21 febbraio 2009

Necrologi

In ogni redazione dei quotidiani ce n’è uno: appartato, che svolge meticolosamente il suo dovere, assecondando il cronografo del tempo che, inesorabilmente, scorre. Non è considerato una punta di diamante della letteratura, ma nel suo mestiere spesso è maestro: unico, insostituibile.
Scrive necrologi e “coccodrilli”, con penna mansueta e sempre misurata: talvolta, quando le esigenze dei committenti lo richiedono, stempera la sua arte in afflati di centellinato eroismo. Se il cliente lo domanda, se la situazione lo conforta, ma sempre con garbo e misura.

L’arte del necrologio non è la stessa sotto tutti i cieli: anche qui, troviamo stilemi e tradizioni letterarie, secondo il luogo e la storia che s’è arrovellata fra città e contrade, campanili e pulpiti.
Nei regni degli Angli, ad esempio, c’è ampio dibattito sulla pubblicità del necrologio: se esso debba essere il più possibile esaustivo sulle ultime condizioni del pre-defunto, e quale sia il limite al quale arrestarsi. Anche il Diritto vuole la sua parte, e la legislazione della privacy finisce per limare le unghie dei più generosi giornalisti che s’affidano, senza porsi limiti, all’arte, obbligandoli a fermarsi prima del conteggio delle garze emostatiche e dei sondini.
Altri, memori della concorrenza dei talk show, vorrebbero invece che la telecamera avesse l’ardire di penetrare fin sotto le coltri, per carpire – rendere pubblico, “partecipativo”, fino a Youtube – gli ultimi afflati di una vita che si spegne.
Nei paesi d’osservanza cattolica la tradizione impera e pone – direi, senza remore, “per fortuna” – dei limiti accettati universalmente: l’arte ne soffre, la necessità di comunicare la notizia pure, ma il buon gusto certamente ci guadagna.

E con questo spirito che c’appartiamo per scrivere il necrologio di due partiti, il primo già sistemato nella camera ardente, il secondo che ancora cammina, immemore della fine che l’attende.
Sul primo, nato con gravi malformazioni congenite, il compito è facile:

“Munito dei conforti religiosi, s’è oggi estinto il Partito Democratico. Parenti ed amici s’uniscono al cordoglio del suo ex segretario, vice-segretario, capo-sagrestano e ministri ombra tutti. Una prece”.

Fatto sintomatico è che questo necrologio è accettato dalla quasi totalità del partito, dalla base come dal vertice, dai Margheriti osservanti ai Diessini d’assalto, dalle giovani reclute appena entrate in Parlamento fino ai vecchi marpioni, che non trovano più spazio per incollare gli adesivi-ricordo delle legislature vissute. Solo Parisi, riteniamo, domanderebbe un ramo d’ulivo sui manifesti mortuari, ma si può capirlo: come ogni vero sardo trapiantato in Padania, soffre di una struggente nostalgia per la macchia mediterranea, della quale l’oleastro e l’olivo son principi.

Così, nel volgere di pochi giorni, saranno definitivamente staccati i sondini e si deciderà un eventuale prelievo d’organi: pare che gli esecutori testamentari siano già all’opera. L’unico riserbo è quello di fare tutto con molta calma e lontano dai riflettori, per non compromettersi con troppi Casini.
Per ciò che rimarrà del corpo esangue, si procederà come da statuto: dopo aver giocato a tutti i giochi “ombra” dello scenario politico – portavoce/ombra, tesoriere/ombra, ombrello/ombra, ecc – l’Ombra avrà il definitivo sopravvento.
Scompariranno nell’ombra anche quei tre milioni d’elettori i quali, credendo nel bonario sorriso modello “pizzeria al Testaccio” del Walterino, consegnarono per le primarie un euro ciascuno. Tre milioni di euro passati nell’ombra.

In ogni modo, non c’è da strapparsi le vesti: per chi ancora ha bisogno di questi riti propiziatori, delle kermesse annegate nei bagni di folla, di sudare nei sovraffollati centri-congressi e Palasport, una soluzione si trova.
Ora che il gioco delle scatole cinesi è concluso – il “passaggio del testimone” dalla Bolognina PDS alla Bolognetta DS, fino allo sbolognato PD – s’aprono interessanti orizzonti per il turismo politico.
I più gettonati saranno senz’altro i tour operator della Lega: il richiamo delle adunate campagnole – anche il barbecue ha il suo fascino – s’avvertirà, potente. Già su E-bay si notano i primi sintomi: la quotazione delle bandiere rosso-verdi e dei manifesti del Piddì è ai minimi, mentre salgono le richieste per gadget cornuti quali elmi gallici, scafandri giussanici e ampolle votive. Anche le aste per borchie e cuoi grezzi sono lievitate.

In questo mercato s’inserirà presto – probabilmente sorretta dall’associazione floricoltori del Ponente Ligure – la potente agenzia turistica del Biancofiore, che propone visite guidate ai musei del cilicio nell’Umbria Felix e cicloadunate per visitare i luoghi votivi della grande storia scudocrociata, da Avellino a Benevento, passando – per una benedizione ed un santino – da Ceppaloni, e terminare con un caffè a Nusco.

Qualcuno, probabilmente, dopo “Oriente Rosso” e “Sorgo Rosso” fonderà “Mare Nostrum Rosso”, con sede legale a Gallipoli: le proposte spaziano da lunghi bordi bolinieri sulle rotte dell’Egeo fino al misterioso oriente, che comprende anche una kermesse, e relativa regata, con lo Yacht Club di Hezbollah. L’unico approdo che il Gran Timoniere non potrà frequentare è il Kossovo, perché – si sa – “l’uccello che ci va, perde la penna”. Kosova amara.

Non rimarrà altro, quindi – se tralasciamo il mondo dei politici traghettati nel mercato dei tour operator – che il gran casermone berlusconiano da un lato e lo sparuto commando dipietrista arroccato sull’Appennino dall’altro, deciso a difendere Montenero di Bisaccia da qualsiasi attacco giunga dall’Ovest, dalle ceppaloniche terre.
Può darsi che la resistenza fra il Sannio e la Lucania offra ancora qualche spunto di politica urlacciata, qualche velleitario assalto all’arma giustizialista, pacche sulle spalle con Grillo e quant’altro, ma il destino è segnato.
Quando cadranno le roccaforti del Nord – e a Bologna e Firenze canteranno in coro “meno male che Silvio c’è” – anche il pervicace Masaniello dovrà capitolare: gole profonde già affermano che sia in atto un vigoroso restauro del castello di Canossa.

Per l’unico grande partito rimasto, come avviene per gli ultra-ottuagenari, il previdente giornalista di necrologi scrive un abbozzo, confidando d’avere il tempo per completarlo. Al momento dovuto.
Eppure, chi vive ancora i ritmi della natura, ben sa che il mezzodì già prelude al calar del sole, così come il ruggente solstizio di Giugno già scende, rotolando – lentamente, ma inesorabilmente – verso l’Equinozio d’Autunno.
Così, è naturale – in questo soleggiato “Sabato del villaggio” berlusconiano – che si guardi con malcelata compassione all’avversario nella polvere: non serve nemmeno il pollice verso del pubblico, giacché lo spettacolo era così deprimente che la gente aveva già lasciato da tempo gli spalti.
E, avendo letto di sfuggita Leopardi, il vincitore – rimasto solo nell’arena – non coglie la nota melanconica che sottolinea il continuo mutar degli eventi, la loro ciclicità in divenire, ma anche l’inesorabile parabola calante.
Eh sì, perché ora – “quando arrivò davanti al mare si senti un coglione, perchè non c'era più niente da conquistare” ricordate Vecchioni? – sovviene naturale un senso d’appagamento, che prelude al ritrarsi, come se non ci fosse più gusto nella tenzone.
In fin dei conti, il peggior nemico per Berlusconi sarà la solitudine.

L’uomo, cresciuto con solidi valori culturali – dal Readers’s Digest alle locandine che illustrano i prezzi del mercato immobiliare – è l’archetipo del lottatore di sumo italiota, colui che se la deve prendere sempre con qualcuno, altrimenti è perso. Già la scomparsa dei “comunisti” è stata una brutta “botta”: coccolava Bertinotti, offrendogli spazi gratuiti sulle sue reti, ma non è bastato. Conscio della sua inutilità storica, Faustino s’è tolto da solo la maschera dell’Ossigeno. Silvio, quel giorno, pianse.
Ora sarà solo ed avrà sempre meno nemici ai quali consegnare i frutti dei suoi fallimenti: il baratro dell’industria italiana affonda a ritmi superiori al 10% l’anno, il debito pubblico è tornato a correre ed ha sfondato il 111% rispetto ad un PIL sempre più smunto. Adesso, vai a dare a colpa a Prodi od a Walter: aspetta ogni giorno una mail da Gallipoli ma, dall’infinito azzurro dello Ionio, tutto tace.
Così, ci prova da solo, ma balbetta: anche il grande Totò, senza la “spalla” di Nino Taranto, perdeva, e quanto.

Per sua fortuna, la bufala dell’emergenza “sicurezza” ancora tiene, altrimenti non saprebbe più dove andare a parare: un giorno afferma che bisogna nazionalizzare le banche, quello seguente smentisce. Il Lunedì fa lingua in bocca con Confindustria, Martedì il suo governo li definisce dei “corvi”. Vanno bene i fondi pensione, ma va anche bene lasciare i soldi in azienda: più che Erasmo, consiglieremmo di ripassare Aristotele. Non riesce nemmeno più a blaterare quattro parole sui desaparecidos argentini senza finire in una gaffe: sono segni di disfacimento e, il buon giornalista di necrologi, prende nota ed aggiorna il file.
Lui, conscio di non avere più avversari da rintuzzare, perde anche la voglia di fare “cucù” alla Merkel, e persino le sue mediocri battute e barzellette non divertono più nessuno.
Non è trascorso ancora un anno da quando vinse trionfalmente le elezioni che già la popolarità s’incrina: di questo passo, arriverà alla fine della legislatura stremato, con l’olio di fegato di merluzzo pronto, nel taschino, e Scapagnini con le miracolose gocce in mano.

Cerca aiuto, ma sa che non lo potrà avere: dopo aver cannibalizzato qualsiasi pretendente, fino a mettere sotto scacco lo stesso simbolo della Lega Nord[1], è difficile incontrare qualcuno che possa consigliargli qualcosa d’interessante. Tette e culi a parte.
Ci sovviene, allora, il ricordo di una gongolante DC quando il PCI decise la storica “svolta” della Bolognina: fu chiaro a tutti, in quel momento, che il Biancofiore non aveva più avversari. Appena due anni dopo, però, i democristi si spartivano le sedie nella storica sede di Piazza del Gesù. Complice la situazione internazionale – ricorderà qualcuno – ma anche oggi, al riguardo, mica si scherza.
Sarà pure che le banche italiane siano state meno travolte dai bond tossici (tutto da verificare), però ci sembra che l’economia reale stia andando a rotoli, che più a rotoli non si può.

Il problema centrale della politica della tessera P2 n. 1816 (Berlusconi) è che, pur eseguendo istruzioni che arrivano dalla P2, P3, P4 o chissà quale P…si tratta di una politica che il piazzista di Arcore esegue a comando, senza comprendere che il piano di “rinascita democratica”, pensato negli anni ’70, oggi non ha più senso.
Quando avesse realizzato la completa sottomissione del Paese a quel folle progetto autoritario, avrebbe soltanto creato un Paese di lobotomizzati, una sorta di Cambogia dei Khmer rossi del terzo millennio, in piena Europa.
Con il potere assoluto, ma un Paese a pezzi – industria da terzo mondo, scuola azzerata, sanità claudicante, istituzioni corrotte, piani energetici fasulli, Web imbavagliato, ecc – cosa può riservare l’Italia a chi l’ha ridotta in tal stato?
Gli italiani – spiace costatarlo – sono poco avvezzi alla vera democrazia: da buoni sudditi, desiderano il “padre padrone” che li vezzeggi e li domini salvo poi, quando le cose vanno male, appenderlo a testa in giù.
E, la strada che l’uomo di Arcore ha scelto, cozza violentemente con le basi della democrazia: non si venga qui a raccontare che anche in Europa le cose vanno in questo modo. C’è una deriva autoritaria nell’intero continente, ma nulla che assomigli al potere mediatico e legislativo riuniti in una sola persona che vige a Roma. Chi lo afferma, all’estero non c’ha vissuto.

A margine, notiamo che quando il Cavaliere salì al potere nel 2001 capitò subito l’11 Settembre, mentre alla seconda “botta” – tralasciamo il lontano 1994 – siamo cascati nella peggior crisi economica degli ultimi secoli: che portasse un po’ di sfiga?

Tirare a campare in questo modo, senza avere nemmeno un’opposizione con la quale prendersela, sarebbe dura per tutti: oggi si sono inventati le “ronde padane”, domani s’inventeranno i giudici eletti dai sindaci, dopodomani la tassa sulla marchetta. Si può tirare avanti, in simili angustie?
Sì, si riesce, ma si naviga a vista e s’iniziano a perdere pezzi di credibilità, serpeggiano malcontenti e, nel frattempo, leader senza discendenza che navigano oramai verso gli ottanta, invecchiano.
Il buon giornalista di necrologi sa tastare il polso dei suoi committenti e valuta attentamente ogni parola, anche quelle sfuggite malamente di bocca. Che, oramai, sembrano un po’ troppe.
Piovono leggi e leggine che manco si fa in tempo a leggerle, perché è arrivata la riforma della riforma e la correzione in corso d’opera della stessa. Un Paese che non ha mai avuto soverchi problemi d’alcolismo, si trova imprigionato al punto di non poter più bere un bicchiere di vino al ristorante: intanto, gli ubriachi impazzano ed ammazzano più di prima. Non parliamo poi della cocaina, perché dovremmo cercarla molto, molto in alto, al punto che è stata rilevata nell’aria di Roma.

La parabola discendente ha il suo passo, un ben preciso step che il giornalista di necrologi ben conosce: quando non si sa più che pesci pigliare, ci s’aggrappa alla retorica. Ho ascoltato solo io, affermare da La Russa: “ci riprenderemo la Corsica?”. Tranquilli: era uno scherzo. L’Afghanistan, no.
L’ultimo passo, prima del crollo, è accompagnato dalle citazioni dotte – o, per lo meno, tali ritenute – …non sarà possibile far di meglio poiché “malatempora currunt”, “sic transit gloria mundi”, oppure “gli esami non finiscono mai”.
A quel punto, il buon giornalista di necrologi farà la punta alla matita e scriverà finalmente la copia definitiva, perché sarà sicuro che l’epilogo è prossimo:

Nel più assoluto riserbo, si è oggi spento il Partito delle Libertà. Ne ha dato l’annuncio, con una lettera ai principali quotidiani, la signora Veronica Lario in Berlusconi, preoccupata per l’assenza del marito, del quale non ha più notizie da tempo. Funzionari e politici del partito non hanno emanato dichiarazioni, semplicemente perché non sono mai esistiti. Alcuni personaggi dell’entourage del premier hanno dichiarato d’essere in partenza per l’Isola dei Famosi. Sui teleschermi, a reti unificate di Mediaset, vanno in onda da ore canzoni patriottiche e filmati d’archivio, che mostrano bagni di folla del leader Berlusconi. Gli italiani, pregano commossi e sperano di non dover rivedere, mai più, un così brutto film.”

Finalmente, gli italiani saranno liberati da questo assillo che li perseguita da decenni: essere di questo o di quello, di destra o di sinistra, credenti o laici, guelfi o ghibellini. Magari, ci si guadagna anche in salute.
Smessi gli abiti di questa politica, sarà possibile mettere in soffitta il vocabolo “riforme” e sostituirlo con un “teniamoci quel che c’è di buono, poi vedremo”. Sono più le vittime di decenni di “riforme” che quelle delle guerre mondiali.
Magari scopriremo che non era poi così difficile risolvere “problemi insolubili”: bastava un po’ di buon senso, non mantenere un milione di persone ad ufo, non regalare il frutto del proprio lavoro ai banchieri, costruire quel che serve e sbattersene allegramente del mercato. Magari è più facile di quel che si crede.
Finalmente, il buon giornalista di necrologi potrà spezzare la penna, poiché ci saranno due soli, veri partiti che si confronteranno ogni fine settimana, fino all’ultima goccia: quello della Birra e quello del Vino, tanto per imparare a volerci, di nuovo, un po’ di bene gli uni agli altri. Alla salute.

[1] Ascoltate Rosanna Sapori (ex giornalista della Padania) intervistata da Piero Ricca qui: http://forum.ilmeteo.it/showthread.php?t=42961 oppure qui: http://www.youtube.com/watch?v=nNt1ynM5t5A

15 febbraio 2009

Ma cos’è questa crisi?

L’aria che si respira, durante la riunione sindacale della CGIL, è pesante. Non si parla solo della frattura sindacale con CISL ed UIL, dei contratti di carta straccia, di leggi e leggine, le quali piovono sulla scuola come coriandoli in uno scenario che, di Carnevale, non ha nulla.
C’è il segretario provinciale, che tratteggia la situazione e sciorina dati: la cassa integrazione è triplicata in breve tempo, ed anche coloro i quali sono privi di qualsiasi protezione sociale aumentano, compresi i precari della scuola che rimarranno a spasso. Un camposanto.
Anche le frecciate sul piccolo ministro della Funzione Pubblica rimangono sullo sfondo, poiché la domanda che aleggia nell’aria – inespressa ma presente sui volti – è la stessa: dove andremo a finire?

I dati sul reale impatto della crisi economica si susseguono e s’accavallano: ciascuno cita una cifra più alta di quella del giorno prima, mentre il governo ha scelto la strada d’urlare più forte per tacitare i brusii. Se non basta proclamare urbi et orbi che esiste il traffico d’organi, si monta subito una bella disfida di Barletta su Eluana. Domani? Speriamo che il solito rumeno ne combini qualcuna, altrimenti siamo spiazzati. Ci salverà il Grande Fratello, ma è un’ancora di salvezza poco affidabile.
L’impressione che si ricava da questa crisi finanziaria è quella di una spada di Damocle sospesa, che non si sa con precisione quanto incombe e quando calerà con fragore.
Si scomodano, allora, i precedenti storici e, ovviamente, la crisi del ’29 la fa da padrone. Sarà sufficiente?
Gli aggettivi si sprecano: “epocale”, “imprevedibili effetti”, “catastrofica”…ma…le ragioni?
Certo, quelle più evidenti sono state chiarite: la creazione di ricchezza fasulla, di una montagna di carta straccia timbrata come moneta o certificato di credito, poi rivenduto, ecc. Perché è stato permesso? Qui, la cosa si complica, perché esiste un legame fra le guerre degli ultimi decenni e la cosiddetta “crisi finanziaria”.

Per capire le ragioni profonde ed importantissime di questa crisi – di questa punta dell’iceberg – potremmo partire all’incirca dall’anno di Grazia 1500, quando Cabral sbarca sulle coste del Mozambico e fonda le prime colonie portoghesi. Ho scritto “potremmo”, poiché le colonie oltre il Capo furono solo il seguito di quelle create ad Occidente del Capo di Buona Speranza, già nel XV secolo. Qual era la ragione di tanto ardire? Giungere alle isole delle spezie per mare, senza dover sottostare alle esose richieste dei mercanti arabi.
Quei piccoli borghi medievali fortificati sulle coste dell’Africa, rappresentarono un crinale della Storia: prima, Oriente ed Occidente erano appena consci della presenza, l’uno, dell’altro. Pochi anni dopo, iniziavano a confrontarsi.
Fino a quel momento, la Cina godeva d’alcuni primati tecnologici, soprattutto nella costruzione d’altiforni e nella chimica: la polvere da sparo fu una loro invenzione, anche se non ci sono prove storiche così certe.
In pochi anni, però, il primato passò all’Occidente: perché? Poiché era Cristiano.

Superiorità religiosa? No, più prosaicamente, una questione metallurgica: i Cristiani fabbricano campane, gli orientali i gong.
Se “allungate” un gong potrete ottenere al massimo un catino, mentre se “snellite” una campana otterrete un cannone: i primi fabbricanti di cannoni, già nel XIV secolo, erano tutti ex fonditori di campane.
Anche i cinesi usarono la polvere da sparo per la propulsione di lancio, ma utilizzarono i bambù come recipienti e – si comprende facilmente – un cilindro di ferro, più capiente e robusto di uno di bambù, lancerà più lontano un proiettile più pesante.
Ecco la "chiave”, una prima risposta per capire come mai l’Oriente diventò “territorio di caccia” per gli occidentali e non il contrario.
Le cronache riportano una lunga sequenza di “accordi commerciali” e “protettorati”, nati e cresciuti all’ombra di un vascello o di una cannoniera ancorati di fronte alle coste altrui.

I secoli seguenti vedono l’affermazione dapprima commerciale, poi decisamente coloniale, dell’Occidente: le Compagnie delle Indie ed i viceré nelle colonie sono carte dell’identico mazzo.
Ancora nell’800, le cannoniere americane di Perry (1854) “aprirono” le porte del Giappone, mentre quelle francesi servirono identica “portata” (con la battaglia navale di Fu-Chan, nel 1884) alla Cina.
La prima metà del ‘900 non muta lo scenario, mentre la seconda inizia con qualche sussulto: nel 1953, per convincere il riottoso Primo Ministro iraniano Mossadeq ad accettare le “generose” offerte delle compagnie petrolifere occidentali (il 6% agli iraniani, il 94% alla BP & soci), Eisenhower invia un emissario “speciale” – il generale Norman Schwarzkopf sr, ricordate questo nome? – il quale riesce, con un colpo di stato abilmente diretto da Washington, a cancellare ogni anelito d’equità nella ripartizione delle risorse iraniane.
Nel 1948 nasce Israele, il quale – oltre ad una serie di ragioni ben note relative al sionismo – ha il compito di “sentinella” per il Canale di Suez e per gli sviluppi del sistema d’approvvigionamento petrolifero, in questo coadiuvato dalla famiglia regnante degli Al Saud.
Il sistema neocoloniale ancora tiene: le piccole caravelle di Cabral continuano a segnare il tempo ed a riproporre la prassi dell’appropriazione, spesso truffaldina, delle risorse altrui. Ma i giorni passano.

La lunga guerra in Vietnam rivela, per la prima volta, che gli USA non sono invincibili, ma non è questo il “giro di boa”. Lentamente, l’Oriente si risveglia: in Occidente si ride, alla comparsa sulle bancarelle dei mercati rionali, delle bamboline in legno e pezza “made in China”. Ma guarda ‘sti cinesi…riusciranno a farle così bene perché hanno le mani piccole…
Nel 1991, un altro Norman Schwarzkoft (jr, il figlio del precedente “inviato” in Iran, buon sangue non mente) guida la “Felicissima Armada” che convince Saddam Hussein a “mollare” il Kuwait, e tutto sembra continuare come sempre: se alzi la testa, l’Occidente – unito – spara ad alzo zero.
Verrebbe da dire “e arriva l’11 Settembre”, ed invece non lo affermiamo proprio, perché c’entra poco o nulla.
Arrivano, invece, computer dalla Cina e software house dall’India: poi, tutto precipita. Dal Brasile all’Iran, dalla Malesia alla Russia, il “non-Occidente” si mette a fabbricare ed a commercializzare di tutto: elettronica, energia, meccanica, chimica…
Le caravelle di Cabral s’arenano e, con esse, cinque secoli di predominio mercantile e militare sul Pianeta.
La risposta?
Secondo copione, partono le cannoniere, ma ottengono ben poco: per comprendere in qual basso stato siano giunte le armi occidentali, basti pensare che, pochi giorni or sono, a Kabul hanno dato l’assalto al palazzo presidenziale. Karzai s’è salvato per miracolo, mentre l’Iraq è oramai un affare chiuso: un fallimento che attende solo l’Ufficiale Giudiziario.
La forza dell’Occidente, per questi cinque secoli, è stata sorretta da due aspetti: denaro e cannoni. I quali, se manca il denaro, servono a poco. E allora? Se non possiamo più stampare vagoni di carta moneta a ufo…creiamo ricchezza finanziaria fasulla!
Nel volgere di mezzo secolo, gli USA sono passati dal controllare il 50% del commercio mondiale al 20%, oggi forse ancora meno, e l’Europa non ha certo colmato quei vuoti.
Li stanno colmando legioni di uomini d’affari cinesi, indiani, brasiliani…che vendono di tutto, di tutto di più. Vendono perché fabbricano, fabbricano perché progettano, progettano perché studiano: noi, siamo ridotti a creare truffe.
Domandiamoci, allora, la natura di questa crisi partendo da tre ipotesi di “scuola” marxista:

1) Una crisi ciclica del capitalismo.
2) La crisi terminale del capitalismo.
3) Una crisi d’assestamento verso nuovi equilibri internazionali.

Abbiamo distinto le ipotesi 1 e 3, anche se presentano molti punti in comune, sulla base delle cause: endogene, ossia crisi di ristrutturazione degli apparati produttivi nel primo caso (modello anni ’70 del ‘900, ad esempio, oppure le grandi trasformazioni della seconda metà dell’Ottocento, ecc) e cause geopolitiche nel terzo, pur rendendoci conto che esistono parecchi aspetti interdipendenti fra i due fenomeni.

Un secondo aspetto, da approfondire, concerne l’analisi “tecnica” degli eventi, ossia le evoluzioni parallele dei fenomeni in atto, se confrontate con altri sconquassi economici del passato.
La crisi del 1929 ben si presta perché è vicina a noi – gli “attori” portano, a volte, quasi gli stessi nomi, gli Stati coinvolti pure, ecc – e, soprattutto, poiché consente d’analizzare gli eventi utilizzando i parametri dell’economia contemporanea.
Ci sono, ovviamente, delle differenze: ad esempio, all’epoca era ancora in vigore l’ancoraggio all’oro di parecchie monete, ma non è questo il fatto saliente.
Una crisi, se analizzata partendo dagli effetti puramente economici (parametri, ecc), può condurre a parallelismi che non hanno ragion d’essere poiché, come avviene per la diagnosi di una malattia, effetti simili od addirittura perfettamente sovrapponibili possono derivare da cause molto diverse. E’ questo il caso.

La crisi del 1929 non fu minimamente catalizzata da eventi esterni all’Occidente: nessuno, all’epoca, era in grado d’impensierire il commercio internazionale gestito dalle potenze dell’epoca. Tutti i Paesi, oggi emergenti, erano colonizzati od asserviti oppure, come l’URSS, alle prese con infiniti guai interni. Grandi Paesi come la Cina od il Brasile, nel commercio mondiale, valevano pressoché zero.
La crisi del 1929 rivelò i rischi di un capitalismo lasciato galoppare senza freni – le “bolle finanziarie” spadroneggiarono anche allora – ma era il contesto economico reale (la cosiddetta “Main Street”), ossia la potenzialità di ricchezza, la possibilità d’espansione economica ad essere diversa rispetto all’oggi.
Per questa ragione, ebbero successo le politiche keynesiane: la “Tennessee Valley” fu possibile perché lo Stato (per nulla indebitato) varò il deficit spending per incentivare l’agricoltura ed i trasporti negli stati del Sud.
Oggi, un ipotetico “piano” per “Silicon Valley” sarebbe improponibile perché Silicon Valley, nel nostro tempo, è in Cina, India, Malesia…
Queste premesse, ci portano a concludere che l’attuale crisi del capitalismo non è una crisi “terminale”, proprio perché – da qualche parte – esistono aree che possono ricevere nuova industrializzazione, incrementare i consumi, ecc.
Sull’altro versante, un simile spostamento di ricchezza, produzione, conoscenza, ricerca…non può “transitare” senza scossoni epocali: perdere cinque secoli di predominio, è un trauma equivalente alla caduta di un impero dell’antichità.

La fiaba, raccontata in tutte le salse, della produzione “diversificata” e globalizzata e, dall’altra, di una finanza accentrata in poche mani occidentali, sta svanendo come neve al sole.
L’opulenza della piazza finanziaria di Londra si consuma nell’evidenza dei licenziamenti, nelle banche salvate dalla mano pubblica, ossia in una partita di giro che vede caricare sulle spalle dei cittadini le perdite del sistema finanziario. Un partita di giro truccata, poiché a soffrire dei disastri finanziari è prevalentemente la parte più ricca della popolazione, mentre a subirne gli effetti saranno – con l’estinguersi dello stato sociale – i settori meno abbienti.
Mentre metà del Pianeta s’interroga su dilemmi di natura espansiva – finanziari, tecnologici, ambientali, ma sempre espansivi, poiché ci sono secoli di domanda interna da colmare – l’altra metà non trova risposte, perché quelle risposte esigerebbero proprio la presa di coscienza di un mondo non più “eurocentrico” oppure “amerocentrico”.
Al più, dopo i fallimenti della politica unilaterale di Bush, si torna a parlare di “multipolarismo”, ma il diritto di veto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU rimane solidamente ancorato nelle mani di cinque attori, tre dei quali sono potenze un tempo coloniali o neocoloniali: si stenta a comprendere che un “G20”, oggi, deve prender forma su piani d’assoluta parità.
Ancor più drammatico, è capire quale potrà essere il futuro di vecchie ed azzimate signore – un tempo padrone del pianeta – che oggi si ritrovano con le pezze al sedere. Premere sull’acceleratore dell’innovazione tecnologica?

Non si può certo rifiutare lo sforzo per la conoscenza, ma aspettarci grandi frutti da queste politiche è incerto, giacché bisogna fare i conti con la novità: non siamo più in testa, stiamo inseguendo.
Anche nel nuovo comparto energetico – l’unico che, forse, consente all’Occidente il vantaggio di un’incollatura – dobbiamo considerare che le potenzialità dell’Oriente – ricerca, finanza, produzione – crescono con numeri a due cifre, non con i nostri asfittici “0,…%”. Se i cinesi si mettessero a costruire pannelli solari, c’è da giurarci che in breve tempo li costruirebbero migliori ed a minor costo rispetto ai nostri.
L’unica sfida che l’Occidente dovrebbe accettare non è nella corsa economica o tecnologica: la presa di coscienza della propria condizione di “poveri in divenire”, dovrebbe accelerare il dibattito sulla distribuzione della ricchezza, sul valore stesso di “ricchezza”, sulla necessità d’essere “ricchi”.
In fin dei conti, restiamo Paesi “ricchi”: non ci mancano certo i beni primari e la protezione sociale, e siamo in grado d’avere anche un po’ di superfluo; ciò che non ci potremo più permettere, è di vivere credendoci nababbi hollywoodiani.

Roma fu invincibile e padrona assoluta per secoli: eppure Roma lasciò poco, mucchi di macerie che oggi chiamiamo “ruderi”. Atene non dominò quasi nulla, però i suoi fondamenti sono, ancora oggi, le basi della nostra conoscenza.
Diventa allora essenziale riportare il dibattito sui valori fondanti del nostro vivere: aspetti giuridici ed economici, difesa e rivalutazione dei grandi principi costituenti da un lato, serrato dibattito per riportare alla collettività le leve dell’economia.
Recentemente, un uomo politico italiano (poco importa chi è, la pensano quasi tutti così) ha dichiarato “di non essere attratto dalla decrescita”: “decrescita” non potrà più essere un vago concetto sul quale decidere “quoto” o “non quoto”, poiché ai cinesi frega assai di cosa “quotiamo”. E, se lasceremo fare al “mercato”, non otterremo mai risposte perché il “mercato” non prende in considerazione aspetti culturali: valuta l’incremento, o il decremento, e su quella base decide.
La decrescita, invece, non può fare a meno di una profonda rivisitazione – su basi culturali – del nostro vivere: solo dopo si potrà decidere se costruire autostrade od incrementare la ferrovia, se passare ad un sistema di produzione/consumo d’energia su piccola scala, se intervenire sull’obsolescenza dei beni, ecc.
La politica, insomma, senza valori culturali di riferimento, si riduce ad un mero esercizio di calcolo: di soldi, di voti, di favori.

Voglio portare un esempio che può sembrare provocatorio, e che non lo è per niente.
L’Italia è un Paese fortunato, fortunatissimo. Non abbiamo quasi petrolio, ed abbiamo industrie che anche altri hanno, spesso più solide delle nostre.
La Francia ha Versailles, la Spagna il Prado, la Russia l’Hermitage, la Germania i castelli del Reno…ma nessuno ha la reggia di Caserta, gli Uffizi, Venezia irripetibile, Roma mozzafiato, antichità greche, rinascimentali…anche il più sperduto borgo ha qualcosa che all’estero si sognano. Viviamo in un grande museo a cielo aperto.
E’ mai possibile che dobbiamo perdere terreno nei confronti d’altri Paesi europei proprio sul turismo?!? Ogni anno che passa, quando si fanno i conti sulla stagione turistica, è un fazzoletto di lacrime in più rispetto a quello precedente.
Eppure, gli studi sul turismo evidenziano che l’unico settore che “tiene” è quello dell’arte, soprattutto per i milioni di “nuovi ricchi” orientali. Non potremo mai fare concorrenza alle spiagge tropicali, mettiamocelo in testa: non riusciamo nemmeno a reggere il confronto con Spagna e Croazia.
Osserviamo, allora, l’importanza che l’Italia assegna al suo patrimonio artistico – il suo petrolio! – dai nomi dei ministri chiamati ad amministrarlo. Buio pesto, che più pesto non si può.
Dai palesi incompetenti – Bondi, Urbani – a quelli in altre faccende affaccendati, Veltroni e Rutelli: non uno che abbia fatto qualcosa, che abbia varato consistenti investimenti per la manutenzione e per il restauro d’altri, enormi patrimoni ancora sotterra o nei sotterranei dei musei.
Questi patrimoni, domani – se affiancati da una politica d’investimenti nei settori di supporto (alberghiero, ricettivo, ecc) – si potrebbero trasformare in milioni di posti di lavoro per tutti quegli italiani che non possono fare concorrenza ai cinesi nel produrre magliette e computer.
Perché non viene attuato nulla? Un caso? No, troppo semplice.

La ricchezza che si creerebbe, mettendo finalmente a frutto il nostro patrimonio artistico, sarebbe diffusa sul territorio, ne godrebbero milioni di “signori nessuno”, giovani senza lavoro, gente di mezza età che lo perde. In altre parole: noi. E’ lo stesso, perverso meccanismo che mette bastoni fra le ruote alla produzione energetica diffusa.
Ancora una volta, l’ostacolo è di natura culturale: la ricchezza diffusa (anche modesta) genera cittadini, quella dispensata dall’alto per non cadere in miseria, produce sudditi.
E, non sia mai, che ciò comporti una perdita di potere da parte di quel milione d’italiani che vive di politica, di mala politica, d’affari legati alla politica, poiché entrerebbe in contraddizione con il primo, vero articolo della nostra Costituzione:

Art. 1 bis: L’Italia è una repubblica oligarchica, fondata sul conflitto d’interesse e sul potere delle Caste.

Perciò, partendo da questo semplice esempio, possiamo capire ciò che c’attende per la cosiddetta “crisi economica” – che di strettamente economico ha ben poco – poiché l’economia (“governo della casa”) non è un dogma e tutti dovremmo parteciparvi. Non è accettabile dover sottostare ad imposizioni dettate da personaggi che fanno parte dello stesso mondo che fabbrica ricchezza fasulla! Perché un signore in doppiopetto di un’agenzia di rating – spesso collusa con le banche truffaldine – può decidere il futuro dei miei figli?
Per imbonirci, i politici nostrani usano strategie diversificate: si nasconde la testa sotto la sabbia (centro destra), oppure si vagheggiano astrusi parallelismi con la (per ora, tutta da verificare) politica di Obama (centro sinistra). In definitiva, ci raccontano solo un mare di frottole.
Nel primo caso, servono potenti anestetici (c’è il traffico d’organi! Eluana! Grande Fratello forever!) per tentare d’addormentare la popolazione sempre più stanca ed avvilita, mentre nel secondo si mesta nel torbido, perché è facile promettere una politica d’innovazione, soprattutto energetica, senza affrontare il nodo della gestione. A che servono, auto elettriche “targate” ENEL od ENI? A cambiare cappio, per strozzarci in un altro modo?

Non perdiamo altro tempo per analizzare, per spaccare il capello in quattro e conoscere finalmente il nome di colui che stampava carta straccia, e nemmeno se può essere più affidabile del suo socio: domani, potrebbero semplicemente scambiarsi la scrivania. Il passaggio storico è di quelli da far rizzare i capelli – questo è da tenere in primo piano! – e non sono stati i trucchi di quattro banchieri a generare il disastro: c’era già prima.
Ciò che la Storia c’insegna, è che questi enormi mutamenti richiedono la nostra attiva partecipazione: nuove idee, nuovi stili, nuovi obiettivi.
Ci arriveremo? Senza dubbio, ma la Storia ci racconta anche qual è il discrimine, il crinale che separa l’accettazione supina dalla fattiva elaborazione: milioni di morti.

14 febbraio 2009

Comunicazioni di servizio 2

La ragione del ritiro del video era un'errata sincronizzazione del suono con le immagini. Nuovo link:
Scusate per il disguido
Carlo Bertani

11 febbraio 2009

Comunicazione di servizio

Vorrei segnalare ai lettori questa intervista:
della giornalista Rosanna Sapori, al sottoscritto, sul traffico d'organi.
L'intervista è andata in onda su Telenordest ed è disponibile su Youtube all'indirizzo sopra citato.
Saluti a tutti
Carlo Bertani

09 febbraio 2009

Condoglianze

Caro sig. Englaro,
ho appena letto sulle edizioni elettroniche dei giornali che sua figlia è deceduta, ed il pianto mi ha colto, improvviso.
Anch’io, padre come lei, soffro per la morte di sua figlia e non riesco nemmeno lontanamente ad immaginare il dolore, straziante, che la sua famiglia ha dovuto sopportare per così lunghi anni.
In questi giorni, sono rimasto inorridito e silente di fronte a tanto orrore che ci è stato – le è stato – propinato gratuitamente da questo branco assetato di potere, che ancora osiamo chiamare “classe politica”. Tutto questo, mentre lei dialogava ogni istante con la morte.
Per questa ragione, le voglio inviare – unitamente al mio cordoglio – delle scuse: come padre, come uomo, come italiano, per non essere riuscito a fare abbastanza per proteggerla da questi sciacalli del dolore altrui.
Le rimarranno – se mi posso permettere – i bei ricordi di Eluana bambina e ragazza, che sono certo – come ogni padre – lei conserverà in un angolo del suo cuore.
Li coltivi, li coccoli – signor Englaro – perché quelli, nonostante tutto, non riusciranno mai a portarglieli via.
La lascio con un forte abbraccio ed una carezza per Eluana, che adesso vola libera, nel vento.
Carlo Bertani

05 febbraio 2009

Il furto degli archetipi

Ogni forma che tu vedi ha il suo archetipo nel mondo senza spazio.
Se la forma perisce, non importa, l'originale è eterno
."
Jalad ud Din Rumi – Persia – secolo XIII

Spesso, le sere nelle quali vaghiamo fra domande senza risposte, nelle selve dei punti interrogativi, sono destinate a rimanere tali. Sconsolante – vero? – ma, il più delle volte, così è.
Gli orizzonti si susseguono, l’uno dopo l’altro e li valichiamo con gli stivali delle sette leghe, con la velocità del vento che ci sospinge. Oltrepassiamo interi universi senza renderci conto dei tesori che contenevano.
E’ così anche questa sera, con i primi fiocchi di neve che trapuntano il cielo, e mi domando se – ancora una volta, per spostarci – saremo abbandonati a noi stessi ed ai misteriosi protocolli della burocrazia. Globalizzata anch’essa.

Un tempo – quando gli uomini si fidanzavano ogni giorno con la natura – la neve era un avvertimento soffice, l’invito a soffermarsi un momento nell’aia, oppure a perdere fanciullescamente il senno fra i gorghi della polenta che cuoceva nel paiolo, ribollente di schizzi.
Venne poi l’era nella quale tutto era sacrificato alla produzione – perché produr si deve, produr bisogna – e s’iniziò a non guardare più in faccia né al vento, né alle stagioni. C’era, almeno, la giustificazione che tot automobili e tot pezze di lana trepidavano nella vigilia di prender forma, poiché erano attese.
Oggi, osservo i tetti del borgo e – con l’immaginazione – valico soffitte ed appartamenti abbandonati da decenni, per accompagnarmi – folletto invadente – a chi sotto quei tetti vive. Scopro così, mentre volteggio ancorato alla mia corda d’argento, sguardi persi su pallidi schermi, sonni accompagnati da minute pasticche, religiosi afflati consegnati a minuscoli lumi votivi, che illuminano fiocamente sbiadite immagini d’antichi santi.
Nel freddo, contenuto dalla neve del mattino, la mia è una delle poche auto a spostarsi: segno che nessuno deve recarsi al lavoro. Legioni di pensionati attendono – nei loro grandi appartamenti del tempo che fu, quando risa accompagnavano il canto di giovanette in età da marito – il solo, grande avvenimento che possono aspettare. Che avverrà col caldo di Giugno o nel freddo di Gennaio, ma sempre all’uscita principale dell’antica cattedrale.

Eppure, nonostante le condizioni del tempo siano quasi proibitive, il senso del dovere ci chiama per raggiungere una scuola annoiata, con metà o ancor meno dei presenti: a nulla servirà tanta dedizione. Le poche fabbriche che tentano ancora di produrre qualcosa, lo fanno in condizioni di lavoro che ci hanno quasi riportato indietro nel tempo: la sicurezza è sacrificata all’altare della produzione ad ogni costo, e quei prodotti non sempre sono attesi. Bisogna allora forzare la mano e creare inesistenti attese, accorciare la durata d’ogni bene affinché sia usurato prima possibile, poiché prima del tempo si distrugga[1].
Conosciamo bene questo percorso, ed è inutile riproporlo: era solo per segnare con una tacca l’inizio dei nostri ragionamenti, del nostro vagare fra le pagine elettroniche.
Eppure, nonostante in molti s’inizi a comprendere che la corsa dell’umanità è oramai folle, non si riesce a rallentare l’ingranaggio che – Charlie Chaplin c’avvertì con largo anticipo, in “Tempi moderni” – ci sta stritolando.

Noi, eteree figure che scriviamo sul Web e che firmiamo con nomi veri – i quali corrispondono a persone in carne ed ossa – assistiamo impotenti alla scarsa incidenza dei nostri sforzi. I nomi sono i soliti, quelli che si leggono su molti siti e blog, e non li nomino per non scontentare nessuno.
Tra di noi, talvolta ci si conosce personalmente, mentre nella maggioranza dei casi si hanno contatti via Web: una mail per avvertire di un incontro, un ringraziamento, qualche elogio per un brano ben scritto.
Sull’altro piatto della bilancia, un po’ d’esibizionismo, qualche complesso da “primadonna” e – per fortuna molto raramente – qualche lama che s’incrocia. E che lascia solo una scia evanescente, d’elettronico inchiostro.
Viene allora la domanda, che talvolta chi legge si chiede e pretende, sul perché “non ci mettiamo insieme”, non riusciamo a costruire qualcosa. Me lo sono chiesto anch’io, tante volte.

Chi legge – oramai l’abbiamo capito – crede nella gran parte dei principi esposti: una sorta di “controcultura” prende forma, a testimoniare che sulla gran parte delle cose la pensiamo allo stesso modo.
Il problema, che qualcuno recentemente citava a proposito di Beppe Grillo – sostenendo che il comico genovese avesse perso “l’attimo fuggente” per fare “massa critica” contro il sistema delle Caste – rimanda allora alla creazione di cultura, con una domanda: può, la cultura, divenire in qualche modo “massa critica”?
E, qui, ci scontriamo con un dilemma di denominazione, ossia definire cosa sia la cultura e, di riflesso, chi siano coloro che tentano di produrla.
Chi produce cultura, almeno in Italia, viene definito “intellettuale”, termine – a mio avviso – un po’ desueto, poiché dovremmo stabilire se i cori di trombe di regime siano, anch’essi, “cultura”. Maurizio Costanzo fa cultura? O intrattenimento? E Santoro?

Un primo aiuto, per me molto chiaro, viene dalla definizione di “intellettuale organico” che dà Costanzo Preve, ossia di uno studioso che è organico – e, oggi, non solo per il pensiero – con una parte politica.
Essere “organici” non è un peccato mortale, però ciò distingue l’intellettuale dallo studioso, il quale potrà – ad esempio – riformulare le sue analisi, senza temere gli strali della nomenklatura.
Stabilito che le frange estreme dell’elettorato italiano non hanno più referenti politici, la “organicità” dell’intellettualismo italiano (sempre nell’accezione di Preve) è quindi condannata a convivere con poche forze politiche, che sono tutte plaudenti al “mercato” ed alla globalizzazione, pur sapendo che la gran parte dei guai che ci affliggono è da lì che vengono. Ma, essendo “organici”, non hanno scampo.
Potranno “limare” fin che desiderano gli aggettivi, dar sfoggio di potenza espressiva, ma non riusciranno mai a forare il cielo, perché sanno che oltrepassare la coltre di nubi li condurrebbe, inesorabilmente, fra i perdenti, a trasmutarsi in soli “studiosi”.
E coloro che non sono “organici” – e quindi non “intellettuali” ma solo “studiosi” – quale compito si trovano ad affrontare?

Spesso, s’avvertono fra i commentatori strali di critiche gratuite: si distingue chiaramente chi pondera attentamente ciò che si scrive da chi è sorretto solo dal desiderio d’apparire. O, peggio, da chi replica – ben protetto da astrusi nick – dalla segreteria di un partito.
Questa precisazione può apparire superflua o, in alcuni casi, offensiva, ma è necessaria per il proseguo della nostra analisi.
Chi non è targato qualcosa, intravede orizzonti immensi da percorrere, ma si trova anche desolatamente solo nel dipingere ciò che osserva, quasi senza riscontro né riferimenti. Magari, qualcuno si sforzasse di replicare proseguendo su quel percorso.
Quando scriviamo di decrescita, di truffe sulla moneta, d’attentati ai valori fondanti della Costituzione, sul lavoro, sull’energia, l’istruzione, la giustizia…finiamo per ripercorrere un sentiero dal quale osserviamo molteplici aspetti della rovina morale, economica e politica del nostro Paese (e dell’intero Pianeta).
A forza di raccontare nequizie, provare tesi scomode e dipanare le ingarbugliate matasse dell’informazione di regime, si è spossati, stanchi, anche un po’ depressi.
E’, allora, proprio in queste sere perdute che ci viene in mente d’abbandonarci alla ricettività: basta scrivere, basta dissertare. Ascoltare.

Così, getti nella feritoia un dvd e guardi un film, non sapendo se ti metterà sonno o se ti donerà qualcosa. In entrambi i casi, qualcosa c’avrai guadagnato.
Il film è “Fiorile” dei fratelli Taviani[2]: almeno, prima d’affidarti, scegli qualcuno che dia affidamento.
E cavalchi, senza accorgertene, in due secoli di profonda Toscana, ch’è sempre stata il concentrato d’emozioni ribollenti e genuine, narrate senza mediazioni, come solo la scuola del Sommo poteva donare.
Il ricucire gli accadimenti storici, abbinandoli alle vite vissute, è prassi del cinema di qualità: “Novecento” o “Barry Lindon” hanno usato la stessa metrica, accomunati da grandi firme della regia cinematografica.

Queste “cavalcate” fra i secoli, spesso, sono guardate con troppa distanza: comprendo che chi oggi è giovane stenta a trovare legami con quei mondi, ma chi ha vissuto i tempi ed i ritmi del vecchio mondo agreste, ritrova quei legami. Seduto sulla sponda di un carro trainato da un mulo, raccoglievo le drupe d’uva spina dalla siepe al ritmo ballonzolante di un mezzo ch’era esattamente uguale ai carriaggi che si vedono, oggi, solo nei film d’epoca.
Cos’altro ci lega alla nostra Storia? Non le cronache narrate nei libri – toccano corde ancora troppo superficiali – bensì quelle emozioni che dischiudono una lacrima, che sospirano l’animo. Qualcosa ha insegnato De André, operando su storie antiche – pensiamo a Creuza de ma, sorprendentemente il suo album più venduto – che ci riportano all’oggi, a qualcosa che sopravvive dentro di noi, mentre conduciamo questa vita forsennata nella quale nessuno è più “qualcosa”. “Fare tutto è diventato un’esigenza”, ricordava Ivano Fossati.

Dobbiamo allora domandarci – come “studiosi” liberi da ogni marchio – perché certe scene di un film scatenano emozioni, strappano lacrime, amareggiano, lasciano l’animo colmo di gioia. Sono emersioni di sentimenti che non si possono addurre soltanto alle storie individuali – non apriamo qui, per favore, antichi dibattiti fra sociologia e psicologia – perché vanno ad incidere più nel profondo.
Il cinema ci presenta figure incastonate nei loro vissuti: eppure, trepidiamo, c’arrabbiamo, soffriamo. Qui la Gestalt è scavalcata perché non c’è spazio per crearla: rimane solo una possibilità, l’idem o l’alter con il personaggio. Se non scattano né l’uno e né l’altro, scatta il dito sul telecomando ed andiamo a letto.
In che modo, però, c’identifichiamo? E con quali parti dei personaggi – che sappiamo benissimo essere professionisti della scena, ma in quel momento non importa – finiamo per identificarci, per compiere un tratto di percorso insieme a loro, nella Roma imperiale o nel Giappone medievale?

A restringerle un poco, non sono molte: il sacerdote (o saggio, stregone, monaco errante, ecc), il guerriero (eroe, coraggio, rettitudine, ecc), il mercante (sagacia, astuzia, ponderatezza, ecc) e poche altre. Più facile l’identificazione maschile (la Storia è stata fatta e scritta prevalentemente da uomini), più difficile, e ristretta a poche figure, quella femminile.
Qui s’aprirebbe uno spiraglio assai interessante: come può, l’universo femminile oramai slegato dai simboli tradizionali, trovare figure di riferimento che non siano legate al focolare? Si chiede alla donna d’essere qualcuno che non ha passato, e si desidera assegnarle compiti che sono, per lei, nuovi? Ci sarebbe materiale per un altro articolo.
Le figure archetipe, invece – i riferimenti arcaici – per la popolazione maschile esistono, e sopravvivono in posture dell’animo oramai nascoste, perché il cammino della nostra civiltà ha dovuto frantumarle.
E’ stato un percorso graduale, che ha condotto l’umanità a dimenticare – anno dopo anno – i suoi riferimenti arcaici.

La perdita degli archetipi non può essere sottovalutata, soprattutto da coloro i quali addossano tutte le responsabilità dell’attuale crisi (che è una crisi di civiltà, non di società) a semplici fattori economici. Se così fosse, sorgerebbero – potenti – dal corpo sociale precise ed organiche richieste di cambiamento, e sarebbero dinamiche positive ed inarrestabili, nonostante la censura mediatica.
Invece, le proposte sono frammentarie e sconclusionate: e, questo, avviene da parte di chi le propone, ma anche dalla confusione di chi ascolta e, a sua volta, ripropone “aggiustamenti” con un semplice meccanismo di scelta multipla, quasi si trattasse di un test. Insomma, “quoto” e “non quoto”, e finisce lì.

Se la civiltà occidentale s’afferma col mercantilismo, prosegue con il colonialismo, la rivoluzione industriale e, infine, entra in crisi proprio per la ri-proposizione acritica di modelli non più attuali, nel corpo sociale non esistono più valori di riferimento per una critica fondata – e dunque, “forte” – e quindi fruttuosa per sua stessa natura. Nel panorama variegato della civiltà occidentale, iniziano a crollare quelli che furono i suoi valori fondanti: la religione, ad esempio, ridotta a semplice secolarizzazione e sbiadito spettacolo dell’evento devozionale e filosofico. Per salvare il salvabile, s’elegge un nero alla presidenza americana e si “sdogana” il seminario di Lefebvre, ma lo sfondo rimane il medesimo.
La cultura va in crisi perché il controllo della stessa avviene mediante complessi meccanismi di coercizione economica, a loro volta diretti dal potere politico, ma non dimentichiamo che si tratta di un aspetto dialettico: i “controllori” non sono soltanto il misero prodotto di un processo, una società segreta, un manipolo di nuovi “carbonari” che si riuniscono a Davos. Prima di giungere a quel punto, hanno maturato in loro stessi la perfetta condizione di smarrimento dell’archetipo, dello scrittore e del politico, del filosofo e dell’economista. Si rifugiano, allora, nella stregonesca credenza che il mercato possa tutto sanare: ma, questa impostazione, è la resa totale dei loro archetipi, che avevano anzitempo smarrito.
Quali potrebbero essere le risposte?
Prima, l’analisi, altrimenti non si va da nessuna parte.

L’Europa ha vissuto due rivoluzioni: la prima – 1789 – tentò di cancellare i residui del mondo medievale e ci riuscì, “uscendo” con la creazione della nuova aristocrazia napoleonica. La quale, non essendo più il prodotto di millenarie casate e nemmeno giustificata per diritto divino, si poneva proprio come contraddizione aperta e lampante con il passato, senza che gli attori dell’epoca n’avessero, probabilmente, compiuta coscienza.
La seconda – 1917 – partì con giustificazioni teoriche apparentemente solide, ma avvenne in una nazione impreparata a riceverle: Marx, immaginava la rivoluzione socialista in Germania o (con minore probabilità) in Gran Bretagna.
Invece, fu creata una nuova borghesia – la burocrazia del PCUS – che sopperì alla secolare mancanza di quel ceto nella Russia zarista: fu una sorta d’attuazione (con le ovvie differenze) del dettato decabrista di quasi un secolo prima. Al punto che, la nomenklatura sovietica, intitolò agli antichi rivoluzionari ottocenteschi un’isola nel Golfo di Finlandia.
La nuova borghesia sovietica portò a compimento un processo (con tutti gli errori del caso, ovviamente) e consegnò al III Millennio una nazione con strutture e cultura abbastanza simili al resto d’Europa.
Ma, ricordiamo, non ci fu nessuna rivoluzione socialista.

Cosa attende, oggi, il Pianeta per ripartire? Noi, nessun altro.
Aspetta una nuova generazione di “intellettuali” – questa volta non “studiosi” perché nuovamente organici a fresche scuole di pensiero e rinnovate formazioni politiche, addirittura “ideologiche”, potremmo azzardare – la quale stenda, con dovizia di prove, il certificato di morte della civiltà mercantile per come la conosciamo da almeno cinque secoli. Una “balletta”, ovviamente.
Quindi, ripartendo da quel “certificato”, sgombri le macerie di un falso intellettualismo e ne stenda le basi per crearne, infine, uno totalmente nuovo.
Ovvio che le questioni economiche sarebbero le prime a venire al pettine, ma anche sul concetto di decrescita ci vorrebbe un bel dibattito: non tutti assegnano al termine l’identico significato.
E – l’uomo che torna a prendere su di sé la responsabilità di quel che si produce, di come produrlo e quanto produrne – potrà sorvolare tranquillamente sulle simbiosi/interazioni/contraddizioni che il nuovo modello imporrà nel sociale?
Poiché, per uscire dall’attuale, terrificante parabola calante del mercantilismo (da alcuni definita, proprio in termini spregiativi, “mercatismo”) non ci può essere che una presa di coscienza: solo noi possiamo decidere quante automobili servono, quanto dovranno durare, chi e come dovrà produrle…altrimenti, l’attuale fase – oramai marcescente – della globalizzazione ci trascinerà in un vortice terrificante di guerre, ingiustizie planetarie, disastri economici, ambientali, sociali.
La responsabilità è ardua. Affrontabile? In tutta coscienza, non lo so. Perché?

Poiché, nel frattempo, sono stati frantumati – sono stati proprio spezzati gli stampi – gli archetipi fondanti dell’ordinamento sociale. Non si tratta di semplici defaillance del modello: esso, è proprio tramontato.
Il funzionario austro-ungarico è ricordato per antonomasia come l’archetipo fondante dell’integerrimo impero multietnico, e fu bersaglio dell’ironia risorgimentale italiana. Raffigurato come un codino e sparagnino esecutore del potere asburgico, in realtà era una figura forte, che avvertiva l’importanza della sua funzione. A sua volta, la burocrazia imperiale riconosceva ampiamente e sotto molti aspetti (economici, normativi, ecc) l’importanza dei funzionari, come insostituibili “tasselli” della costruzione imperiale. Dunque, come i Mandarini cinesi, il funzionario asburgico rappresenta in qualche modo un archetipo.

L’insegnamento fu, per molto tempo, considerato quasi una “missione”, al pari del medico, e non un semplice “mestiere”. Quasi un’arte.
C’era, da parte dello Stato, il riconoscimento di questa figura mediante un trattamento economico e normativo che la favoriva, che le riconosceva l’importanza del suo agire.
Con questo, non si vuol affermare che non siano esistiti pessimi insegnanti (probabilmente esistettero anche in passato, ma solo le “vette” sono ricordate), ma che l’archetipo dell’insegnante era, almeno, preservato. Oggi, gli insegnanti ricevono gli adeguamenti salariali sulla base della tabella “operai-impiegati-insegnanti”: il che, la dice lunga sul loro prestigio sociale. Vengono mantenuti in servizio fino a 65 anni, poiché nessuno prende mai in considerazione le difficoltà – oggettive – che esistono nel dialogo fra le generazioni. Perché non fanno cantare i tenori o le soprano fino a 65 anni? Poiché i risultati sarebbero deludenti ed acclarati, mentre fra le mura delle scuole non si sa cosa avviene. In ogni modo, l’archetipo è oramai frantumato.

Ho assistito, casualmente, alla distruzione di un archetipo.
Il ferroviere era anch’esso figura archetipa: era colui al quale ci s’affidava per giungere a destinazione.
Chiedendo lumi sulla soppressione di un treno, dovetti assistere ad una scena che mi fece stringere il cuore:
«Un tempo – raccontava il capostazione – per sopprimere un treno ci dovevano essere validissime ed insuperabili motivazioni. Oggi, basta che manchi una persona in più nell’organico e sopprimono. Guardi – continuava – fra due anni andrò in pensione e non vedo l’ora: questo non è più lavorare, questo è diventato un inferno, oppure una barzelletta». Ciò che narrava, non era la débacle delle Ferrovie Italiane, era la frantumazione – che percepiva soffrendo – della sua dignità di lavoratore: era il suo archetipo che andava in pezzi.

L’archetipo del funzionario onesto e capace – il quale tenterà magari di riattare l’esistente, cercando le soluzioni meno onerose – quello dell’insegnate che cercherà di forgiare spiriti liberi, critici e responsabili, e quello del ferroviere che avrà come primo obiettivo far in modo che i viaggiatori trovino i treni ad attenderli, sono vere e proprie iatture per il “mercatismo”. Poiché non riconoscono il vuoto, inesistente, falso modello del banchiere contemporaneo, espropriato anch’esso del suo archetipo – ossia del banchiere che non fornisce più denaro per catalizzare la creazione di beni, bensì s’adopera solamente ad inventare truffe destinate ad incrementare una massa monetaria fittizia e truffaldina – come il deus ex machina al quale tutto deve sottostare.
Gli archetipi originari, entrano in collisione con queste “raffigurazioni” imposte dal circuito mediatico, ed assorbite – purtroppo, la popolazione non ha scampo! – a largo spettro: vengono, inesorabilmente, distrutti.

In questo scenario, una manciata di “studiosi” cerca almeno di dipingere l’esistente – non può avere, oggi, i mezzi per soluzioni salvifiche! Solo qualche accenno! – e si trova esposta alla critica di critici che hanno smarrito, a loro volta, “l’archetipo” del critico. Altro che “quoto” e “non quoto”: provare per credere.

[1] Lo scorso Ottobre, ai primi allarmi per la crisi economica, un alto dirigente della Skoda (l’una vale l’altra…) dichiarò che bisognava “seriamente iniziare a pensare a ridurre la vita media di un’autovettura a sette anni”.
[2] Non voglio, qui, mostrare il legame fra l’articolo ed il film. Chi l’ha visto capirà, chi non l’ha visto, riceverà un suggerimento per guardarlo.