Sembra quasi impossibile, ma sono trascorsi ben 75 anni da
quella data, storica per le vicende italiane. La vita di un uomo. Per decenni
ne abbiamo sentito parlare da chi c’era, da chi l’ha vissuto, con diversi
accenti, differenti opinioni. Che hanno pervaso, nei giorni a venire, la storia
italiana.
Era, quella data, già indissolubilmente legata a quella
dell’8 Settembre? Poteva, Mussolini, cercare altre soluzioni? Se lo aspettava? Era
l’unica soluzione, anche per il Duce?
La cronologia di quei giorni, spaventa solo a ricordarla.
Pare quasi un evento stocastico, detta all’occidentale, oppure un groppo di
karma che si scatena improvviso, per un orientale. Improvviso? Forse per chi lo
vive, non certo per chi sa leggere il “prima” ed ha potuto vedere anche il
“dopo”. Le cause sono le radici degli eventi, e solo le condizioni conducono
alla loro maturazione: per gli orientali istruiti non è una sorpresa, giacché
la loro cultura ha molti nessi che, già da bambini, li conducono sulla via della
comprensione, del capire i nessi dell’originazione interdipendente, così com’è
citata nei testi buddisti.
Noi occidentali seguiamo una via più contorta, ma rincorriamo
la cronologia come un vademecum che dovrebbe spiegare, mentre in realtà dipinge
soltanto le situazioni, senza convincere. Ha, però, il pregio della precisione:
sempre che ci sia onestà intellettuale, e certezza delle fonti.
Non è mia intenzione addentrarmi nell’analisi di un evento
che ha già avuto più esegeti che attori, bensì cercare di capire cosa vissero
gli italiani d’allora, secondo le poche fonti non inquinate che si possono
consultare e, soprattutto, le voci, le parole di chi mi dipinse quei giorni, né
maledetti e né meravigliosi (questa è già una perversione del “dopo”), ma solo
funesti.
Il 19 Luglio 1943 si scatena, per la prima volta, l’ira
degli angloamericani sulla città di Roma, fino a quel momento risparmiata dalle
bombe alleate: il colpo è terribile e la città devastata, al punto d’accorgersi
finalmente di cosa succede da tre anni a Milano, a Genova, a Torino…e così via,
nel “cuore” industriale del Paese. Di colpo, il “cuore” politico del Paese deve
prendere coscienza che la situazione non ammette più deroghe: i cinegiornale
Luce non bastano più nel creare sempre il dubbio che sia sempre e solo la
propaganda nemica a mentire.
Gli stessi cinegiornale Luce non fanno nemmeno in tempo a
“confezionare” un prodotto “accettabile” per il regime e, difatti, tutti i
cinegiornali Luce sono postumi, ed in lingua inglese, poi doppiati. Girati dai
nuovi padroni.
Perché la valanga è talmente improvvisa da stordire: i
ricognitori della Regia Aeronautica e della Luftwaffe non riescono nemmeno ad
avvicinarsi ai porti tunisini, perché la caccia nemica è ovunque,
incontrastata. Perciò, gli italiani, non sanno cosa li attende: gli Alleati
sbarcano il 10 Luglio in Sicilia, l’11 Giugno era già caduta Pantelleria, il 12
Luglio cade Augusta, il 22 Palermo. Infine, la presa di Messina avvenne il 17
Agosto la conquista della Sicilia era
durata 37 giorni.
L’Aeronautica ha combattuto una battaglia impari, l’Esercito
in certe situazioni ha combattuto, in altre è scappato, la Marina – oramai ridotta al
lumicino e senza carburante – non si è mossa.
Comunque si voglia osservare la situazione, conquistare un’isola
grande come la Sicilia
in 37 giorni è un’impresa da guinness dei primati: un anno dopo, gli Alleati ci
misero molto di più per riuscire a varcare i confini della Normandia e per
prendere Parigi ci misero due mesi e mezzo.
Scrivo questo, perché ci sono persone le quali ritengono che
l’Italia sarebbe dovuta rimanere al fianco dei tedeschi e combattere palmo a
palmo per difendere il Paese. Di là delle considerazioni morali, non eravamo in
grado di difendere niente: i primi caccia veramente in grado di confrontarsi ad
armi pari con gli Alleati entrarono in servizio proprio nel 1943 – poche
decine, non migliaia di velivoli – la
Marina era a pezzi, non avevamo nulla che fosse paragonabile
ad un carro Patton americano o Tigre tedesco. Non avevamo nulla, così come poco
avevamo nel 1940.
Eppure, ancora oggi, qualcuno parla di “supremo sacrificio”
e di “onore”.
Mussolini era un uomo molto orgoglioso, anche un poco
sbruffone e tracotante, ma non era stupido, non lo era per niente.
Quando seppe dell’ordine del Giorno Grandi, dovette capire
che il vento era oramai cambiato: nella lunghissima lotta – durata vent’anni –
fra il Fascismo e la
Monarchia, la seconda aveva avuto il sopravvento: Grandi era
uomo di diplomazia, amico personale di Churchill, che aveva sempre guardato con
maggior favore a Londra, piuttosto che a Berlino. Difatti, dopo la guerra, fu a
lungo consigliere degli ambasciatori USA in Italia.
C’è da chiedersi cosa si aspettava Mussolini da quel Gran
Consiglio: argomenti da controbattere non ne aveva più, se non uno sterile “pacta servanda sunt”, che Grandi rigirò
facilmente, ricordando che i tedeschi erano stati i primi a non rispettare i
patti. E, la votazione, terminò con 19 voti favorevoli, 7 contrari, 1 astenuto
ed un non-votante.
Come si sentì Mussolini dopo quel voto? Forse abbattuto,
oppure sollevato. D’altro canto, non aveva più strali al suo arco da scoccare:
sapeva che, se quel voto avesse approvato l’esistente, Roma sarebbe stata
bombardata come le città tedesche, e dunque la fine sarebbe stata ancor più
vicina. L’auto del Re, in visita al quartiere bombardato di San Lorenzo il 19
Luglio, fu presa a sassate ed il Re dovette fuggire.
Mussolini sperava, con una buona dose d’infantilismo, di
tornare privato cittadino: difatti, chiese di poter tornare alla Rocca delle
Carminate, a casa sua, a Predappio. Ma la Storia esige sempre un conto da pagare, e non
poté sottrarsi.
C’è un ultimo sberleffo in queste vicende: le due
rocambolesche fughe, quella del Duce e quella del Re. Il primo “liberato” da un
blitz tedesco da alcuni paracadutisti tedeschi sul Gran Sasso, il secondo che –
quasi negli stessi giorni – attraversò un’Italia a dir poco confusa, dominata
dalle truppe tedesche, filtrando come una Primula Rossa fra le soverchianti
forze germaniche: viene da chiedersi se ci fu accordo, e di che tipo, e per
quali scopi di parte.
La
Campagna d’Italia proseguì a rilento – gli Alleati sarebbero
potuti sbarcare sul litorale emiliano qualora lo avessero voluto – perché, a
quel punto, contò più Stalin che Hitler, come futuro nemico, al confronto di un
nemico oramai sconfitto. Troppa velocità avrebbe scontentato Stalin, che si
sarebbe vendicato prendendosi i Balcani ed il sempre agognato sbocco sul
Mediterraneo.
Per Mussolini rimase solo la parte di un personaggio
shakespeariano, che portò a compimento con l’ineluttabilità del destino che
accompagna, sempre, la penna del grande drammaturgo inglese.
Dopo aver sbagliato molto, se non proprio tutto – dai Patti
Lateranensi per ingraziarsi lo IOR, e dunque costruire le armi fasciste, fino a
disperdere quei soldi verso una FIAT che nel 1944 costruiva ancora caccia
biplani e “scatole di sardine” come il carro M-13/40 – si ritirò in una
Repubblica fasulla, senza esercito, se non quello tedesco.
Nulla ci è pervenuto dei lunghi colloqui che il Duce ebbe,
nel suo dorato esilio di Gragnano, con l’amico di gioventù Nicola Bombacci – mai
stato fascista, eppure fucilato a Dongo – il quale già lo andava a trovare in
galera, nel 1911, quando divideva la cella con Pietro Nenni, per aver,
entrambi, manifestato contro la guerra di Libia. E lo ritrovò, nella nuova
“prigione” di Salò, dove continuarono a sognare un mondo migliore, una nuova
repubblica, con tanto di Costituzione. Protetti dalle SS.
Chissà cosa si dissero, cosa si raccontarono: entrambi
avevano conosciuto Lenin, ma mentre il primo aveva creduto nel Partito
Nazionale Fascista, il secondo aveva fondato il Partito Comunista Italiano.
Peccato che l’Italia non abbia avuto un drammaturgo come il
grande William: senz’altro avrebbero avuto l’onore di calcare i palcoscenici di
mezzo mondo. Già, la Storia
a volte è bizzarra, a volte codarda. La maggior parte delle volte, però,
dimentica che, dietro ad ogni vicenda storica, ci sono delle persone, relegate
– a forza – nel loro personaggio.