Così questo paese, dove non sono nato, ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo l’ho visto davvero e so che è fatto di tanti piccoli paesi, non so se da ragazzo mi sbagliavo poi di molto.
Cesare Pavese
“E correndo la incontrai lungo le scale…”, verrebbe da dire, ma le scale non sono quelle della vita, dei sentimenti: sono solo quelle di un ospedale. Entrambi con il nostro mazzo di fogli in mano: appena firmati dal radiologo, dall’anestesista, dal chirurgo…ancora caldi di timori repressi, d’ansie ricacciate.
I suoi fogli, però, non sono “suoi” bensì della persona che accudisce: è una delle rare badanti italiane, e cerca di far bene il suo lavoro.
«Anzi» – propone – «perché, quando hai finito con le tue peregrinazioni, non mi telefoni e andiamo a mangiare qualcosa tutti e quattro assieme?»
Sulle prime non capisco: io, mia moglie e lei facciamo tre. No: ci sarà anche il “badato”.
Sono perplesso: che senso ha andare a pranzo con una persona che deve essere “badata”, che magari deve essere imboccata e poi…ci sarà con la testa?
«Fidati» è l’unica risposta: «vedrai che sarà una sorpresa.» Tanto per far defluire le tossine ansiogene, incassate in una mattinata d’ordinaria inquietudine ospedaliera, accettiamo. Ed entriamo nel ristorante.
Fa caldo e c’è tanta gente, ma l’atmosfera è allegra: qualche giovane che mangia in fretta, leggendo il giornale, i soliti crocchi d’operai dell’ENEL e delle Ferrovie che s’accalorano nell’ultima discussione, mentre non perdono di vista l’orologio.
Attraversiamo l’umanità gustante per giungere al tavolo, dove un uomo anziano c’attende. La sorpresa è, da subito, quella dell’abito: l’uomo è vestito in modo sobrio ma elegante, con il tocco di classe di chi potrebbe apparire ad una cena di gala indossando una maglietta. Giacca, camicia e cravatta in tono, capelli bianchi ben pettinati, viso ben rasato ed occhiali con montatura dorata: appena giungono le due signore, si alza in piedi come non vedevo fare da tanto tempo, da quando l’educazione e l’arte della cavalleria sono finiti nella discarica del savoir vivre.
Per rompere il ghiaccio leggo, al contrario, la pagina del giornale che stava leggendo mentre ingannava l’attesa; c’è il dibattito su Craxi: ladro non ladro, grande politico non grande politico, eccetera…
Due occhi azzurri mi fissano, dopo le presentazioni, e ricadono sulla pagina del giornale, poi – con un filo di voce, ma senza incertezze – parla.
«Certo che per me, che sono stato da sempre socialista, è un gran dispiacere leggere ancora oggi queste cose, perché nel socialismo ci ho creduto. Mio padre fu tra i fondatori del Partito Socialista Italiano, amico personale di Turati. Quando penso ai politici d’oggi, a Berlusconi…» Scuote la testa.
Non voglio ribattere anche perché non c’è nulla di sbagliato in quanto afferma, così mi limito a dire che anch’io sono cresciuto in una famiglia socialista, così socialista che perse per due volte la casa – durante il Fascismo – perché non accettavano di togliere dall’anticamera le fotografie di Giacomo Matteotti e di Felice Cavallotti.
Roba d’altri tempi, che mi raccontò una bambina di dodici anni con le rughe al volto: una bambina che, pur di tramandare quelle memorie, accettava di soffrire un’altra volta, come se quello che aveva già sofferto non fosse ancora abbastanza.
Andava così: i fascisti entravano, guardavano le due fotografie, non dicevano nulla e se n’andavano. Pochi giorni dopo, arrivava l’ingiunzione di confisca: il fabbricato veniva rapidamente destinato alle attività ricreative per gli iscritti al Partito Nazionale Fascista, mentre prati e campi diventavano piste da ballo, giochi da bocce, campi da calcio…
Per ben due volte – la voce della bambina si tinge di rabbia – riuscimmo a comprare nuovamente una casa ed un po’ di terreno e, per due volte, ci confiscarono tutto.
Così finì la vita di una famiglia d’agricoltori della “bassa”, gente che di certo non scialava, ma alla quale non mancavano mai il pranzo e la cena: emigrazione. Finirono, in affitto, in un vecchio mulino incassato nel fondo di una valle dove il sole compariva poche ore il giorno. Poi la fabbrica, la guerra, la lotta partigiana, di nuovo la fabbrica: tutto per colpa di un altro “nato” socialista, l’ennesimo traditore di un grande ideale.
A. B. – potrebbe essere X. Y. e sarebbe lo stesso: quel che racconto è assolutamente vero, ma non fornirò nessun elemento per identificare la persona. Non è “privacy”, è soltanto il giusto riserbo di chi ancora interpreta il giornalismo come diffusione d’informazione e basta, e non come arma politica o glorificazione di se stessi – non è meravigliato né scosso: di queste storie, ne avrà sentite raccontare chissà quante.
«Guardi, voglio essere franco. Io, Craxi, lo stimai per due soli eventi: quando non consegnò i palestinesi agli americani – la Achille Lauro era italiana, dunque la giurisdizione era nostra, aveva ragione – e quando ebbe il coraggio di rispondere a Gromyko che, se voleva che noi togliessimo i nostri missili da Comiso, che cominciasse lui a togliere i suoi dalla Polonia. Per il resto…» e scuote la testa, fissandomi con due occhi che sono diventati di ghiaccio, fendenti, limpidi come l’acqua di neve.
Dobbiamo interrompere la conversazione perché una signora è giunta al nostro tavolo: ci alziamo – mi ha contagiato, con gran gioia, a stemperarmi nella cavalleria di un tempo – per salutare la donna, anziana ma ben truccata, elegante. Una bella signora d’altri tempi.
Si dicono qualcosa e, educatamente, chiudo l’audio per discrezione ma – appena la signora se n’è andata – torna a fissarmi con quegli occhi che, adesso, sbocciano di frutti maturi e di calore, d’acqua salsa e di tramonti estivi. Pare quasi volersi confessare, con una persona che ha conosciuto da pochi istanti: «Fu una storia d’amore intenso, che durò parecchio: poi, un giorno, lei mi disse che si sentiva troppo amica di mia moglie per continuare, e così finì… »
Mi volto ed osservo la signora, seduta due tavoli più in là: dev’essere stato veramente difficile staccarsi da quel bocciolo, come doveva apparire qualche decennio prima, altro che le misere storie di veline e di escort…
Indovina i miei pensieri, ed aggiunge: «E’ una donna di rara signorilità: ha lavorato tutta la vita ma, nel tempo libero, si dedicava al teatro. Recitava: sapesse come leggeva, in pubblico, poesie e racconti! Una vera e propria Musa…» La osservo nuovamente, e non ho difficoltà a crederlo.
Mentre c’invitano a spostarci ad un altro tavolo, più grande, e ci portano il menu non posso far altro che sovrapporre la raffinata, solo un po’ sfiorita bellezza che abbiamo appena lasciato, con la Contessa.
Già, la Contessa: sono trascorsi molti anni, ma non ho mai dimenticato quel pomeriggio d’Inverno. L’unica circostanza, fortunatissima, che la vita mi riservò per sentirmi – per poche ore – come nel cenacolo di Madame de Warens.
C’era ancora un po’ di neve, anche quel giorno di fine Inverno del 197…non ricordo l’anno. E nemmeno il luogo, che poteva essere Murazzano, Bossolasco, Cravanzana…uno dei borghi “alti” della Langa, quelli sull’antica Via del Sale, la Pedaggera.
Ero stato recapitato in quel luogo da un ansimante furgone Volkswagen, con il quale – da Torino – portavano in quei dimenticati luoghi noi: studenti, disoccupati…per guadagnare qualche soldo con il “porta a porta”. Fu forse l’ultima volta che tentai la fortuna come venditore: vendere shampoo e saponette non era proprio il mio pane.
Così vagavo, poco convinto, fra un viottolo e l’altro, borsa a tracolla e poca voglia di bussare per ascoltare i soliti rifiuti. Poi, decisi per quella porta di noce scuro, con il batocchio di bronzo antico: almeno, pensai, sarebbe stato un nobile rifiuto!
Invece, apparve un viso dolce, appena accarezzato da qualche ruga, che m’invitò ad entrare: capì in un nonnulla cos’ero lì a fare, e mi fece accomodare in una poltroncina foderata con velluto a coste fini, color vinaccia. Poi, mi chiese chi ero e cosa facevo.
Mi presentai e dissi il poco che avevo da dire: ero studente a Torino e, come altri, ogni tanto tentavo la fortuna di riuscire a vendere qualcosa per raggranellare qualche soldo. A dire il vero – aggiunsi – credendoci poco e con scarso successo. Sorrise.
Mi chiese se gradivo un caffè, e s’allontanò.
Solo allora iniziai a guardarmi intorno, e compresi che non ero finito in una casa qualunque: le litografie alle pareti, le statuine di porcellana o di bronzo su antichi tavolini, testimoniavano che quella era una casa antica, di quelle che la Storia l’avevano vista. E, talvolta, l’avevano fatta.
Tornò dopo qualche istante con il vassoio e le tazzine: mentre sorseggiavo il caffè, cercai di capire chi avevo di fronte. Vestita con dimessa eleganza, qualche capello già grigio che striava appena la capigliatura scura, il portamento altero su un corpo formoso, seppur castigato dagli abiti. Portava alcuni anelli alle dita, ma l’impressione che ne ricavai fu che vivesse – sola – in quella magione d’altri tempi.
Fu lei a rompere il ghiaccio, ricordando qualcosa che avevamo in comune: anch’ella aveva studiato a Torino.
Subito dopo aggiunse «Molti anni fa….», tanto per incassare il minimo di galanteria che potessi esprimere «Beh, proprio tanti…» Passò oltre.
Fu in quel preciso istante che iniziò a parlarmi di Cesare.
Sì, di Cesare e basta, con il quale aveva intessuto per molto tempo una lunga amicizia, interrotta e sempre ripresa negli anni, come quel treno di montagna che ansima nelle valli della Langa, e che s’arresta nelle stazioni a prender fiato. Per poi ripartire sempre, ma con calma, per non patire il mal di cuore.
Capii subito a quale Cesare si riferiva: non ce ne sono tanti, da queste parti, a potersi concedere il nome e basta.
Fu però franca, nel confessare che con Pavese era stata una vita d’inferno la sola amicizia: troppo conflittuale e introverso il suo rapporto con l’universo femminile. Sempre desiderato ma mai accolto: quella sete mai placata, che finì per sopraffarlo in un anonimo albergo di Torino.
Per un attimo pensai che avesse qualcosa da recriminare (o da recriminarsi?) per quel ch’era stato, ma fu lei stessa ad indovinare i miei pensieri ed a fermarli, con un sorriso ed un negare del capo.
Saliva, Cesare, ogni tanto saliva da Santo Stefano e sorseggiava il caffè proprio seduto sulla stessa poltroncina dov’ero io adesso: per un attimo, avvertii che le mie natiche urlavano per il disagio.
«Fu tanto tempo fa», concluse, quasi a prevenire il mio imbarazzo.
Raccontò ancora di quei tempi, dopo la guerra, quando l’ideologia univa, amava, odiava, allontanava, soffriva: ma non era l’ideologia a soffrire, bensì erano uomini e donne, carne e sangue sorti dalla terra. E, i più, alla terra tornati.
Forse per dipanare la cappa del passato che stava straripando nel salotto, mi propose di fare una passeggiata in paese: accettai. Potei solo offrirle il braccio, che accettò.
Passeggiando per le antiche viuzze, m’accorsi solo allora di chi avevo al braccio: «Signora Contessa…» «Buonasera Caterina», rispondeva con misura. Gli uomini si toccavano appena la tesa del cappello «Madama…» e lei rispondeva, allora, con un impercettibile chinar del capo ed un timido sorriso.
Giungemmo così alla piazza, dove ci sarebbe dovuto essere il vecchio furgone Volkswagen ad attendermi, ma la piazza era deserta: dovevo esser stato dichiarato disperso sul fronte del marketing.
Quasi per farsi perdonare l’incomodo nel quale ero occorso – uno dei più piacevoli della mia vita, che avrei pagato oltre qualsiasi prezzo – mi chiese di comprare qualcosa. Mi sentii in imbarazzo, poi compresi.
«C’è la corriera che scende verso Dogliani, Bra…parte fra un quarto d’ora…da lì potrai trovare un treno per Torino.»
Nel pronunciare il nome della lontana metropoli, parve quasi confessare l’inconfessabile desiderio di seguirmi, d’abbandonare la sua dimora del ricordo, sentinella rimasta a presenziare un passato oramai ucciso, molti anni prima, da un colpo di pistola.
Giunse la corriera e ci salutammo. Non erano ancora giunti i tempi nei quali abbracci e baci si sarebbero sprecati per un nonnulla: una stretta di mano ed un fugace incontrarci con gli occhi fu tutto. La sua immagine, però, rimase stampigliata nei miei occhi fin quando il treno, sferragliando, non terminò l’abbrivio a pochi passi dal respingente di Porta Nuova.
Sono ancora imbambolato, mentre cerco di ripescare dalla memoria l’immagine della Contessa quando A. B. riprende, perché quelle poche frasi su Craxi non bastano e – ironia del destino – si torna ancora una volta a Torino. Sì, perché quel congresso del 1978 fu una boa, dalla quale la rotta del PSI mai più si volse[1].
Anch’io ricordo quei giorni di fine Inverno, quando al Jolly Hotel Ambasciatori si tenne il congresso del PSI, perché abitavo poco più avanti, in Borgo San Paolo. Poco oltre l’hotel, c’erano “Le Nuove” – ossia le vecchie carceri di Torino – dove si svolse il famoso processo alle prime BR, quello per il quale non si trovavano giurati popolari. Finché non saltò fuori Adelaide Aglietta e, per risposta, le BR fecero saltar giù dal cielo due colpi di mortaio, sparati da un camioncino tre isolati più in là.
«Lì», sentenzia A. B. «terminò definitivamente la grande avventura del Partito Socialista, la scommessa di un partito proletario ma non massimalista, essenziale nei suoi obiettivi ma deciso a difenderli come Cavallotti faceva con la spada. Il dopo…questa gente che s’imbelletta per esser stata socialista…»
Scuote la testa, è quasi commosso dal ricordo.
Difatti, lo precisa: «Sa, mi fa male parlare di queste cose, ed il mio cuore è oramai poco saldo.»
Non rinuncia però alla frecciata finale: «Quando sento personaggi come Brunetta e Cicchitto gloriarsi…“io ero socialista”…non so se arrabbiarmi o ridere.» Decide di sorridere, e riesce così a stemperare il dolore.
Anch’io vado a rovistare nel baule dei ricordi: quelli di una lontana Estate del 1978 quando, lungo le strade che uniscono le frazioni di Stella – abitavo là da poche settimane – impazzava un vecchio camioncino con gli altoparlanti, e declamava fra valli ed uliveti la più incredibili canzone che quei luoghi avessero mai udito.
«Cittadine, cittadini: il nostro concittadino, il compagno Sandro Pertini, è stato eletto Presidente della Repubblica! Cittadine, cittadini…
Ricordo bene che lo chiamavano proprio il “compagno” Pertini» aggiunsi «il “compagno Presidente”…eppure, solo pochi anni dopo, Pertini fece recapitare, alla segreteria provinciale di Savona del PSI, un messaggio tagliente come le lame di Cavallotti.
Siccome giungeva in visita a Savona, fece sapere che se – ad accoglierlo, all’aeroporto di Genova – ci fosse stato Alberto Teardo, avrebbe fatto dietro front e sarebbe tornato a Roma…»
Annuisce: si vede che conosce bene quella vicenda.
Aggiunge solo: «Il cancro, iniziato al congresso di Torino, aveva già generato metastasi: ovunque, ma le condizioni che resero possibile quel vero e proprio colpo di mano, sul partito più ricco di tradizioni che esistesse, erano già state poste anni prima.
Ricordo bene, sul finire degli anni ’60, che nelle riunioni a livello provinciale e regionale si parlava solo più di posti e non di proposte. Intendiamoci:» per un attimo gli occhi prendono fuoco «la cosa esisteva anche prima, ma con diversi attributi.»
Scorge nei miei occhi un’espressione smarrita, perché non comprendo con chiarezza quel che vuole dirmi, quale sia la discriminante. E capisce che deve andare più a fondo, altrimenti mi deluderà.
«Vede» si avvicina, come a volermi confessare una colpa «io fui contrario, all’epoca, alla nomina di un ciabattino alla presidenza di un Istituto di Risparmio. Fui accusato di classismo, di frappormi all’ascesa, nei posti di potere, di chi proveniva dalle classi subalterne.»
Per un attimo, spontaneamente, mi metto al fianco del ciabattino.
«La mia non era una critica al suo essere un ciabattino, bensì al fatto – inequivocabile – che era un ciabattino ignorante, stupido! Mai, mi sarei permesso la stessa critica se fosse stato un ciabattino intelligente e capace!»
Ecco, la semplice risposta, e non mi sembra il caso di ricordare Cipolla e i suoi divertenti grafici…che la percentuale di stupidi, nella Storia, è una costante. Le popolazioni non sono dunque – sempre che sia possibile tratteggiarle in un singolo universale – “stupide” od “intelligenti”: dipende quale delle due parti ha in mano la leva del comando!
Difatti, A. B. – e, insieme a lui, tanti altri – finì fuori dal PSI: terminò la sua carriera politica presiedendo enti e fondazioni, quelle dove non giravano soldi, ovvio. Faccio però notare che A. B. non fu mai un politico di professione e basta, bensì lavorò normalmente fino alla pensione.
Ecco, allora, che dal racconto di A. B. riesco meglio a spiegare quel che m’accadde tanti anni prima, una sera del 1971.
Ero stato chiamato da un dirigente locale del PSI: siccome entrambi c’interessavamo di musica popolare, ritenevo che quello fosse il motivo dell’invito. Mi sbagliavo.
La proposta giunse quasi subito, dopo la prima grappa: «Saresti disposto a prenderti sul groppone la Federazione Giovanile Socialista?» poi, subito dopo, senza attendere risposta «In cambio, possiamo offrirti un posto di Geometra in Comune.»
La prima risposta, ovvia, fu quella che non ero Geometra. La cosa non parve interessarlo: «Sono cose che si sistemano.»
La seconda, altrettanto ovvia – che lui sapeva benissimo – era che militavo nello PSIUP, il Partito Socialista d’estrema sinistra: un partito, all’epoca, dichiaratamente rivoluzionario. Cosa ci sarei andato a fare, in un partito apertamente riformista?
La cosa finì lì, ma per un caso della vita ebbi modo di conoscere quello che accettò (che non era Geometra): il tizio, finì poi nell’ingranaggio di Mani Pulite per tangenti che riguardavano la Sanità, ma fu un ingranaggio piccolo, insignificante, come può esserlo quello che attende di chi si finge Geometra. E continuò con una carriera politica scipita, saporita come una pasta al burro senza sale.
Siamo giunti al caffè, ma si vede che ha ancora qualcosa in gola, un ricordo del quale vuol farmi partecipe.
Non attende molto.
«Eh, Pertini…»
Aspetto, perché la palla è nel suo campo.
«Con Pertini partecipai ad una campagna elettorale nella Liguria occidentale: Alassio, San Remo, i paesini dell’entroterra…lui era Pertini: io, allora, ero solo un “giovane di studio”.
La mattina c’erano spesso degli incontri con l’associazionismo: il pomeriggio, invece, si concludeva sempre con un comizio in piazza.
A pranzo, un giorno, erano avanzati quattro pesciolini fritti: chiesi, con deferenza, se li voleva.
Mi rispose, in dialetto ligure: mangiali tu, che sei giovane.
Poi, subito, affondò: ma tu, da dove vieni?
Risposi che ero socialista da sempre, sin da quando mio padre m’aveva condotto – ragazzo – in Federazione a Genova…
Ah, ma allora una cosa non l’hai ancora imparata, concluse: che fra compagni ci si dà del tu!»
E’ giunta l’ora di riprendere la via di casa: in quattro sulla Panda, badante e “badato” compresi. Ci salutiamo con la promessa di rivederci presto, e lui assicura che verrà, appena entrambi avremo scapolato le nostre secche sanitarie.
Ed io ci spero, con tutto il cuore.
A questo punto, qualcuno si chiederà qual è il succo di questo racconto. Beh, il primo è che mi è piaciuto scriverlo e, spero, che altri lo abbiano gradito. Per chi ama scrivere, basta ed avanza: è come offrire un bicchiere di vino.
Ma c’è dell’altro.
Nei giorni scorsi avevo letto un articolo di Franco Cardini, comparso originariamente su “Il Giornale” e ripreso da numerosi siti[2], dove poneva il problema dell’appartenenza, del nostro sentirci “parte” di qualcosa.
Premetto che l’articolo m’era parso un poco frettoloso, ma di questo non bisogna farne gran colpa all’autore: nelle redazioni, ti dicono “cinquemila battute”, e devi starci dentro. Si capiva che aveva faticato a starci dentro: purtroppo, duemila battute in più sarebbero state il minimo.
Non potendo avvalersi solidamente del concetto di “Patria” – perché è un valore, per noi italiani, che ha iniziato a perder significato già dalla Prima Guerra Mondiale, con la fine del Risorgimento – Cardini ha cercato “sponda” nel corrispondente in lingua tedesca.
Precisi come sono, però, i tedeschi hanno due termini per definire l’appartenenza: Vaterland (terra dei padri, degli antenati) ed Heimat, che mi piace tradurre con il “posto dell’anima”, felicissimo titolo per un altrettanto radioso e struggente film di Riccardo Milani, dove Michele Placido e Silvio Orlando riescono a dare il meglio di loro stessi.
Ora, le “terre degli antenati” – qui, in Italia – sembrano scarseggiare: “figli d’Annibale”, o di francesi, spagnoli, austriaci…a meno di rifugiarsi nelle mille Vaterland locali: piccolissime, minute, dove basta il soffio dell’immigrazione per mettere a soqquadro un debole modello.
Credo che poche Vaterland siano sopravvissute al Novecento, ed oggi il furore globalizzatore sta sradicando gli ultimi polloni di un’appartenenza legata alla stirpe.
Più interessante, invece, cercare quale sia – per ciascuno di noi – il proprio Heimat, quel luogo al quale ci sentiamo teneramente legati, che può anche non coincidere con una precisa indicazione geografica. Tanto, dal prossimo anno scolastico, aboliranno anche la Geografia ed andremo tutti a spasso con un bel GPS sulla schiena.
La questione non è un dibattere sul sesso degli Angeli, perché dalla propria appartenenza ad un “posto dell’anima” discende, per via diretta, il nostro incontrare l’altro. Se non proprio l’anima gemella, almeno quella che vibra armoniosamente con la nostra.
Così, gli Heimat possono improvvisamente dischiudersi quando meno ce li aspettiamo: dietro ad una porta, dove s’immaginava di vendere qualche saponetta. Oppure nel vociante ristorante appena a tergo di un ospedale.
E, dall’incontrarsi nei misteriosi e forse poco ortodossi Heimat, nasce la consapevolezza del non esser soli a pensare, a sentire, a gioire e soffrire in quel modo.
In quale Heimat vive, oggi, la classe politica?
Ferrando ricorda semplicemente che gli iracheni portano avanti la loro lotta di liberazione, e viene subito cacciato da Rifondazione. Bontempo si alza, alla Camera, e chiede – forse in modo retorico – “lumi” sul signoraggio: Bertinotti gli toglie la parola. Paradossalmente, entrambi colpiti da un “capo” comunista.
Non ci meravigliamo se Berlusconi, D’Alema, Bersani, Matteoli, Casini e, in fin dei conti, anche Di Pietro reagiscono agli stessi stimoli in modo assolutamente paritetico: traggono le loro convinzioni dal medesimo Heimat, un luogo dove si è “al di là del bene e del male”, perché appartenenti all’empireo degli eletti.
Non c’è più nessuna riflessione su quel che vanno facendo: intessono false consultazioni elettorali, oppure si beano del culto di un “capo” che giunge a sfruttare un modesto incidente di piazza per risalire nella hit parade mediatica.
Sono il prodotto di una prassi stralciata dal lessico politico, quella ben descritta da A. B. quando ricorda che, in politica, si devono premiare per prima cosa l’intelligenza e l’etica.
Inorridisco, al pensiero di quali possano essere gli attributi degli Heimat nei quali s’incontrano personaggi come Capezzone o Rutelli.
In fin dei conti – prima che politici, poeti, intellettuali – le generazioni precedenti s’incontrarono nei loro Heimat, quei luoghi dove regnava il rispetto antico per l’avversario, per la donna, per la libertà altrui.
Oggi, sappiamo che tutto ciò è stato calpestato da una marea urlante, da una vucirrìa televisiva che ha veicolato proprio l’opposto: l’avversario è il nemico, la donna una puttana da godere, la propria libertà (o licenza?) è sopra ogni altro valore. Quella degli altri, all’occorrenza, sotto le ruote del SUV.
L’eleganza del gesto è sacrificata alla fretta, la potenza del verso sostituita dai decibel, la galanteria svapora negli inviti a cena che già sanno di noiosa scopata.
Eppure, chiediamo: urliamo, desideriamo un nuovo mondo.
Sapremmo riconoscerlo? Oppure, passando per il proprio Heimat, finiremmo per non vederlo, e magari ci svuoteremmo il portacenere dell’auto?
A monte di qualsiasi aggregazione, di un possibile movimento politico – ma anche di un matrimonio o di un’amicizia – se non c’è, prima, il riconoscersi in un Heimat comune, tutto si stempera nella consuetudine. Che è l’anticamera della nauseante noia: rileggere Sartre – cum grano salis – può servire.
Perciò, il mio invito è quello di non soffermarsi troppo a considerare se il Web può o non può…se è meglio appoggiare questo o quello…
In fin dei conti, solo riconoscere il proprio Heimat conduce a sconfiggere le nebbie della mente, e qualsiasi luogo – reale o virtuale – è atto alla bisogna. Il Web come il bar, la spiaggia come un libro.
Anche rimanere ad ascoltare una contessa che vive oramai fuori del tempo, un anziano che racconta l’avventura politica di una vita, oppure una bambina con le rughe – mia madre – che ancora urla il dolore provato in un tempo lontano.
Solo i “posti delle anime” possono generare i sinceri incontri, i saldi e calorosi abbracci che infondono coraggio e temperamento: il resto, viene dopo.
Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.
Cesare Pavese
“E correndo la incontrai lungo le scale…”, verrebbe da dire, ma le scale non sono quelle della vita, dei sentimenti: sono solo quelle di un ospedale. Entrambi con il nostro mazzo di fogli in mano: appena firmati dal radiologo, dall’anestesista, dal chirurgo…ancora caldi di timori repressi, d’ansie ricacciate.
I suoi fogli, però, non sono “suoi” bensì della persona che accudisce: è una delle rare badanti italiane, e cerca di far bene il suo lavoro.
«Anzi» – propone – «perché, quando hai finito con le tue peregrinazioni, non mi telefoni e andiamo a mangiare qualcosa tutti e quattro assieme?»
Sulle prime non capisco: io, mia moglie e lei facciamo tre. No: ci sarà anche il “badato”.
Sono perplesso: che senso ha andare a pranzo con una persona che deve essere “badata”, che magari deve essere imboccata e poi…ci sarà con la testa?
«Fidati» è l’unica risposta: «vedrai che sarà una sorpresa.» Tanto per far defluire le tossine ansiogene, incassate in una mattinata d’ordinaria inquietudine ospedaliera, accettiamo. Ed entriamo nel ristorante.
Fa caldo e c’è tanta gente, ma l’atmosfera è allegra: qualche giovane che mangia in fretta, leggendo il giornale, i soliti crocchi d’operai dell’ENEL e delle Ferrovie che s’accalorano nell’ultima discussione, mentre non perdono di vista l’orologio.
Attraversiamo l’umanità gustante per giungere al tavolo, dove un uomo anziano c’attende. La sorpresa è, da subito, quella dell’abito: l’uomo è vestito in modo sobrio ma elegante, con il tocco di classe di chi potrebbe apparire ad una cena di gala indossando una maglietta. Giacca, camicia e cravatta in tono, capelli bianchi ben pettinati, viso ben rasato ed occhiali con montatura dorata: appena giungono le due signore, si alza in piedi come non vedevo fare da tanto tempo, da quando l’educazione e l’arte della cavalleria sono finiti nella discarica del savoir vivre.
Per rompere il ghiaccio leggo, al contrario, la pagina del giornale che stava leggendo mentre ingannava l’attesa; c’è il dibattito su Craxi: ladro non ladro, grande politico non grande politico, eccetera…
Due occhi azzurri mi fissano, dopo le presentazioni, e ricadono sulla pagina del giornale, poi – con un filo di voce, ma senza incertezze – parla.
«Certo che per me, che sono stato da sempre socialista, è un gran dispiacere leggere ancora oggi queste cose, perché nel socialismo ci ho creduto. Mio padre fu tra i fondatori del Partito Socialista Italiano, amico personale di Turati. Quando penso ai politici d’oggi, a Berlusconi…» Scuote la testa.
Non voglio ribattere anche perché non c’è nulla di sbagliato in quanto afferma, così mi limito a dire che anch’io sono cresciuto in una famiglia socialista, così socialista che perse per due volte la casa – durante il Fascismo – perché non accettavano di togliere dall’anticamera le fotografie di Giacomo Matteotti e di Felice Cavallotti.
Roba d’altri tempi, che mi raccontò una bambina di dodici anni con le rughe al volto: una bambina che, pur di tramandare quelle memorie, accettava di soffrire un’altra volta, come se quello che aveva già sofferto non fosse ancora abbastanza.
Andava così: i fascisti entravano, guardavano le due fotografie, non dicevano nulla e se n’andavano. Pochi giorni dopo, arrivava l’ingiunzione di confisca: il fabbricato veniva rapidamente destinato alle attività ricreative per gli iscritti al Partito Nazionale Fascista, mentre prati e campi diventavano piste da ballo, giochi da bocce, campi da calcio…
Per ben due volte – la voce della bambina si tinge di rabbia – riuscimmo a comprare nuovamente una casa ed un po’ di terreno e, per due volte, ci confiscarono tutto.
Così finì la vita di una famiglia d’agricoltori della “bassa”, gente che di certo non scialava, ma alla quale non mancavano mai il pranzo e la cena: emigrazione. Finirono, in affitto, in un vecchio mulino incassato nel fondo di una valle dove il sole compariva poche ore il giorno. Poi la fabbrica, la guerra, la lotta partigiana, di nuovo la fabbrica: tutto per colpa di un altro “nato” socialista, l’ennesimo traditore di un grande ideale.
A. B. – potrebbe essere X. Y. e sarebbe lo stesso: quel che racconto è assolutamente vero, ma non fornirò nessun elemento per identificare la persona. Non è “privacy”, è soltanto il giusto riserbo di chi ancora interpreta il giornalismo come diffusione d’informazione e basta, e non come arma politica o glorificazione di se stessi – non è meravigliato né scosso: di queste storie, ne avrà sentite raccontare chissà quante.
«Guardi, voglio essere franco. Io, Craxi, lo stimai per due soli eventi: quando non consegnò i palestinesi agli americani – la Achille Lauro era italiana, dunque la giurisdizione era nostra, aveva ragione – e quando ebbe il coraggio di rispondere a Gromyko che, se voleva che noi togliessimo i nostri missili da Comiso, che cominciasse lui a togliere i suoi dalla Polonia. Per il resto…» e scuote la testa, fissandomi con due occhi che sono diventati di ghiaccio, fendenti, limpidi come l’acqua di neve.
Dobbiamo interrompere la conversazione perché una signora è giunta al nostro tavolo: ci alziamo – mi ha contagiato, con gran gioia, a stemperarmi nella cavalleria di un tempo – per salutare la donna, anziana ma ben truccata, elegante. Una bella signora d’altri tempi.
Si dicono qualcosa e, educatamente, chiudo l’audio per discrezione ma – appena la signora se n’è andata – torna a fissarmi con quegli occhi che, adesso, sbocciano di frutti maturi e di calore, d’acqua salsa e di tramonti estivi. Pare quasi volersi confessare, con una persona che ha conosciuto da pochi istanti: «Fu una storia d’amore intenso, che durò parecchio: poi, un giorno, lei mi disse che si sentiva troppo amica di mia moglie per continuare, e così finì… »
Mi volto ed osservo la signora, seduta due tavoli più in là: dev’essere stato veramente difficile staccarsi da quel bocciolo, come doveva apparire qualche decennio prima, altro che le misere storie di veline e di escort…
Indovina i miei pensieri, ed aggiunge: «E’ una donna di rara signorilità: ha lavorato tutta la vita ma, nel tempo libero, si dedicava al teatro. Recitava: sapesse come leggeva, in pubblico, poesie e racconti! Una vera e propria Musa…» La osservo nuovamente, e non ho difficoltà a crederlo.
Mentre c’invitano a spostarci ad un altro tavolo, più grande, e ci portano il menu non posso far altro che sovrapporre la raffinata, solo un po’ sfiorita bellezza che abbiamo appena lasciato, con la Contessa.
Già, la Contessa: sono trascorsi molti anni, ma non ho mai dimenticato quel pomeriggio d’Inverno. L’unica circostanza, fortunatissima, che la vita mi riservò per sentirmi – per poche ore – come nel cenacolo di Madame de Warens.
C’era ancora un po’ di neve, anche quel giorno di fine Inverno del 197…non ricordo l’anno. E nemmeno il luogo, che poteva essere Murazzano, Bossolasco, Cravanzana…uno dei borghi “alti” della Langa, quelli sull’antica Via del Sale, la Pedaggera.
Ero stato recapitato in quel luogo da un ansimante furgone Volkswagen, con il quale – da Torino – portavano in quei dimenticati luoghi noi: studenti, disoccupati…per guadagnare qualche soldo con il “porta a porta”. Fu forse l’ultima volta che tentai la fortuna come venditore: vendere shampoo e saponette non era proprio il mio pane.
Così vagavo, poco convinto, fra un viottolo e l’altro, borsa a tracolla e poca voglia di bussare per ascoltare i soliti rifiuti. Poi, decisi per quella porta di noce scuro, con il batocchio di bronzo antico: almeno, pensai, sarebbe stato un nobile rifiuto!
Invece, apparve un viso dolce, appena accarezzato da qualche ruga, che m’invitò ad entrare: capì in un nonnulla cos’ero lì a fare, e mi fece accomodare in una poltroncina foderata con velluto a coste fini, color vinaccia. Poi, mi chiese chi ero e cosa facevo.
Mi presentai e dissi il poco che avevo da dire: ero studente a Torino e, come altri, ogni tanto tentavo la fortuna di riuscire a vendere qualcosa per raggranellare qualche soldo. A dire il vero – aggiunsi – credendoci poco e con scarso successo. Sorrise.
Mi chiese se gradivo un caffè, e s’allontanò.
Solo allora iniziai a guardarmi intorno, e compresi che non ero finito in una casa qualunque: le litografie alle pareti, le statuine di porcellana o di bronzo su antichi tavolini, testimoniavano che quella era una casa antica, di quelle che la Storia l’avevano vista. E, talvolta, l’avevano fatta.
Tornò dopo qualche istante con il vassoio e le tazzine: mentre sorseggiavo il caffè, cercai di capire chi avevo di fronte. Vestita con dimessa eleganza, qualche capello già grigio che striava appena la capigliatura scura, il portamento altero su un corpo formoso, seppur castigato dagli abiti. Portava alcuni anelli alle dita, ma l’impressione che ne ricavai fu che vivesse – sola – in quella magione d’altri tempi.
Fu lei a rompere il ghiaccio, ricordando qualcosa che avevamo in comune: anch’ella aveva studiato a Torino.
Subito dopo aggiunse «Molti anni fa….», tanto per incassare il minimo di galanteria che potessi esprimere «Beh, proprio tanti…» Passò oltre.
Fu in quel preciso istante che iniziò a parlarmi di Cesare.
Sì, di Cesare e basta, con il quale aveva intessuto per molto tempo una lunga amicizia, interrotta e sempre ripresa negli anni, come quel treno di montagna che ansima nelle valli della Langa, e che s’arresta nelle stazioni a prender fiato. Per poi ripartire sempre, ma con calma, per non patire il mal di cuore.
Capii subito a quale Cesare si riferiva: non ce ne sono tanti, da queste parti, a potersi concedere il nome e basta.
Fu però franca, nel confessare che con Pavese era stata una vita d’inferno la sola amicizia: troppo conflittuale e introverso il suo rapporto con l’universo femminile. Sempre desiderato ma mai accolto: quella sete mai placata, che finì per sopraffarlo in un anonimo albergo di Torino.
Per un attimo pensai che avesse qualcosa da recriminare (o da recriminarsi?) per quel ch’era stato, ma fu lei stessa ad indovinare i miei pensieri ed a fermarli, con un sorriso ed un negare del capo.
Saliva, Cesare, ogni tanto saliva da Santo Stefano e sorseggiava il caffè proprio seduto sulla stessa poltroncina dov’ero io adesso: per un attimo, avvertii che le mie natiche urlavano per il disagio.
«Fu tanto tempo fa», concluse, quasi a prevenire il mio imbarazzo.
Raccontò ancora di quei tempi, dopo la guerra, quando l’ideologia univa, amava, odiava, allontanava, soffriva: ma non era l’ideologia a soffrire, bensì erano uomini e donne, carne e sangue sorti dalla terra. E, i più, alla terra tornati.
Forse per dipanare la cappa del passato che stava straripando nel salotto, mi propose di fare una passeggiata in paese: accettai. Potei solo offrirle il braccio, che accettò.
Passeggiando per le antiche viuzze, m’accorsi solo allora di chi avevo al braccio: «Signora Contessa…» «Buonasera Caterina», rispondeva con misura. Gli uomini si toccavano appena la tesa del cappello «Madama…» e lei rispondeva, allora, con un impercettibile chinar del capo ed un timido sorriso.
Giungemmo così alla piazza, dove ci sarebbe dovuto essere il vecchio furgone Volkswagen ad attendermi, ma la piazza era deserta: dovevo esser stato dichiarato disperso sul fronte del marketing.
Quasi per farsi perdonare l’incomodo nel quale ero occorso – uno dei più piacevoli della mia vita, che avrei pagato oltre qualsiasi prezzo – mi chiese di comprare qualcosa. Mi sentii in imbarazzo, poi compresi.
«C’è la corriera che scende verso Dogliani, Bra…parte fra un quarto d’ora…da lì potrai trovare un treno per Torino.»
Nel pronunciare il nome della lontana metropoli, parve quasi confessare l’inconfessabile desiderio di seguirmi, d’abbandonare la sua dimora del ricordo, sentinella rimasta a presenziare un passato oramai ucciso, molti anni prima, da un colpo di pistola.
Giunse la corriera e ci salutammo. Non erano ancora giunti i tempi nei quali abbracci e baci si sarebbero sprecati per un nonnulla: una stretta di mano ed un fugace incontrarci con gli occhi fu tutto. La sua immagine, però, rimase stampigliata nei miei occhi fin quando il treno, sferragliando, non terminò l’abbrivio a pochi passi dal respingente di Porta Nuova.
Sono ancora imbambolato, mentre cerco di ripescare dalla memoria l’immagine della Contessa quando A. B. riprende, perché quelle poche frasi su Craxi non bastano e – ironia del destino – si torna ancora una volta a Torino. Sì, perché quel congresso del 1978 fu una boa, dalla quale la rotta del PSI mai più si volse[1].
Anch’io ricordo quei giorni di fine Inverno, quando al Jolly Hotel Ambasciatori si tenne il congresso del PSI, perché abitavo poco più avanti, in Borgo San Paolo. Poco oltre l’hotel, c’erano “Le Nuove” – ossia le vecchie carceri di Torino – dove si svolse il famoso processo alle prime BR, quello per il quale non si trovavano giurati popolari. Finché non saltò fuori Adelaide Aglietta e, per risposta, le BR fecero saltar giù dal cielo due colpi di mortaio, sparati da un camioncino tre isolati più in là.
«Lì», sentenzia A. B. «terminò definitivamente la grande avventura del Partito Socialista, la scommessa di un partito proletario ma non massimalista, essenziale nei suoi obiettivi ma deciso a difenderli come Cavallotti faceva con la spada. Il dopo…questa gente che s’imbelletta per esser stata socialista…»
Scuote la testa, è quasi commosso dal ricordo.
Difatti, lo precisa: «Sa, mi fa male parlare di queste cose, ed il mio cuore è oramai poco saldo.»
Non rinuncia però alla frecciata finale: «Quando sento personaggi come Brunetta e Cicchitto gloriarsi…“io ero socialista”…non so se arrabbiarmi o ridere.» Decide di sorridere, e riesce così a stemperare il dolore.
Anch’io vado a rovistare nel baule dei ricordi: quelli di una lontana Estate del 1978 quando, lungo le strade che uniscono le frazioni di Stella – abitavo là da poche settimane – impazzava un vecchio camioncino con gli altoparlanti, e declamava fra valli ed uliveti la più incredibili canzone che quei luoghi avessero mai udito.
«Cittadine, cittadini: il nostro concittadino, il compagno Sandro Pertini, è stato eletto Presidente della Repubblica! Cittadine, cittadini…
Ricordo bene che lo chiamavano proprio il “compagno” Pertini» aggiunsi «il “compagno Presidente”…eppure, solo pochi anni dopo, Pertini fece recapitare, alla segreteria provinciale di Savona del PSI, un messaggio tagliente come le lame di Cavallotti.
Siccome giungeva in visita a Savona, fece sapere che se – ad accoglierlo, all’aeroporto di Genova – ci fosse stato Alberto Teardo, avrebbe fatto dietro front e sarebbe tornato a Roma…»
Annuisce: si vede che conosce bene quella vicenda.
Aggiunge solo: «Il cancro, iniziato al congresso di Torino, aveva già generato metastasi: ovunque, ma le condizioni che resero possibile quel vero e proprio colpo di mano, sul partito più ricco di tradizioni che esistesse, erano già state poste anni prima.
Ricordo bene, sul finire degli anni ’60, che nelle riunioni a livello provinciale e regionale si parlava solo più di posti e non di proposte. Intendiamoci:» per un attimo gli occhi prendono fuoco «la cosa esisteva anche prima, ma con diversi attributi.»
Scorge nei miei occhi un’espressione smarrita, perché non comprendo con chiarezza quel che vuole dirmi, quale sia la discriminante. E capisce che deve andare più a fondo, altrimenti mi deluderà.
«Vede» si avvicina, come a volermi confessare una colpa «io fui contrario, all’epoca, alla nomina di un ciabattino alla presidenza di un Istituto di Risparmio. Fui accusato di classismo, di frappormi all’ascesa, nei posti di potere, di chi proveniva dalle classi subalterne.»
Per un attimo, spontaneamente, mi metto al fianco del ciabattino.
«La mia non era una critica al suo essere un ciabattino, bensì al fatto – inequivocabile – che era un ciabattino ignorante, stupido! Mai, mi sarei permesso la stessa critica se fosse stato un ciabattino intelligente e capace!»
Ecco, la semplice risposta, e non mi sembra il caso di ricordare Cipolla e i suoi divertenti grafici…che la percentuale di stupidi, nella Storia, è una costante. Le popolazioni non sono dunque – sempre che sia possibile tratteggiarle in un singolo universale – “stupide” od “intelligenti”: dipende quale delle due parti ha in mano la leva del comando!
Difatti, A. B. – e, insieme a lui, tanti altri – finì fuori dal PSI: terminò la sua carriera politica presiedendo enti e fondazioni, quelle dove non giravano soldi, ovvio. Faccio però notare che A. B. non fu mai un politico di professione e basta, bensì lavorò normalmente fino alla pensione.
Ecco, allora, che dal racconto di A. B. riesco meglio a spiegare quel che m’accadde tanti anni prima, una sera del 1971.
Ero stato chiamato da un dirigente locale del PSI: siccome entrambi c’interessavamo di musica popolare, ritenevo che quello fosse il motivo dell’invito. Mi sbagliavo.
La proposta giunse quasi subito, dopo la prima grappa: «Saresti disposto a prenderti sul groppone la Federazione Giovanile Socialista?» poi, subito dopo, senza attendere risposta «In cambio, possiamo offrirti un posto di Geometra in Comune.»
La prima risposta, ovvia, fu quella che non ero Geometra. La cosa non parve interessarlo: «Sono cose che si sistemano.»
La seconda, altrettanto ovvia – che lui sapeva benissimo – era che militavo nello PSIUP, il Partito Socialista d’estrema sinistra: un partito, all’epoca, dichiaratamente rivoluzionario. Cosa ci sarei andato a fare, in un partito apertamente riformista?
La cosa finì lì, ma per un caso della vita ebbi modo di conoscere quello che accettò (che non era Geometra): il tizio, finì poi nell’ingranaggio di Mani Pulite per tangenti che riguardavano la Sanità, ma fu un ingranaggio piccolo, insignificante, come può esserlo quello che attende di chi si finge Geometra. E continuò con una carriera politica scipita, saporita come una pasta al burro senza sale.
Siamo giunti al caffè, ma si vede che ha ancora qualcosa in gola, un ricordo del quale vuol farmi partecipe.
Non attende molto.
«Eh, Pertini…»
Aspetto, perché la palla è nel suo campo.
«Con Pertini partecipai ad una campagna elettorale nella Liguria occidentale: Alassio, San Remo, i paesini dell’entroterra…lui era Pertini: io, allora, ero solo un “giovane di studio”.
La mattina c’erano spesso degli incontri con l’associazionismo: il pomeriggio, invece, si concludeva sempre con un comizio in piazza.
A pranzo, un giorno, erano avanzati quattro pesciolini fritti: chiesi, con deferenza, se li voleva.
Mi rispose, in dialetto ligure: mangiali tu, che sei giovane.
Poi, subito, affondò: ma tu, da dove vieni?
Risposi che ero socialista da sempre, sin da quando mio padre m’aveva condotto – ragazzo – in Federazione a Genova…
Ah, ma allora una cosa non l’hai ancora imparata, concluse: che fra compagni ci si dà del tu!»
E’ giunta l’ora di riprendere la via di casa: in quattro sulla Panda, badante e “badato” compresi. Ci salutiamo con la promessa di rivederci presto, e lui assicura che verrà, appena entrambi avremo scapolato le nostre secche sanitarie.
Ed io ci spero, con tutto il cuore.
A questo punto, qualcuno si chiederà qual è il succo di questo racconto. Beh, il primo è che mi è piaciuto scriverlo e, spero, che altri lo abbiano gradito. Per chi ama scrivere, basta ed avanza: è come offrire un bicchiere di vino.
Ma c’è dell’altro.
Nei giorni scorsi avevo letto un articolo di Franco Cardini, comparso originariamente su “Il Giornale” e ripreso da numerosi siti[2], dove poneva il problema dell’appartenenza, del nostro sentirci “parte” di qualcosa.
Premetto che l’articolo m’era parso un poco frettoloso, ma di questo non bisogna farne gran colpa all’autore: nelle redazioni, ti dicono “cinquemila battute”, e devi starci dentro. Si capiva che aveva faticato a starci dentro: purtroppo, duemila battute in più sarebbero state il minimo.
Non potendo avvalersi solidamente del concetto di “Patria” – perché è un valore, per noi italiani, che ha iniziato a perder significato già dalla Prima Guerra Mondiale, con la fine del Risorgimento – Cardini ha cercato “sponda” nel corrispondente in lingua tedesca.
Precisi come sono, però, i tedeschi hanno due termini per definire l’appartenenza: Vaterland (terra dei padri, degli antenati) ed Heimat, che mi piace tradurre con il “posto dell’anima”, felicissimo titolo per un altrettanto radioso e struggente film di Riccardo Milani, dove Michele Placido e Silvio Orlando riescono a dare il meglio di loro stessi.
Ora, le “terre degli antenati” – qui, in Italia – sembrano scarseggiare: “figli d’Annibale”, o di francesi, spagnoli, austriaci…a meno di rifugiarsi nelle mille Vaterland locali: piccolissime, minute, dove basta il soffio dell’immigrazione per mettere a soqquadro un debole modello.
Credo che poche Vaterland siano sopravvissute al Novecento, ed oggi il furore globalizzatore sta sradicando gli ultimi polloni di un’appartenenza legata alla stirpe.
Più interessante, invece, cercare quale sia – per ciascuno di noi – il proprio Heimat, quel luogo al quale ci sentiamo teneramente legati, che può anche non coincidere con una precisa indicazione geografica. Tanto, dal prossimo anno scolastico, aboliranno anche la Geografia ed andremo tutti a spasso con un bel GPS sulla schiena.
La questione non è un dibattere sul sesso degli Angeli, perché dalla propria appartenenza ad un “posto dell’anima” discende, per via diretta, il nostro incontrare l’altro. Se non proprio l’anima gemella, almeno quella che vibra armoniosamente con la nostra.
Così, gli Heimat possono improvvisamente dischiudersi quando meno ce li aspettiamo: dietro ad una porta, dove s’immaginava di vendere qualche saponetta. Oppure nel vociante ristorante appena a tergo di un ospedale.
E, dall’incontrarsi nei misteriosi e forse poco ortodossi Heimat, nasce la consapevolezza del non esser soli a pensare, a sentire, a gioire e soffrire in quel modo.
In quale Heimat vive, oggi, la classe politica?
Ferrando ricorda semplicemente che gli iracheni portano avanti la loro lotta di liberazione, e viene subito cacciato da Rifondazione. Bontempo si alza, alla Camera, e chiede – forse in modo retorico – “lumi” sul signoraggio: Bertinotti gli toglie la parola. Paradossalmente, entrambi colpiti da un “capo” comunista.
Non ci meravigliamo se Berlusconi, D’Alema, Bersani, Matteoli, Casini e, in fin dei conti, anche Di Pietro reagiscono agli stessi stimoli in modo assolutamente paritetico: traggono le loro convinzioni dal medesimo Heimat, un luogo dove si è “al di là del bene e del male”, perché appartenenti all’empireo degli eletti.
Non c’è più nessuna riflessione su quel che vanno facendo: intessono false consultazioni elettorali, oppure si beano del culto di un “capo” che giunge a sfruttare un modesto incidente di piazza per risalire nella hit parade mediatica.
Sono il prodotto di una prassi stralciata dal lessico politico, quella ben descritta da A. B. quando ricorda che, in politica, si devono premiare per prima cosa l’intelligenza e l’etica.
Inorridisco, al pensiero di quali possano essere gli attributi degli Heimat nei quali s’incontrano personaggi come Capezzone o Rutelli.
In fin dei conti – prima che politici, poeti, intellettuali – le generazioni precedenti s’incontrarono nei loro Heimat, quei luoghi dove regnava il rispetto antico per l’avversario, per la donna, per la libertà altrui.
Oggi, sappiamo che tutto ciò è stato calpestato da una marea urlante, da una vucirrìa televisiva che ha veicolato proprio l’opposto: l’avversario è il nemico, la donna una puttana da godere, la propria libertà (o licenza?) è sopra ogni altro valore. Quella degli altri, all’occorrenza, sotto le ruote del SUV.
L’eleganza del gesto è sacrificata alla fretta, la potenza del verso sostituita dai decibel, la galanteria svapora negli inviti a cena che già sanno di noiosa scopata.
Eppure, chiediamo: urliamo, desideriamo un nuovo mondo.
Sapremmo riconoscerlo? Oppure, passando per il proprio Heimat, finiremmo per non vederlo, e magari ci svuoteremmo il portacenere dell’auto?
A monte di qualsiasi aggregazione, di un possibile movimento politico – ma anche di un matrimonio o di un’amicizia – se non c’è, prima, il riconoscersi in un Heimat comune, tutto si stempera nella consuetudine. Che è l’anticamera della nauseante noia: rileggere Sartre – cum grano salis – può servire.
Perciò, il mio invito è quello di non soffermarsi troppo a considerare se il Web può o non può…se è meglio appoggiare questo o quello…
In fin dei conti, solo riconoscere il proprio Heimat conduce a sconfiggere le nebbie della mente, e qualsiasi luogo – reale o virtuale – è atto alla bisogna. Il Web come il bar, la spiaggia come un libro.
Anche rimanere ad ascoltare una contessa che vive oramai fuori del tempo, un anziano che racconta l’avventura politica di una vita, oppure una bambina con le rughe – mia madre – che ancora urla il dolore provato in un tempo lontano.
Solo i “posti delle anime” possono generare i sinceri incontri, i saldi e calorosi abbracci che infondono coraggio e temperamento: il resto, viene dopo.
Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.
[1] Nel 1976 il PSI aveva subito un forte rovescio elettorale, il segretario De Martino venne messo sotto accusa per la sua subalternità al PCI e andò in minoranza nella famosa riunione all'hotel Midas. Craxi Bettino, capo della corrente autonomista, allievo prediletto di Nenni divenne il nuovo segretario del PSI. De Martino però godeva ancora nel partito di un forte consenso, dell'appoggio di Lombardi e del PCI. Al primo passo falso di Craxi sarebbe potuto tornare facilmente alla segreteria. Era necessario per questo convincerlo a ritirarsi dalla vita politica. Nel 1977, poco prima del congresso di Torino del PSI, un gruppo di malavitosi napoletani legati alla camorra rapì il figlio di De Martino chiedendo un riscatto che, molto probabilmente, fu pagato da Calvi (P2). Oggi sappiamo che la P2 ed il Sismi tenevano legami diretti, tramite Carboni e Pazienza, con la camorra e le bande criminali di Bergamelli, Turatello e Vallanzasca. De Martino, interrogato dalla commissione P2, ha più volte fatto capire che il rilascio di suo figlio ha avuto come contropartita la sua rinuncia a tornare ad assumere il ruolo dirigente nel PSI. Egli ha affermato infatti: “il rapimento di mio figlio ha avuto lo stesso significato politico dell'assassinio dell'onorevole Moro”.
Fonte: Alla conquista del PSI, di Luigi Cipriani. http://www.fondazionecipriani.it/Scritti/allapsi.html
[2] Italiano o terrone d’Europa: quando l’identità è la stessa. Vedi: http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=6668&mode=thread&order=0&thold=0
Carlo siamo alle solite nella storia d'Italia, i suoi capi idolatrati dalle masse italiote si montano la testa, e si sentono dei grandi uomini. Vedi Bertolaso, dopo aver affrontato il terremoto dell'Aquila con alcune centinaia di morti si sente in diritto di bacchettare quelli che stanno affrontando un terremoto di più di 200.000 morti. O serva Italia che fai sentire i tuoi capi dei e poi loro ti trascinano all'inferno.
RispondiEliminaChe ne pensi Carlo?
Ciao
Orazio
Cit.:"In quale Heimat vive, oggi, la classe politica?"
RispondiEliminaL'articolo è, come tanti tuoi, emozionante.
La domanda che nasce è quella che cito qui sopra.
Qui, sul web, è sacrosanto confrontarsi con teorie non allineate con quello che il mainstream economico-politico-giornalistico propina al popolo bue con sistemica protervia...
...ma il singolo individuo, se non ha coscientemente fatto proprio il concetto di "posto dell'anima", dove realmente può andare a finire?
Quale il metro per misurare il presente ed il futuro se non capisci il "tuo" metro del "passato"?
Pazzia (magari lucida) per tanti fruitori di internet, vuoto culturale e morale per i politici (e giornalisti) contemporanei.
Con grandissima stima
Fabrizio
L'articolo - Orazio - steso a mo' di racconto ma con fini piuttosto seri, ci porta al "dopo" disastro, a come preparare qualcosa per gli anni futuri.
RispondiEliminaLa mia generazione può oramai fare poco: chi è in politica ha assorbito il pessimo andazzo e s'è abituato. Chi ne è fuori (come me) mai accetterebbe d'utilizzare gli anni della pensione per mettersi a raddrizzare chiodi storti: ho parlato con tanti della mia età, i più la pensano così.
Ci sono le generazioni fra, diciamo, il 1955 ed il 1975: queste, qualcosa possono, devono dare.
Per questa ragione, da un po' di tempo in qua, scivo articoli che hanno un "taglio" storiografico, per gettare un ponte fra le generazioni, il ponte che ha unito buoni propositi e limpida etica.
Il resto, come dici tu, è solo m...ed hai ragione.
Lasciamocelo alle spalle e cerchiamo di ritrovare, identificare, abitare "posti dell'anima" nuovi o comunque differenti da quelli che utilizzano la gran parte degli italiani: luoghi liberali, per l'umanesimo e la giustizia sociale.
Lavoriamo per il futuro, che noi non vedremo, ed in questo poco c'entra quel saltimnbanco che ci governa. E' un problema assai più vasto, che richiede cure radicali.
Ciao
Carlo
Mentre scrivevo il commento per Orazio è giunto quello di Fabrizio, per il quale la risposta non può essere molto diversa.
RispondiEliminaUna stretta al cuore prende, pensando ai tanti che nemmeno riescono a concepire un proprio "posto dell'anima". Che poi, bisogna trovarlo e coltivarlo.
Non possiamo salvare tutti - Fabrizio - perché tanti non vogliono proprio salire a bordo. Pazienza.
Domani, dopodomani, fra anni...piccoli gruppi - però solidi, cresciuti confrontando il proprio Heimat nell'incontro con le generazioni - saranno in grado di riproporre parole credibili, buone soluzioni, razionali speranze.
E' il nostro lavoro di oggi: chi fa veramente cultura, vive fuori del tempo.
Ciao
Carlo
Ciao Carlo, mi ci è voluto un po' ma sono riuscito a registrarmi, probabilmente con le tecnologie informatiche sono più imbranato di quel che pensavo. Che ti dico? "Complimenti per la trasmissione"? Se non fossi più che convinto ed ammirato di quello che scrivi e di come lo scrivi non ti starei a leggere da qualche anno a questa parte; di certo abbiamo avuto esperienze di vita - di cultura - di opinioni più diverse possibili, per non dire forse opposte ma quello che unisce e fa sentire vicini e' piu' forte, grazie a Dio. E tra queste cose più forti c' è il rispetto per l' altro... c' è forse quel qualcosa che una volta mi dicevano chiamarsi "buona educazione" e che mamma e papa' - maestri di scuola - zie - nonna e conoscenti vari ti insegnavano e volevano. Ed era qualcosa che non doveva essere falso o ipocrita ma doveva diventare una cosa normale, una abitudine che dopo ti saresti portato dietro..... Vecchie cose ormai superate? Può darsi, ma non mi pare che le abbiamo sostituite con qualcosa di meglio. Magari tutto questo non c' entra un accidente con quello che hai scritto ma intanto ci sentiamo, ciao, buon lavoro, con stima ed amicizia.
RispondiEliminaVedi - Corsaro Grigio - forse con l'educazione ed il rispetto non si costruiscono le maggioranze parlamentari, ma non conosco nessun impero dove l'educazione ed il rispetto non fossero tenuti in alto conto.
RispondiEliminaNon siamo qui per costruire imperi, ovvio, ma per ricostruire un plafond comune di valori condivisi e, soprattutto, praticati.
Per questa ragione, a volte, le storie di vita sono molto diverse: non è tanto importante.
Ciao
Carlo
Carlo al solito i tuoi post sono frutto di una empatia interna che solo pochi come te sanno descrivere.Il tuo racconto è bello, le tue conclusioni valide ma, quante persone sono in grado di saper ascoltare? Fermarsi ad ascoltare un racconto è più complesso che farlo poichè richiede la massima attenzione di chi ci troviamo davanti.Il web come espressione, i libri come mezzo di conoscenza tutto ciò è essenziale però.....
RispondiEliminaPrima o poi qualcuno dovrà attuare gli insegnamenti e li, bisognerà scendere in strada con tutto il carico di responsabilità e paura che comporta.Lasciami dire infine che non esiste nessuna terra completamente fertile perchè chi la cura non è perfetto. Prima o poi un compromesso con qualcosa o qualcuno lo dovremò trovare proprio perchè noi stessi siamo figli delle nostre imperfezioni.Ieri due fatti importanti sono accaduti 1) condanna in appello a 7 anni per toto Cuffaro riconoscendo cosi il suo favoreggiamento (non più semplice) alla mafia.
2) Vendola ha vinto le primarie in Puglia.
A mio modo di vedre sono due cose importantissime che testimoniano che è ancora possibile fare giustizia e che il popolo ancora può dire la sua (malgrado i partiti).
Non importa, Marco, quanti potranno ascoltare e capire. Il numero non ha importanza: è la forza delle idee ad averla.
RispondiEliminaLa prova la citi tu stesso: si potrà dire quel che si vuole di Vendola, però è un uomo intelligente, appassionato, che crede in quel che fa.
E va avanti, nonostante i mille bastoni fra le ruote che la sua stessa parte politica gli frappone.
Non è compito mio essere salvatore della Patria: io scrivo e basta, negli Heimat delle persone che s'incontrano in silenzio, e che sanno capirsi con il solo sguardo.
Domani, altri dovranno raccogliere il testimone.
Ciao
Carlo
Stupendo pezzo di storia d'Italia, che dovrebbe essere inserito nelle antologie scolastiche! Leggendolo, mi sono emozionato, informato, indignato, ispirato! Grazie!!!
RispondiEliminaP.S.: piccola correzione da fare: iltermine esatto è "vucciria".
Grazie, Zerovirgola niente, per l'apprezzamento e la correzione. Lo sentivo pronunciare da un amico siciliano (cioè, figlio d'immigrati siciliani a Torino) e così l'ho translitterato. Forse che l'amico è troppo "figlio" e poco siciliano? Non fa nulla: siccome farà parte dell'equipaggio della Gretel, ricorderò questo appunto. Alla prima guardia mancata, lo metterò ai ferri in sentina. -))
RispondiEliminaMi ha colpito il tuo nick, perché mi piace talvolta dissertare, con i miei studenti, la valenza dello zero e del nulla, proprio partendo dalla linguistica (gli "zero" italiani, francesi, inglesi... ed il tedesco "null").
So che esiste una precisa analisi matematico/filosofica sull'argomento (ne abbiamo una copia qui a scuola), ma non ho ancora trovato il tempo per leggerla.
Ciao e grazie
Carlo Bertani
Nel suo libro “Comunità immaginate”(1983), Benedict Anderson promuove l’idea per cui le nazioni sono inventate. Tale tesi ha ottenuto un riconoscimento sempre più vasto nell’impeto della ricerca sociopolitica degli ultimi anni. L’autore dice semplicemente: “la nazione è una comunità politica immaginata, in quanto gli abitanti della più piccola nazione non conosceranno mai la maggior parte dei loro compatrioti, né li incontreranno, né ne sentiranno mai parlare”(p.10). Ho sottolineato il verbo “incontrare” per avvicinare il modo con cui Anderson respinge il concetto del Vaterland a quello con cui Bertani promuove i “posti delle anime” che generano “i sinceri incontri”.
RispondiEliminaL’opposizione binaria tra questi due concetti, Vaterland e Heimat, aprì un ampio dibattito nella cultura tedesca settecentesca a partire dalla Haskalah (si pensi a Moses Mendelssohn). Non per nulla Heimat diventerà poi un leitmotiv nelle narrazioni di scrittori europei di origine ebraica del dopoguerra, si pensi ai viennesi Eva Menasse, Doron Rabinovici e Robert Schindel. Sarebbe interessante notare come accada lo spostamento dal Vaterland al Heimat anche nella letteratura araba dopo la sconfitta del ‘67. In “Carta d’identità”, il poeta palestinese Mahmoud Darwish abbandona il “discorso nasseriano” a favore della terra al quale si sente “teneramente legato”. Il siriano Nizar Qabbani, nella sua poesia “Aspettando un Godot arabo”, descrive l’uomo arabo disorientato, quasi esule nella sua patria. Critica severamente la classe politica araba, mettendo tutti i leader arabi, socialisti o filoamericani, sullo stesso piano come se traessero “le loro convinzioni dal medesimo Heimat”.
Tornando in Italia, ma restando nell’ambito del Heimat come diaspora o esilio, ci sarebbe da aggiungere forse il caso dell’immigrazione e le speranze rivolte alla “terra promessa”. Heimat non è più un luogo ma un percorso di vita. Lo sanno soprattutto gli esiliati: Edward Said, palestinese che è vissuto per lunghi anni in Usa, cita il critico Erich Auerbach, tedesco ma esule in Turchia: “La persona che trova dolce la propria terra natale è ancora un debole principiante; colui per il quale ogni terra è come la sua terra nativa è già forte; ma perfetto è colui per cui il mondo intero è una terra straniera. L’anima tenera fissa il suo amore su un luogo del mondo; la persona forte ha esteso il suo amore ad ogni luogo; l’uomo perfetto l’ha estinto.” (Cultura e imperialismo, p. 366-7). Un palestinese ed un ebreo, separati nel tempo e nello spazio, si incontrano, direbbe Bertani, nello stesso Heimat.
Mahmoud, Giordania.
p.s. Ho visto nei giorni scorsi sulla scicchissima raitre una trasmissione in cui il matrimonio misto appare come un pericolo da evitare. Vaterland 1 – Heimat 0.
complimenti sinceri carlo al post.
RispondiEliminami viene da pensare che oggi purtroppo c'è un bel po' di confusione e la gente difficilmente riesce a capire quel che succede con lucidità.
tipo: l'economia crea clandestini. nel senso che i datori di lavoro ovviamente per risparmiare adoperano manovalanza a basso costo. fornita appunto dai clandestini. e noi tutti viviamo in questa... "economia".
contemporaneamente c'indignamo e, in maniera contraria, vogliamo cacciare via i clandestini.
abbiamo capito, o forse è meglio dire percepito, che i clandestini sono pericolosi, dannosi, sporchi, maleducati e rubano il lavoro.
un controsenso, non ti pare? quindi mi viene da chiederti: in un mondo così contraddittorio è possibile trovare un heimat?
Ciò che più mi è piaciuto del tuo commento - Mahmud - è la frase "Heimat non è più un luogo ma un percorso di vita."
RispondiEliminaIn fin dei conti noi, generazioni del secondo Novecento, siamo quelle che hanno più perso identità. Arabi, europei, tutti.
Perciò, è forse più attinente parlare della ricerca di un Heimat, un luogo dove riottenere e ritrovare una base comune, condivisa, gradevole.
Certo, non è cosa di due giorni: d'altro canto, cosa ci rimane da fare?
I comportamenti che descrivi - ladnag - testimoniano proprio la mancanza di un Heimat, ossia di un chiaro percorso, condiviso. Senza quello, la contraddizione è la norma.
Ciao a tutti
Carlo
Eppure io sento molto il mio Vaterland, anche se ci ritorno raramente (e forse sara' per questo, per i lunghi periodi di assenza dal mio paese che ne sento la mancanza e quel senso di appartenza che confluisce nel concetto di radicamento al territorio).
RispondiEliminaConfesso però che il concetto di Heimat espresso nel post è seducente, ammaliante, trascendente la topologia, fino a diventare -credo giustamente- un percorso caratterizzante, segnato dalla qualità delle nostre relazioni sociali.
Sono queste ultime la misura della nostra "immortalità" laica.
La verifica l'abbiamo quando accompagnamo un amico, un parente, qualcuno insomma che ci ha dato qualcosa al miglio verde.
Sono queste le situazioni che permettono di riappropiarci del posto dell'anima, che ci arrichiscono di nuova energia per cominciare un'altra tappa
E il dolore diventa amore, fino a scoppiarne.
Doc
Eh sì, doc, perché come diceva Guccini "alla fine tutti avremo un metro di terreno".
RispondiEliminaA volte mi soffermo a riflettere su questi uomini di potere che s'azzuffano, oramai solo per il potere e per i soldi.
E, mi chiedo, di quale male soffrano.
Ciao
Carlo
Passo di tanto in tanto a leggere i suoi articoli. Questa volta sento il bisogno di ringraziarla per... il bicchiere di vino.
RispondiEliminacordialmente
Tommaso Palermo
Allora - Tom - alla salute!
RispondiEliminaCiao
Carlo Bertani
Carlo tutto ok "le tonsille"? Non so se avete ascoltato la conferenza stampa dei tre moschettieri Alfa, Berla e Mara in quel di Reggio dove la propaganda si è mostrata in tutto il suo splendore coadiuvata da un plotone di giornalisti dai quali la domanda più cattiva risultava quella di un giornalista di Ballarò (ed è tutto dire) che chiedeva al Kapò (Berluska) se non era il caso di rivedere questo conflitto istituzionale con la magistratura. Comunque volevo domandarti che ne pensi di questa agenzia di controllo dei beni confiscati alle mafie che andrebbe a sostituire il demanio per snellirne le procedure. Sai cosi propagata da un bell' effetto ma chi la gestisce? So che non centra nulla con il post ma sempre di terra si parla e la calabria ancora appartiene all' Italia ciao!
RispondiEliminaHai centrato il bersaglio - Marco - perché in Calabria Papi appoggia Scopelliti che vincerà, il quale avrà subito a disposizione il "gruzzolo" raggranellato da Maroni contro le mafie. Che, con la benedizione del Palazzo, tornerà a chi di dovere.
RispondiEliminaGli italiani, fottuti per l'ennesima volta con l'eleganza TV a 360°, ringraziano e dormono.
Ciao
PS: le "tonsille"? Come si dice...stavo meglio prima...
Quindi Carlo riconosci che Berlusconi è imbattibile e ormai ha rincitrullito gli italiani. Il suo potere è divenuto assoluto e dittatoriale. La scommessa è vinta, sento profumo di caffè.
RispondiEliminaCiao
Orazio
Da oggi alle Idi di Marzo c'è ancora un mese e mezzo. Nonostante la "duomata", vedremo.
RispondiEliminaCiao
Carlo
I giornali ed il perbenismo politico si scatenano contro Morgan (reo di ammettere un uso medico della cocaina) e John Terry (reo di avere tradito la moglie con una modella).
RispondiEliminaAl primo non permetteranno di partecipare al festival di San Remo con la sua canzone.
Al secondo hanno già tolto i gradi di capitano del Chelsea e rischia di non poter essere più convocato in nazionale.
La loro vera colpa è di non chiamarsi Silvio Berlusconi.
Altrimenti avrebbero tranquillamente potuto continuare ciò che facevano e fanno.
Ai due consiglierei, almeno, di iscriversi al PDL per avere adeguata copertura.
Garantita quella mediatica e politica.
Peccato che la modella amante di John Terry sia ampiamente maggiorenne e, sembra, non si sia mai compiaciuta a chiamarlo "Daddy".
A parte l'ironia, Carlo, quello che capita a vip NON unti dal Signore merita un commento serio?
Un salutone
Caro Halo:questa gente non merita i nostri commenti, merita solo il nostro disprezzo.
RispondiEliminaCiao
Carlo
Nel mezzo del '66 in un paesino del sub-appenino-Dauno ci furono le elezioni comunali.
RispondiEliminaPer la prima volta il Comune viene amministrato da una giunta di Sx (PSI+PCI).
Per la prima volta dopo la guerra viene aperta una sezione del PSI, guidato da un 23enne, entusiasta della Politica.
Ma subito il giovane e' costretto a fare i conti con gli interessi personali che spesso vanno oltre la moralità: fa una denuncia - al partito e alla magistratura- contro il proprio vice-sindaco ed altri esponenti della giunta.
La richiesta di espulsione dal partito viene barattata dalla direzione provinciale dalla in-opportunita' ...
Subito dopo arriva l'unificazione con il PSDI, ed il giovane si dimette da segretario e dal partito.
Alla fine del '67 il giovane chiude anche l'impresa costruita insieme a 2 amici (oggetto di molte offerte di lavoro da parte dei maggiorenti del partito che occupavano posti di potere) e torna a studiare andando all'universita': corona un vecchio sogno accantonato a suo tempo per mancanza di fondi.
Ed incontra il '68, in piena esplosione emozionale.
Nello stesso anno l'unificazione si sfascia e il giovane si sdoppia: all'universita e' un extra mentre al suo paesino e' un socialista (nei brevi ritagli di tempo che vi passa)unica scelòta possibile tra i due fondamentalismi: quello della locale chiesa cattolica e quello del PCI.
Poi, alla fine del 1971, in preparazione del congresso di Genova,una sera, in un piccolo paesino del sub-appennino ove facevo il porta-bandiera per la corrente di Lombardi, un vecchio Compagno, alla fine della discussione gli si avvicina e dopo avergli fatto i complimenti per la passione con cui aveva motivato tutto il suo intervento, gli dice:
caro compagno, mi dispiace tanto, ma vedi, anche nella tua parte, ormai, e' entrato il virus dell'interesse personale e/o dui clan; apri gli occhi!!
Dopo alcune indagini personali su alcuni esponenti della sua stessa parte, fu costretto ad ammettere che il vecchio Compagno aveva detto il vero: nel sottobosco dello scambio di posti nelle pubbliche amministrazioni - ospedali, istituti delle case popolari etc...-erano coinvolti anche esponenti della sinistra Lombardiana.
Dopo altro esposto, questa volta alla sola direzione prov. del partito, senza esito, il giovane abbandonò definitivamente il partito.
Nel campo dell'attività studentesca, la sua preparazione logico-scientifica lo salvo dal... Khalashnikov.
Intanto stava svolgendo una tesi di laurea in questioni di analisi armonica (dopo la ri-pacificazione con il titolare dell'istituto di analisi)ma, dopo la scoperta che non c'era posto per una sua attivita' di ricerca autonoma - rinunciò alla laurea (sarebbe stato il primo a laurearsi nel febbraio del 72 in 4 anni e una sessione....)
Considerazione finale.
Indubbiamente quella generazione ha perso nel tentare (troppo ingenuamente) di adeguare una realtà come quella italiana -che oltre ad essere già marcia, dipendeva strettamente da altre occulte realta' ben più forti di quanto loro immaginassero possibile- ad un sogno di libertà totale, anche dal proprio potere.
Doc
Caro doc, bellissima storia con amaro finale. E' la storia della nostra generazione, che oggi incontra - a volte - il dileggio dei giovani per essere stata sconfitta. Avessero provato loro, cosa ci trovammo davanti.
RispondiEliminaUn abbraccio
Carlo