Spesso, il funzionamento della giustizia viene considerato
una forma di lotta politica: molti, a Destra, credono senza dubbio in questo
concetto. Il vero problema, però, è un altro: ogni volta che si mette mano alla
giustizia, un governo inizia a traballare ed iniziano estenuanti confronti per
cambiare, in fin dei conti, il nulla che consente a Tomasi di Lampedusa d’esser
sempre lo scrittore più ricordato dagli italiani. Dalle arringhe di Cicerone
agli svolazzi gattopardeschi, nulla deve cambiare: ed inizia il conteggio ad
orologeria per il governo.
Ci si mette anche l’Europa, con una sentenza che richiama i
nobili principi della filosofia del Diritto, e ci presenta il conto del nostro
vagare senza costrutto fra claudicanti sentenze e dubbie riforme. Il tutto,
viene presentato dalla classe politica – all’unisono – come l’ennesimo attacco
all’Italia, che non potrebbe più combattere la Mafia se dovesse applicare ciò che la CEDU ci ha consigliato. Il
che, è proprio la classica “cippa” mediatica ad usum stultorum.
La CEDU
ha posto l’indice sul nostro “strano” (a dir poco) metodo di valutare la
“redenzione” del condannato, ossia proprio il “metro” che viene applicato per
la valutazione: mentre in quasi tutti i sistemi giuridici occidentali (latini
ed anglosassoni) – non prendo in esame altri diritti, altrimenti la questione
sarebbe troppo complicata – la valutazione è quella di stabilire se il
condannato ha realmente realizzato la consapevolezza della gravità dell’atto
commesso, oppure se rimangono zone d’ombra in questa presa di coscienza. Meno
che mai, però, il “premio” della libertà può essere valutato soltanto su una
rozza base di “do ut des”, come avviene per il fenomeno – tutto italiano – del
pentitismo.
Fino agli anni ’70 una forma primordiale del fenomeno la
possiamo ritrovare nell’uso – che sempre è esistito ed è perfettamente logico –
della maggiore o minor dilatazione del concetto di attenuante, che il giudice
valuta secondo la situazione.
Dagli anni ’70 in poi, il fenomeno del pentitismo prese
piede per sconfiggere, nel minor tempo possibile, il fenomeno del terrorismo.
Fai dei nomi, dicci quel che sai e sarai “premiato”: un fenomeno relegato ad
un’emergenza, perché salta immediatamente agli occhi la contiguità di tale
concetto con la legislazione di guerra quando – per contrastare il lavoro delle
spie – si giunge a compromessi, a volte assai pesanti, sul fronte delle
garanzie costituzionali.
L’Italia degli anni ’70, però, non era formalmente in
guerra, a meno che non si desideri estendere “a piacere” il concetto di
emergenza giuridica a tutto tondo: come ci pare, ci serve o ci conviene. Qui, a
mio avviso, giunse il primo vulnus.
Il secondo, più grave, fu quando si meditò d’estendere il
principio alla lotta alle Mafie, e per due motivi.
Mentre sul fronte del terrorismo, grazie al pentitismo – se
non sincero, era più il pentimento del prigioniero di guerra, dello sconfitto
di quello interiorizzato – i risultati furono confortanti, nel senso che i
pentiti si distanziarono realmente dalla lotta armata, sul fronte delle mafie
le cose andarono in tutt’altro modo.
Non starò a perder tempo ad illustrare i tanti fenomeni che
abbiamo osservato nel corso di queste vicende: pentiti che si “spentivano”, che
appena fuori dal carcere riprendevano le attività criminali, che utilizzavano i
soldi ricevuti dallo Stato per nuove attività criminali, ecc. A fronte di
qualche risultato, la correlazione fra reato e pena è stato distrutta: questo è
il danno peggiore.
Il secondo motivo è più sottile, meno evidente, e riguarda
le attività investigative. Divenuta un’abitudine che qualcuno “cantasse” (il
vero o il falso, poi tutto da vedere) le attività investigative divennero più
fiacche, il pensiero analitico di correlazione degli eventi di un Maigret o di un
Montalbano rimase confinato al mondo degli scrittori che, quando scrivono libri
gialli, in fin dei conti, giocano a fare il commissario. L’abitudine divenne:
con le buone o con le cattive, fatelo cantare. A ben vedere, un metodo che
riportava indietro le lancette della Storia della criminologia e dei metodi
investigativi ai tempi dell’Inquisizione.
Purtroppo, ne abbiamo una prova nel disastroso fenomeno dei
femminicidi: ogni due o tre giorni, fateci caso, una donna viene uccisa. Dal
marito o dall’amante, dal padre o dall’innamorato respinto ma viene uccisa, ed
è un fenomeno sul quale non possiamo invocare scusanti, di nessun tipo. Molto
spesso, la donna uccisa s’era rivolta alla Polizia, ai Carabinieri o ad un
magistrato, senza nessun risultato.
Certo, la sociologia potrà fornirci degli appigli per
spiegare il fenomeno, ma non si può chiedere di cambiare la società altrimenti
la disperazione s’incanala lungo la via di un coltello o di una pistola. La
società andrebbe cambiata perché ingiusta e violenta nei confronti del
cittadino, e questo è auspicabile e bisogna lottare per ottenerlo, ma se una
donna smette di essere il calmiere delle angosce sociali – ossia sesso e
pastasciutta a piacimento – non si può cancellarla dalla vita, perché le donne
soffrono le angosce sociali come gli uomini. Sono, solo, più deboli
fisicamente.
Su questo esempio, deraglia il treno delle indagini, perché
le donne non “cantano”, le donne si lamentano: solo che nessuno le ascolta, i
magistrati archiviano per leggerezza o cattiva volontà, poliziotti e
carabinieri “passano” il verbale “a chi di dovere” e si finisce col funerale,
che tutto cancella.
Ci sono tanti, altri casi nei quali la capacità
investigativa è a dir poco carente: dai mille furti impuniti, dagli spacciatori
conosciuti e tollerati in quanto, all’occorrenza, “gole profonde”, ai tanti
omicidi mai risolti e ancora senza nome, al “russo” Igor che viene circondato
da reparti militari in un quadrato di 20 x 20 Km e scappa come un
fringuello, fino ai mille truffatori per i quali si è giunti alla pantomima
degli “avvertimenti” di non aprire a nessuno, ecc. Un fallimento totale:
nessuno ha più la ragionevole certezza che, sporta una denuncia, si arrivi a
qualcosa. Anzi, sono gli stessi inquirenti a sconsigliare: tanto, spenderà solo
dei soldi e non arriverà a nulla…
Tutto questo ha nome e cognome: la non certezza della pena.
L’omicidio volontario prevede una pena che va da 21 anni
all’ergastolo, a secondo della gravità dell’atto ed è il giudice a decidere
questa “forbice”. La pena realmente scontata, in media, è di 12,4 anni.
L’omicidio preterintenzionale prevede pene dai 10 ai 28 anni: la media, ci dice
8,8 anni passati in carcere. (1)
Un uomo confessò l’uccisione della moglie 22 anni dopo:
prescritto, non un solo giorno di pena. Pietro Maso, che uccise i genitori per
avere l’eredità, oramai vive in Spagna tranquillo e sereno. Erika De Nardo
ammazzò la madre e il fratellino: fuori dopo 10 anni.
Si potrebbero scrivere pagine e pagine su questi orrori
giuridici, ma non voglio abusare del vostro tempo.
Personalmente, io credo che una persona che uccide
volontariamente non dovrebbe più disporre della propria vita a piacimento,
nemmeno un solo minuto. Però, questa è la mia convinzione personale, perché ho
ben presente il concetto di sacralità della vita. Così come sono contrario alla
pena di morte, poiché pronunciata da un Magistrato “in nome del popolo”, ed io
non voglio sentirmi responsabile della morte di nessuno. Ma sono opinioni
personali, discutibilissime.
E non mi dite che dopo “ci tocca mantenerli”, perché il
lavoro nelle carceri c’è sempre stato ed è sempre stato vantaggioso, sia per le
aziende e sia per i carcerati. Mio padre, un paio di volte l’anno, faceva il
“giro” delle carceri dove la sua azienda forniva lavoro retribuito e serio: non
le buffonate che si sentono oggi, solo biblioteche, teatri, qualche rara
falegnameria…adesso sì che li manteniamo, ma è semplicemente una scelta
politica.
Ma torniamo alla sentenza europea.
Quel che la
CEDU ha realmente detto in quella sentenza, è che non si può
decidere una forma di ergastolo “eterno”, senza prevedere forme di attenuazione
o di rescissione della pena: soprattutto – fra le righe – la Corte ha voluto far notare
che non si può demandare la pena – quasi un automatismo – al pentimento che
preveda l’arresto e la carcerazione di un’altra persona, perché questo metodo
non accerta che ci sia stato reale pentimento. Insomma: è una sorta di
commercio! Mors tua, vita mea.
E molti fatti, in questo contesto, ci hanno mostrato quanto
il pentimento fosse soltanto mirato al deferimento della pena, od alla sua
trasformazione in pene accessorie.
E, tutto questo, disarticola il compito dei magistrati: solo
se “canta” sapremo qualcosa, a cosa serve indagare…
Un coro unito, da Destra a Sinistra, si è rivoltato contro
questo concetto, compiendo una vera disinformazione giuridica sui fatti: le
valutazioni di reale pentimento, in molti Paesi, sono rigidissime, e molto
raramente giungono ad un reale beneficio per il carcerato, eppure la nostra
Magistratura difende questo anacronistico “diritto di guerra” applicato in
tempo di pace.
Nel tempo, la situazione è diventata sempre più scottante:
il buonismo permea le Procure, e i colpevoli sono solo persone “che hanno
sbagliato” e devono essere redente.
Solo per fare un esempio, Pietro Cavallero, nel 1967 compì
una rapina lasciando tre morti a terra. Catturato, fu condannato all’ergastolo.
Fu liberato nel 1988, e lavorò presso il Cottolengo di Torino ed altre
strutture assistenziali e non diede più nessun problema. Il suo pentimento fu
profondo e sincero – che è un percorso aspro per chi è abituato ad imporsi con
la forza – ed è proprio quello che chiede la CEDU nella sua sentenza all’Italia: valutare caso
per caso, non regalare anni di libertà in cambio di un nome.
Qualcosa non va nel nostro sistema giudiziario e prova ne
sia che il ministro Bonafede – che vuole fermare la prescrizione al 1° grado se
c’è una sentenza di colpevolezza – prima è stato fermato da Salvini/Berlusconi
ed oggi viene, ugualmente, avvisato per tempo da Zingaretti: “Oh sì, accelerare
i processi è necessario…ma per la prescrizione ci vuole ancora una pausa di
riflessione…” Ben sapendo che gli avvocati sanno benissimo come posticipare e
rallentare le udienze, cosicché il concetto di non punibilità s’estende, e con
esso la volontà di delinquere. Del resto, il PD aveva bloccato proprio il suo
ministro, Orlando, quando aveva proposto la medesima cosa che oggi propone
Bonafede.
Così si tira avanti, perché Falcone e Borsellino avevano
appoggiato senza riserve il sistema “premiale” del pentimento a fronte delle
confessioni non dei propri delitti, bensì su quelli degli altri!
Purtroppo, però, Falcone e Borsellino si sbagliarono su
questo concetto: il pentimento dei terroristi giungeva da un percorso d’ideali
falliti, quello dei mafiosi è sempre correlato a denaro e potere, che sono due
aspetti che non muoiono mai e che hanno sempre molta “presa” nella società
mafiosa (e non).
Del resto, in questi lunghi anni di pentitismo, abbiamo
notato una vera e reale sconfitta delle Mafie? Il vero capo della Mafia, oggi,
è libero come l’aria: si chiama Matteo Messina Denaro, la sua cosca di
riferimento è quella trapanese, è coinvolto nel grande affare finanziario
dell’eolico siciliano, fu “compagno di merende” di Giovanni Brusca…oh? Cosa vi
devo ancora raccontare perché lo prendiate? Ma andiamo…
Le Mafie hanno capito che conveniva loro cambiar pelle,
entrare nello Stato piuttosto che starne ai margini – difatti, anche al Nord,
sciolgono consigli comunali ogni due per tre – e dunque, a cosa è servito
svendere un cardine del Diritto come la certezza della pena, in cambio di
nulla?
Adesso vedremo, a Gennaio, se il Governo riuscirà a
mantenere le promesse ed a non posticipare alle calende greche un altro cardine
del Diritto, ossia la preminenza della verità processuale sulla volontà
dell’ignavia, del “mai si saprà” perché è trascorso solo qualche anno.
Se ciò non avverrà, propongo di sostituire la lettura
critica de La
Divina Commedia
con Il Gattopardo, in ogni scuola
d’ordine e grado, con la giustificazione – firmata dal Ministro – “perché più
confacente alla realtà italiana”.
Bravo! D'accordo totalmente! Purtroppo con questi valori, ormai ai livelli più infimi, non immagino alcuna soluzione valida. Noi non abbiamo quasi più il senso dell'etica e della morale.
RispondiEliminaGrazie.
RispondiEliminaIn AMMERIGA, In caso di delitti atroci ti danno - non l'ergastolo = per carita', ma 66 anni per il primo e 66 anni per il secondo. Ma si sa gli americani sono coglioni.
RispondiEliminaPoi in alcuni stati ancora c'e' l'iniezione.