Cara Barbara,
ho letto il tuo ultimo articolo – Il 25 aprile e il “santino” della Resistenza – pubblicato a latere dell’eterno dibattito sul 25 Aprile e sull’atroce vicenda di Giuseppina Ghersi, che non conoscevo. Poi, sono andato a letto e non sono riuscito a dormire: troppi pensieri affollavano la mente, troppe “soluzioni” scipite, troppi “perché” senza risposte, dubbi. E tanto dolore.
Perché quando in un posto ci vivi ed è la tua città d’elezione, al punto d’averci trascorso più di metà della tua vita, soffri il doppio.
Stamani mi sono alzato e, per prima cosa, dalla finestra ho osservato il porto, il porto di Savona: niente navi della Costa Crociere, non ci sono da temere ingorghi.
Savona è così: nonostante qualche palazzo costruito al posto delle macerie – bombe dall’aria, cannoni dal mare – ed una pessima rivisitazione del post-industriale – ossia le solite costruzioni “all’avanguardia” che cercano di scopiazzare Le Corbusier il quale, bontà sua, la ricerca architettonica la faceva negli anni ’50 del Novecento, mica nel Terzo Millennio – rimane una città “vecchia”, dove i ricordi si sedimentano uno sull’altro e devi munirti del rigore e del metodo dell’’archeologo per scoprire qualcosa.
Così, la vicenda della giovane Giuseppina m’è passata sotto gli occhi da via Donizzetti – una via secondaria proprio di fronte al mare, anonima, lunga cinquanta metri: un posto dove, se non c’è un concessionario di cinghie per lavatrice ed hai la lavatrice rotta, non entreresti mai – alle maestose scuole “Rossello” (scuola + clinica privata) che sempre è stata la scuola “d’elite” di Savona per le ragazze, all’epoca era l’unico Istituto Magistrale della città.
Indagando un po’ sui viaggi in città di Mussolini, ho concluso che il famoso “tema” per il quale fu premiata la giovane dovette essere un tema di prima della guerra, perché Mussolini non venne a Savona negli ultimi anni del Fascismo, meno che mai durante la guerra. O è una bufala (il fatto che fu premiata da Mussolini in persona), oppure era proprio una bambina.
Non si riesce a sapere di più: non per omertà, ma per il tempo trascorso. Ricordiamo che chi aveva 20 anni nel ’45 oggi ne ha 88. Io stesso ascoltai da mio nonno – casualmente – la vicenda di don Pessina sulla quale tanto s’è parlato, completa di nome dell’assassino. Solo che mio nonno è morto trent’anni fa, all’epoca di queste cose si parlava poco o nulla: oggi? E chi se lo ricorda quel nome!
Ma la triste fama della via non finisce qui, e fa tappa all’edicola all’angolo gestita – fino ai primi anni ’70 – dalle prozie di un amico. Lì, avvenne un’altra tragedia.
Carlo R. (classe 1905) era fascista, Ardito, mutilato, Spagna...e tutto il resto...solo che, allo scoccare dell’ora fatidica fiutò l’aria che cambiava: poche settimane prima dell’Aprile ’45 scappò a Napoli, dove rimase ben nascosto per alcuni mesi, forse un paio d’anni. Fece in tempo a fare ancora una figlia e morì nel 1977, sempre a Napoli.
Sfortuna volle che – in via Donizzetti – abitasse il fratello (Gino R. classe 1915), un geometra appassionato di montagna e di cani che mai s’era sognato di fare politica, tanto meno d’essere fascista. Assomigliava, però, al fratello: fu preso e fucilato nelle tristemente famose scuole elementari “Guidobono” di Legino (un quartiere periferico di Savona) dove era stato istituito in tutta fretta un “campo di concentramento” per i fascisti arrestati, lo stesso di Giuseppina.
I familiari di Gino (fra l’altro di fede comunista, a differenza di Carlo) si rivolsero alla sezione del PCI di Legino appena ricostituita dopo la clandestinità per capire com’erano andate le cose: nessuno seppe rispondere loro, pur ammettendo che conoscevano bene Gino e che tutto si poteva dire, meno che fosse fascista.
Cosa capitò?
La spiegazione, a distanza di 68 anni, non può essere trovata: al punto che, nel video (inserito nell’articolo), parla un ragazzino incompetente ed anche qualche anziano probabilmente sa poco o nulla di quelle vicende.
La Resistenza savonese non fu un fenomeno “locale”, nel senso che molti partigiani savonesi salirono sulle Langhe, oppure nel piacentino, dietro Genova. Giunsero anche molti partigiani da lontano, per motivi che mi sono oscuri ma che è facile immaginare in quel contesto di fughe e ricomposizioni, di gente presa e fucilata e di chi riusciva a sgusciare ai rastrellamenti.
Tutto mi fa pensare a qualche gruppo estraneo all’ambiente savonese che, in quei giorni convulsi, scese a Savona come poteva scendere a Chiavari od a Sanremo e furono (maldestramente) comandati ai rastrellamenti ed alla “ripulitura” della città.
Ne dà notizia, sommariamente, A. Martino ne “La riorganizzazione delle forze di polizia nel savonese” il quale riporta la cifra (dubbia) di 316 vittime nei giorni “caldi”, ossia fra il 25 ed il 30 di Aprile, quando giunsero le avanguardie americane.
A parte la lista (purtroppo, ovvia) dei giustiziati in quanto appartenenti alla “San Marco” od alla “Decima Mas” – ricordiamo che ad Altare (10 km da Savona) c’era il comando supremo della “S. Marco” ed il suo comandante, Generale Farina – ed alle vendette su appartenenti al Fascismo (che avevano le loro belle colpe, non nascondiamocelo) gli ultimi punti riguardano proprio il “prelievo di prigionieri nelle carceri” (che venivano fucilati senza processo) e le “stragi d’intere famiglie accusate di collaborazionismo, o per semplici beghe di paese”. L’ultimo punto fa gelare il sangue.
Adesso basta con la Storia: queste non sono scusanti o attenuanti, vogliono essere un’aggiunta (di poco conto, lo ammetto) al tuo articolo sul caso di Giuseppina, ma andiamo oltre.
Davvero, nel 2013, vogliamo continuare a scannarci per storie che avvennero prima della nostra nascita e che fecero soffrire sia fascisti che antifascisti dell’epoca?
Mia madre – e qui chiudo subito – vide uccidere un ragazzo di 15 anni solo perché, durante un rastrellamento in un paesino, fu preso in casa sua disarmato mentre dormiva, non si sa perché: non era un partigiano e nemmeno una staffetta. Probabilmente lo avrebbero liberato ma, sopraffatto dalla paura, tentò di fuggire: tedeschi e fascisti lo uccisero a calci, con gli scarponi chiodati. Mia madre non riusciva più a sentir parlare tedesco, ed in casa – per varie ragioni che non sto a raccontare – l’idioma di Goethe era molto amato. Ancora ricordo una vecchia zia che mi chiamava “Mein schön Karl”.
Ci siamo già cascati una volta – fra il ’70 e l’80 – e ci siamo sparati nella piazze...per cosa? Per appartenenze familiari, amicali, di gruppo, di clan...senza conoscere “l’avversario”...una montagna di morti (oggi di ossa) che ci dovrebbe far pena e farci soffrire ogni giorno che passa. Non per loro, che oramai non ci sono più, ma per noi, stupidi esseri umani che ci siamo divisi per questioni che non c’appartenevano più e siamo cascati nel gioco.
Ho conosciuto persone che tengono l’effige di Lenin in salotto, altre che hanno i labari ed il busto di Mussolini in giardino; li commisero un po’ – sono sincero – ma non li giudico affatto: penso che quella libertà d’essere chi ci pare, con le appartenenze che più ci piacciono, sia parte di quel gran momento che fu il 25 Aprile. Che all’epoca – da una e dall’altra parte – fu salutato perché fu la “fine della guerra”.
Qualcuno afferma che il 25 Aprile c’ha portato gli americani: beh...non siamo stati tanto sfortunati...poteva andarci peggio e capitarci Stalin o – se la Germania nel 1941 avesse fatto l’armistizio con la Gran Bretagna, come molti abboccamenti lasciano sospettare (non ultimo la strana “fuga” di Hess) – con l’Europa in mano nazista non saremmo rimasti liberi – seppur “vittoriosi” – a lungo, e ci saremmo ritrovati uno squilibrato come il Reichsführer Himmler in casa.
Come vedi, siamo finiti nella fantastoria per spiegare un mancato futuro: Minoli fece, tempo fa, una trasmissione (basata su fatti, non fanfaluche) molto interessante su questi temi.
Allora, di chi fu la colpa?
Dei fascisti della X Mas o della “Muti”, delle brigate “Garibaldi” e “Giustizia e Libertà”? No.
La colpa è sempre e soltanto della guerra.
Adesso dirai: bravo Carlo, ma sei un po’ scontato nella tua analisi, è come dire che lo sfacelo di New Orleans è stato colpa dell’uragano.
Non è vero.
Prendi una popolazione qualsiasi di uno stato che va in guerra. Dapprima ci possono essere anche delle proteste, ma stai tranquilla che due giorni di stato d’assedio ti portano dritto a nasconderti in cantina, a meno che tu non sia un coreano del Nord, che in stato d’assedio ci vive da sempre.
Poi, secondo le modalità (esercito di leva o professionale), c’è la mobilitazione: partono dei giovani che solo il giorno prima sedevano al bar o giocavano a pallone. Negli eserciti professionali sono già preparati, ma viene detto loro che – da qual momento in poi – avranno il privilegio di morire per la Patria. Sai che gioia.
Giunti ai reparti, lì avviene la mutazione antropologica: un bravo tenente ha il precipuo compito di limitare al minimo l’orizzonte degli affetti nella truppa che gli affidano. Cosa significa? Vuol dire che il plotone (non a caso, titolo di un famoso film sul Vietnam) è il tuo nuovo “orizzonte degli affetti” al quale devi dedicare corpo e mente: nota che la popolazione civile, lentamente, scompare in quel tourbillon di morte e di morte mancata, rimandata, oppure di dolore su un letto sfatto in un ospedale da campo.
Il dolore è un buon antidoto al lavaggio del cervello subito – le lamentazioni dei feriti sono intrise di un solo nome, “mamma” – ma, giunti alla convalescenza e poi ad una licenza dove ci si sente come dei pesci spiaggiati, si viene “ripescati” da quel mondo ed inviati in un nuovo plotone. Tutto da capo: e la roulette ricomincia.
Chi è fortunato – e non torna in un sacco di plastica – vive per mesi od anni in questa realtà separata: una realtà fatta di giorni di marcia e notti d’ansia, assalti ed imboscate. E vede la morte ogni giorno materializzarsi di fronte ai suoi occhi in un bombardamento, una granata, una fucilata.
Steven Spielberg – in quello che io ritengo il suo capolavoro “L’impero del sole”, un affresco sulla brutalità della guerra, sul terribile influsso che opera, una vera e propria metamorfosi, sulla mente di un adolescente – mette in bocca ad uno dei protagonisti questa frase: “La guerra è pericolosa soprattutto quando inizia e quando finisce: nel mezzo ti ci abitui, c’è meno pericolo...”
E’ vero: per i civili è così, a meno d’essere sulla linea del fronte.
Chiediamoci, allora, cosa diventa e cosa rappresenta la donna in questo girone infernale: lo sfogo d’ogni ansia e paura, il terribile senso di prevaricazione che deriva dall’abuso, frustrato, del “senso di potenza”, fino allo sfogo collettivo del plotone, del clan ancestrale. Non vado oltre.
La guerra concede una sospensione del tempo e della civiltà: quanto basta per lasciar affiorare gli istinti primigeni e bestiali, che servono – appunto – per combattere.
E dopo?
I dopoguerra sono sempre difficili: il “vae victis” che impazza nei primi giorni – nei tempi antichi, usava tagliare subito la gola ai prigionieri ritenuti inutili (vecchi, infanti, malati, deboli, ecc.) per la schiavitù – si trasforma in un disadattamento pervicace, spesso nascosto, che cela una rabbia nascosta e brutale. Ci vorrebbero legioni di bravi strizzacervelli per sanare i danni di una guerra, e dubito anche che ci riuscirebbero. Le anziane vedove degli ex internati nei campi di prigionia offrono racconti raccapriccianti delle notti dei loro mariti: anni di sofferenze notturne, mica bazzecole.
Solo il tempo sana: dimenticare è l’unico antidoto.
L’esempio più tragico l’abbiamo vissuto ai nostri confini: la Jugoslavia.
Dal 1945 al 1990 erano trascorsi 45 anni: chi aveva cinquant’anni non aveva memoria del “prima”. Già, ma c’erano i sessantenni che, nel 1945, avevano 15 anni ed erano giunti agli apici del potere: sono stati loro a rinvangare termini come “ustascia” e “cetnici”, che la popolazione conosceva, ma ai quali non dava più tanto peso.
Invece. Invece i bosniaci tornarono ad essere “turchi”, i serbi “slavi” ed i croati “cristiani”: dopo, l’esito fu scontato. 120.000 morti, contati a spanne: quanti civili? Quante Giuseppine?
Oggi fa piangere il cuore viaggiare in quei prati e campi deserti della Jugoslavia, macchiati dalle effigi annerite della case bruciate, dei cipressi rasi al suolo e dei monasteri distrutti, che ancora si vedono – i ceppi dei cipressi e le fondamenta dei monasteri di fronte ad un mare azzurro e chiaro, che sembra un oceano di lacrime – perché devono essere un monito, nella folle razionalità della guerra, per le prossime generazioni.
E una guerra non scoppia perché gli abitanti di un Paese “odiano” quelli di un altro, scoppia perché le elites così hanno deciso: nella guerra di Jugoslavia la Thatcher era contraria allo smembramento. Mica perché era una santa anima, no: questioni strategiche.
Il passo successivo è far salire la rabbia mediante l’identificazione con un simbolo comune, una sorta di rozzo sillogismo aristotelico: Mussolini è fascista, io sono fascista, Mussolini vuole la guerra, anch’io – se sono veramente fascista e dunque desidero appartenere a quel clan – devo desiderare la guerra. Così si riempiono le piazze di fronte a Palazzo Venezia, come in qualsiasi altro posto: i morti, i bombardamenti, le uccisioni a freddo, le vendette...eh...quelle vengono dopo, quando l’attore del sillogismo – se è rimasto vivo e non ha sputato la vita fra le sabbie di El-Alamein – rimuove. Ma non dimentica, e la sua restante vita sarà segnata da quei ricordi, come una noiosa (e pericolosa) vespa che ti gira attorno.
La domanda successiva è quella delle cento pistole: l’uomo è essenzialmente buono o cattivo?
La filosofia – tu m’insegni – ha fornito risposte mutevoli nel volgere delle epoche storiche: nel Medio Evo era dipinto come un potenziale peccatore che doveva redimersi. Si scannarono fra cattolici e protestanti – a ben vedere – solo sulle modalità di quella benedetta “redenzione”.
Ma arriva la cosiddetta “modernità”, portata sulle ali dei rivoluzionari francesi: improvvisamente, si scopre che l’uomo è essenzialmente buono. E via con i miti del “buon selvaggio”, al punto che nelle famiglie nobili francesi era un punto d’onore avere un maggiordomo nero: proseguire oltre? Beh, andiamoci piano...Kennedy dovette inviare la Guardia Nazionale per far sedere i neri nelle aule universitarie.
Il karma? Ah, certo...con la legge del karma si spiega tutto...peccato che, per indagare la casualità/causalità degli eventi bisognerebbe avere una mente pari a centomila calcolatori fra i più potenti: sarebbe come, di fronte al mare, individuare il moto futuro di ciascuna molecola d’acqua. Meglio andarsi a prendere un caffè alla solita baracchetta sulla spiaggia e tornare ad osservare il mare senza pensieri, nemmeno il più piccolo alito, nella mente.
Un buon esempio l’ha fornito Michael Moore in “Bowling at Columbine”: ricordi?
Due popolazioni, armate fino ai denti, si comportano in modo completamente diverso se vivono su due differenti sponde di un lago. Sulla riva statunitense vige lo “spara tu che ammazzo io”, mentre su quella canadese tutto è tranquillo.
Ci sono diversità climatiche, sociologiche, religiose...culturali in genere? No...almeno, non sono così evidenti: grandi città e piccoli borghi da una parte come dall’altra, solite religioni del mondo “bianco”...un freddo cane su entrambe le rive...no.
Michael Moore trova una risposta: la sicurezza sociale, l’enfasi posta sull’arma da fuoco, l’abitudine alla guerra come pensiero dominante, così come l’esasperazione dell’individualismo (che implica un basso livello di stato sociale).
Ci sono differenze fra gli USA ed il Canada? Eccome se ci sono! Più ancora nel modello di welfare state europeo (proprio quello che cercano di scassare).
Sostanzialmente, non nasciamo né buoni né cattivi: sono le condizioni imposte a renderci calmi e sicuri oppure fragili e disperati. Fino al punto che una persona – senza famiglia, senza lavoro, senza futuro – si mette a sparare all’impazzata in Piazza Colonna. Siccome gli altri sono furbissimi – della serie: mi cade una merda sui piedi, allora la taglio in tre parti e faccio un tris – ecco subito le “lamentazioni” per avere uno stato più autoritario, più forze di polizia e...raddoppiare auto blu e scorte!
Oggi, rispetto al passato, più persone hanno capito che le tensioni internazionali sono create a tavolino per motivi economici, ossia per arricchire – paradosso – tutti gli attori sulla scena, dopo aver fatto fuori eventuali oppositori. Nessuno, o pochi, si fanno più ingabbiare nel modello “Dio, Patria e Famiglia”, e “armiamoci e partite”.
Rifiutare a priori la guerra sembra un atto di viltà o di agnosticismo: mi “tiro fuori” da questa bega e non ne voglio più sapere. A ben vedere, è l’unico atteggiamento possibile per non finire nei versi della “Guerra di Piero”: De André la tratteggiò con un lampo di genio.
Semplicemente, chi rifiuta la guerra rifiuta il loro modo di pensare: punto e basta.
Rimane la dicotomia fra memoria e rimozione del ricordo, per sopravvivere e tornare al futuro, fatto salvo che il dolore va rispettato e condiviso da qualsiasi parte venga.
La memoria non è mai condivisa: lo mostrano gli spettri che ancora oggi agitano le menti ad ogni 25 Aprile, che sembrano tirare per la giacchetta un giorno del calendario. Non è condivisa la memoria sul Vietnam, sulle guerre arabo-israeliane, sull’occupazione italiana della Jugoslavia, ecc.
Meglio, allora, lasciare al dibattito storico la memoria: nei libri, nei dibattiti, negli atenei, nelle conferenze...chi vuole, può approfondire un aspetto, una vicenda, anche un’ingiustizia. Sempre che lo storico (che è sempre di parte, come me che oggi scrivo di Storia) sia almeno onesto intellettualmente.
Qui, però, si deve rimuovere un ostacolo, bisogna togliere dei “paletti”: nessun impedimento, legge od imposizione può frenare la ricerca storica e, soprattutto, la storiografia. Saranno i lettori e i fruitori di quel lavoro a giudicare, nella più ampia autonomia.
I libri scolastici? Segnalare un punto dove ci sono opinioni diverse, come su Wikipedia: i ragazzi sono più preparati di quel che si creda, soprattutto se segnali loro un dubbio, ammetti (come istituzione) i tuoi limiti e loro ti ripagano con più fiducia.
L’alternativa?
Continuare ad odiare, perché di questo si tratta, a rinvangare continuamente vicende terribili ed a gettarsele in faccia, nel nome di chissà quale “verità storica” da inseguire. L’ho ripetuto mille volte: lasciamoli riposare in pace e cerchiamo il miglior futuro possibile, per tutti.
Con affetto e stima.
Carlo