Il cercametalli e la pepita d’oro
Che piccola gioia possedere un cercametalli: un aggeggio che costa poche decine di euro e ti apre le vie dell’Averno, uno sguardo sul passato che è veramente tridimensionale e senza forma. Puoi trovare la moneta romana a 10 centimetri e la linguetta della lattina di Coca-Cola a 30, in un pudding di date e possibilità che s’intrecciano e si dispongono come i canditi nel panettone.
Insomma, è un po’ come andare a funghi: quando suona, vuol dire che c’è qualcosa. Anzi, meglio che per il fungo, perché quando l’hai trovato non ti resta altro da fare che raccoglierlo, mentre alla ricerca del passato devi sempre scavare.
E, dopo aver scavato, c’è il contatto con la pelle di un oggetto che da decenni, secoli o – più raramente – millenni non rivedeva la luce e lì si scatenano le sensazioni, le fantasie, i ricordi.
Una volta, ricordo, trovai un dado: almeno, quello che a me – a tatto – sembrava un dado. Era profondo, nella sabbia in riva al fiume e non lo vedevo: allora, aiutandomi con un rastrellino, iniziai a scavare intorno togliendo la sabbia a manate.
Il “dado” era infisso in un altro corpo di ferro, molto grande: continuai a scavare per capire cosa potesse essere.
A poco a poco, avvertii al tatto che la forma che ospitava il “dado” non era piatta, bensì scendeva ai lati: un “colpo” con il cercametalli per definire meglio la forma ed un altro con zappino e rastrello per togliere la sabbia e la ricerca avanzava. Niente: la forma era circoscritta e regolare, non c’era altro intorno ed il “dado” s’ostinava a rimanere ben saldo dov’era.
Tolta ancora un po’ di sabbia (era a circa mezzo metro dalla superficie e stava per scendere il buio), accarezzai l’oggetto con la mano sinistra: ricordo che una grossa radice superficiale m’impediva di vederlo chiaramente.
All’improvviso, scorrendo con il palmo della mano, il gelo.
La forma era inequivocabilmente ogivale ed in testa all’ogiva c’era un “dado”: accarezzai il “dado” e, nonostante le ingiurie del tempo e la mia imperizia, notai che non era semplicemente un dado bensì qualcosa di più complesso che sprofondava nel corpo di ferro sottostante. La spoletta, corrosa dal tempo.
Nella mente comparvero immagini in bianco e nero, ventri scuri che s’aprivano e seminavano il cielo di portatori di morte: decine, centinaia di vani-bombe che s’aprivano, ogni tanto una fumata nera perché un caccia aveva colpito ed il grande B-17 sprofondava come un sommergibile nell’abisso. Ironia della sorte, la superficie dove viviamo, amiamo, ci scontriamo e moriamo per loro era l’ultimo istante.
Accarezzai ancora una volta l’involucro della bomba reso rugoso dal tempo e dalla ruggine ma lasciai stare il detonatore: se era lì e non era scoppiata – ricordo che sopra, alla superficie, c’erano più impronte di trattore che l’avevano calpestata e non poteva essere passata indenne all’alluvione del 1994, chissà da dove veniva – ci poteva rimanere.
Oggi, invece sono lontano dalla Langa e sto cercano monete romane, perché la via dove abito è l’antica Aurelia Romana: a poche decine di metri, a sinistra, c’è un ponte romano che una betoniera guidata da un pazzo ha cercato d’abbattere. Ora è circondato di tubi Innocenti e si chiederà: perché m’hanno inguainato in mezzo alle lance? Un tempo, quegli aghi aguzzi non si ponevano a protezione del castrum?
A destra – mezzo chilometro – c’è il ponte romano sul Rio Basco che ha resistito millenni e sembra nuovo, come un ragazzino che abbia divaricato le gambe per pisciare.
Ma non è giornata: sarà questo tempo pazzo di Liguria, con i suoi acquazzoni improvvisi e le schiarite di sole che ancora brucia la pelle a Novembre, ma non si trova una mazza, a parte i soliti chiodi storti e le linguette delle lattine.
Rimetto l’aggeggio a spalle e m’avvio verso casa.
Mentre scendo lancio un’occhiata alla collina coperta d’olivi e disseminata di case padronali, ciascuna con il suo bravo pezzo d’oliveto intorno, dal quale fanno capolino piccoli orti: su tutte, spicca “Villa Irene” che fu del pittore Sabatelli, ed oggi è attesa da un destino incerto. Quando iniziano a muoversi le ruspe non è buon segno: in ogni modo, Italia Nostra s’è mossa per tempo (la villa è del ‘700).
Non è andata così bene alla residenza originaria del Papa Sisto IV (prima che fosse costruita la sontuosa villa Gavotti), che è poco più sotto: per molti anni è stata usata dal consorzio agrario, mentre oggi il maestoso portone è semplicemente sbarrato. Malamente, con delle tavole inchiodate.
Del pittore si ricordano le lunghe processioni d’amanti dell’alta borghesia che volevano provare – in una sorta di remake dannunziano – l’ebbrezza dell’amore corsaro, della perdizione con l’artista. Chissà se n’erano soddisfatte oppure fingevano tutte. Dei due Papi savonesi (Sisto IV e Giulio II, zio e nipote) rimangono pochi ricordi: le due cappelle sistine (la più nota a Roma, quella meno nota accanto al duomo di Savona, ma veramente pregevole) e qualche nome di via.
Ma questa è storia nota, storia ufficiale: uno che va in giro con un cercametalli non può raccontare storie conosciute e stranote: è una persona abituata ad osservare la Storia da sotto, dall’Averno che tutto custodisce, come la storia della pepita d’oro che è alla base delle vicende della collina.
Per iniziare la nostra storia dobbiamo, però, spostarci un poco all’interno: 9 Km, Stella, la patria di Sandro Pertini, dov’è sepolto in una modesta tomba insieme alla moglie.
Stella fu il primo boccone di Liguria che ingoiai: era il 1978, quando affittai una piccola casa sulla collina da un tizio che meriterebbe non un articolo bensì un libro, Ambrogio Poggi detto “Spagnolo”, solo perché suo nonno era stato in Spagna.
In un giorno di Luglio, un’affaticata “Millecento” del Comune con gli altoparlanti sopra, girava instancabilmente per cantare una canzone unica e monotona, ma grandiosa: “Il compagno Sandro Pertini, nostro concittadino, è stato eletto Presidente della Repubblica”. Già, il “compagno” Pertini.
Qui, permettetemi d’aprire una parentesi per commentare brevemente i rapporti di Sandro Pertini con Stella e, soprattutto, con la città di Savona dove aveva studiato e che considerava, un tempo, un po’ la sua città (anche per questioni familiari).
Chi vorrà, potrà trovare in nota (1) una lunga e circostanziata storia del socialismo savonese, dalla quale emergono figure inquietanti come Alberto Teardo (l’unico veramente temuto da Craxi stesso) ed a Pertini non sfuggivano certo i legami fra socialisti, massoneria e, più tardi, la criminalità organizzata.
Dopo aver ricevuto un lungo dossier sulla situazione (sempre in nota) Pertini decise, probabilmente, che la città era “off-limits” per lui, Presidente della Repubblica e non ci andò più. Negli ultimi anni, racconta una fonte della famiglia a me vicina, non faceva nemmeno più un “salto” in federazione: un saluto alla sorella Marion finché fu viva, una visita al cimitero e via, nuovamente a Roma.
La città di Savona lo contraccambiò e, a tanti anni dalla sua morte – e dopo aver ricevuto in dono la sua collezione di quadri – non esiste ancora una via a lui intitolata, il che la dice lunga sui rapporti poco idilliaci fra “U Sciandru”, Stella e Savona.
Nemo propheta in patria, evidentemente.
Oggi potrebbero chiamarla Stella Pertini e finirla lì (ma qualcuno non vuole), invece esistono Stella S. Giovanni, Stella S. Martino, Stella Gameragna, Stella Corona e Stella S. Giustina. Con, ovviamente, i toponimi minori: S. Bernardo, Contrada, Teglia, il Salto, Ritani, ecc.
Il territorio di Stella è il più vario che si possa immaginare: Gameragna è un posto mediterraneo con le villette bianche in stile messicano dei nuovi ricchi, mentre a S. Martino ed a Corona gli olivi crescono ancora, ma solo grazie al mutamento climatico. Nuove piantagioni si stendono in lunghe file, con i proprietari che osservano le piante e pregustano l’aroma stridulo ed amarognolo dell’olio vero, quello che uscirà dal frantoio. E tutti si domandano: mi sarà concesso abbastanza tempo per assaggiarlo?
A San Giovanni ci sono il Comune, i Carabinieri, la scuola, la farmacia, lo studio medico…insomma, è quasi un posto istituzionale.
In tutti i consessi c’è sempre qualcuno che ha meno fortuna: passerà la vita a chiedersi il perché, perché mai – cose che agli altri scendono sul capo con uno schiocco di dita – a lui costano una fatica di Sisifo.
Così è per Stella S. Giustina: il capriccio di una gola le preclude il Mediterraneo e la sua dolcezza, in cambio riceve il gelo e la neve che scendono da Sassello (uno dei luoghi più freddi e nevosi d’Italia) e, ancor più su, dal Monte Beigua, la “cima” della Liguria con quasi 1.300 metri. Dicono che da lassù si veda la Corsica: lo spettacolo è grandioso, ma io più che delle nubi in lontananza non ho visto.
Ora che abbiamo chiarito la Geografia dei luoghi, dobbiamo fare anche un salto nel tempo per incontrare Bernardo P. (taceremo il cognome per non irritare qualche vivente) all’inizio del secolo. Il Novecento, ovviamente.
Bernardo si sente stretto in quel luogo gelido: lavorare tutta la vita nei boschi a fare il taglialegna? Oppure a rimestare corteccia di castagno nelle vasche della fabbrica di tannino? No, Bernardo ha coraggio ed inventiva: S. Giustina gli va stretta, l’America è là che aspetta ed un giorno s’imbarca da Genova su un “vapore”.
Una storia banale, come tante, all’apparenza: se non esistessero i cercametalli e le vicende nascoste nei meandri della terra.
Bernardo giunge in una New York in fermento: si costruisce di tutto, dalle case ai grattacieli, dalle gallerie ai ponti e non gli è difficile trovare un posto come manovale.
Così, lavora duramente nei cantieri con tanti altri italiani e mette da parte, come un certosino, le paghe settimanali perché Bernardo vuole tornare: al paese ha lasciato la fidanzata e, si sa, le fidanzate non aspettano troppo, rischiando di divenire zitelle nell’attesa di un evento lontano.
Un giorno come un altro trova un pezzo di giornale e riesce a capire che è in atto la più folle corsa del secolo: tutti vanno nel Klondike, su al nord, in Canada, perché lassù pare che l’Oro spunti come i funghi sotto i castagni e la gente si riempie le tasche.
Ci pensa, ci medita poi – tanto un lavoro da manovale si trova sempre, avrà concluso – parte.
Le giornate in treno sono lunghe e fredde: bisogna fare in fretta prima che l’Estate cali, che il gelo del Polo s’impadronisca delle foreste. E dell’Oro.
Giunge a Dawson una mattina di chissà quale anno e subito parte per le immense foreste dove, i fiumi che le attraversano, nascondono il sogno, l’incubo, la speranza.
Non sappiamo quanto tempo vagò per le foreste, ma Bernardo va “a correggere la fortuna” – come molti anni dopo un altro ligure, De André, avrebbe messo in bocca ad un viados brasiliano in Princesa, storie d’emigranti anche quelle – con determinazione, con coraggio, con convinzione. E trova, finalmente.
Cosa trovò e, soprattutto, quanto trovò è un segreto custodito ancora oggi dai nipoti: ma trovò qualcosa di consistente, al punto da convincerlo a tornare a New York e ad imbarcarsi nuovamente per l’Italia. Majin (Maria o Marina, in ligure) mica aspetta per sempre.
Tornato che fu, una notizia lo colse: l’arciprete di Albisola aveva messo all’incanto una collina, proprio dove sto posando i piedi oggi.
Albisola, all’epoca, era un grande, immenso orto che sfamava le popolazioni ben oltre Savona, fino a Genova con fagioli e zucchette, pomodori e peperoni d’Estate spinaci e cavoli d’Inverno, fave e piselli in Primavera, insalate tutto l’anno: “turismo” era un termine addirittura sconosciuto nella lingua dell’epoca. Al più, “viaggiatore”.
Le donne imbarcavano su delle specie di gondole (per remare da sole) le ceste di verdura e così attraversavano il breve braccio di mare che le divideva da Savona: la galleria l’avrebbe portata il fascismo. Gli uomini seguivano identici percorsi con la carbonella, per alimentare le cucine della città borghese oppure legna, vino e grano.
Ancora in tempi recenti (vale a dire a memoria degli attuali vecchi) veniva “U Biundin” (Il Biondino) dapprima con un cavallo e poi con un rombante e puzzolente autocarro da Genova, riempiva sacchi e ceste di fagiolini, fagioli, zucchette e le profumatissime pesche d’Albisola per il famoso mercato orientale di Genova (quello dove furono registrate le voci dei mercanti, al temine della canzone “Creuza de mä”).
Avere della terra, all’epoca, significava ricchezza: nessuno, allora, pensava alla speculazione edilizia semplicemente perché non esisteva.
Non sappiamo come Bernardo tradusse la pepita in denaro: immaginiamo lunghe trattative con gli orafi dell’epoca, obiezioni sulla purezza del materiale, contro-obiezioni con offerte subito proposte ad un altro orafo (così il primo veniva a saperlo) finché la trattativa ebbe buon fine e Bernardo incassò il denaro.
Quanto?
Non lo sappiamo, perché la famiglia custodisce gelosamente il segreto: quanto pesava la pepita?
L’unica risposta veritiera è che la pepita “pesava” quanto la collina che osservate nell’immagine: anzi, l’assenza del grandangolo la penalizza un po’, perché s’estende ancora verso destra. Non dobbiamo, però, fare valutazioni col metro odierno: all’epoca, era terreno agricolo e basta.
Passarono gli anni e nacquero i figli, tanti: sulla collina si coltivava ogni metro quadrato e, da Novembre in poi, si spremevano le olive e si faceva l’olio con il procedimento antico, vale a dire macina a pietra e torchio. Mica viti senza fine e centrifughe, come oggi.
Man mano che i figli crescevano e si sposavano si costruiva una casa: tutto fatto in famiglia, ovviamente, perché il legname veniva dai boschi di S. Giustina, la sabbia e le pietre dal fiume.
Poi venne la guerra che sfoltì un poco il gruppo dei fratelli: Russia ed Albania vollero il loro tributo di sangue e Bernardo questa volta pagò per la Patria, per il Duce e per il Re ed Imperatore, di un Impero che si dissolveva come neve al sole sotto i colpi delle armate britanniche.
Tutto finì e, sulla collina, si contarono i sopravvissuti e si ridistribuirono le case, prima di farne altre: uno dei figli volle tentare l’avventura paterna – questa volta in Argentina – ma non ebbe egual fortuna: finito nel turbine dell’instabilità politica argentina del dopoguerra, tornò con la coda fra le gambe dal padre senza un soldo, con una moglie dai tratti indios ed una vagonata di figli che parlavano spagnolo.
Majin, negli ultimi anni di vita, quando Bernardo se n’era già andato, osservava la collina coi suoi figli nelle loro case che s’industriavano nell’Italia del “miracolo economico”: chi scelse di lavorare come muratore, andava per sei mesi all’estero poi tornava e raccontava storie incredibili di tigri ed elefanti. Portava alla moglie una scatoletta di legno di sandalo e questa ricambiava: quando il marito ripartiva, il pancione era già bello tondo.
Chi invece s’inventò le attività più strane: uno, addirittura, varò una piccola fabbrica di varechina. Poi il solito: muratori, idraulici, falegnami…quindi i figli crebbero ed i genitori se n’andarono anch’essi…ed oggi chi fa un mestiere sopravvive, chi ha scelto una laurea ha dovuto emigrare. Se è stato fortunatissimo Genova, solo fortunato Milano o Torino…per gli altri…Colonia, Dusseldorf, Parigi…l’Oro della collina torna ad espandersi per il mondo.
Bernardo viene appena ricordato dai nipoti, i pronipoti non sanno più che faccia avesse se non quella della foto sulla lapide, al cimitero, e di Majin si ricorda una frase che è lo stereotipo delle madri italiane. Guardava la collina, Bernardo e poi, pensando ai figli, sospirava: «Mia, Bernardu, se i tegnimmu come i sun» (Sai, Bernardo, ce li teniamo come sono).
La collina, per ora, ha resistito all’attacco dei banchieri: si difende con l’auto-produzione come solo il popolo italiano sa fare, usando i soldi di stipendi e pensioni solo per pagare le mille gabelle che li taglieggiano. Intanto, si contano i chili d’olio ed i quintali di patate, come un tempo: roba vera, che ti fa vivere, non fuffa.
Questa storia è dedicata ai vecchi politici, perché si vergognino d’aver sodomizzato gente del genere ed ai nuovi, quelli di Grillo – che imparino qualcosa – prima di pensare subito alla notorietà ed ai talk-show.
Articolo liberamente riproducibile, ovvia la citazione della fonte.
Passato, presente e futuro, intrecciati dalla tua magnifica narrazione...
RispondiEliminaE' di nuovo un piacere leggerti.
Doc
Grazie doc, sto tornando in forma.
RispondiEliminaUn abbraccio
Carlo
Molto bene Capitano .
RispondiEliminaQui ci sarebbe da varare la Gretel sul web.
La villa... ogni tanto mi viene in mente...vista dal tuo orto.
Io invece ho scritto di un'altra villa, Antilla, uno sproposito di 27 piani nel cuore di Mumbai.
http://21mayasulponte.blogspot.it/2012/11/societaguerrafondai-uniti-in-una-tata.html
la mia nuova goletta...
Un abbraccio marinaro dal Nostromo che ha ritrovato la penna nel gozzo di un cormorano.
Bellissime storie!
RispondiEliminaGrazie!