediamento, non ci è parso un gran biglietto da visita.
Il problema – caro Barack, caro Vittorio – è che di “mogli deluse”, all’interno degli USA, iniziano ad essercene troppe, e guai all’inquilino di Pennsylvania Avenue se dovessero saldarsi con i riottosi harem sparsi per il Pianeta: correremmo il rischio d’osservare, per la seconda volta, un film già visto.

Perché, Barack Hussein Obama, potrebbe rapidamente trovarsi – suo malgrado – rinominato in altro modo: Michail Sergeevič Gorbaciov.

[1] Fonte: “Repubblica”, http://www.repubblica.it/2009/03/sezioni/esteri/obama-presidenza-5/zucconi-21mar/zucconi-21mar.html
[2] Fonte: “Repubblica”, http://www.repubblica.it/2009/03/sezioni/esteri/obama-presidenza-5/risposta-iran/risposta-iran.html
[3] Fonte: “Repubblica”, http://www.repubblica.it/2009/03/sezioni/esteri/spagna-kosovo/spagna-kosovo/spagna-kosovo.html
[4] Per avere maggiori delucidazioni sulle vicende kossovare, vi rimandiamo caldamente a Miguel Martinez su Kelebek (http://kelebek.splinder.com/ ). Soprattutto la “Storia di Reska”, uno dei più commoventi brani letterari pubblicati nell’ultimo decennio.
[5] Anche se il Brasile è di lingua portoghese, le affinità linguistiche (soprattutto sintattiche) sono molte. Basti pensare che gli spagnoli “nazionalisti” considerano il portoghese “un dialecto del gallego”.

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