Devo confessare che ho provato una stretta al cuore, fissando lo sguardo di quel ragazzo – Vito Scafidi – morto tragicamente nel crollo del soffitto in un liceo di Rivoli. Sarà perché di qualche morte tragica – dopo tanti anni d’insegnamento – sono stato, ahimè, spettatore attonito e ricordo la triste liturgia di quei casi.
Motorino od auto, talvolta una bieca malattia, strappano ai genitori ed a noi insegnanti qualche giovane vita, un paio d’occhi ammiccanti, talvolta sbarazzini, sempre curiosi sguardi d’adolescente.
Il copione è sempre lo stesso: la bara sistemata al centro di una struttura (talvolta a casa o in ospedale) ed una classe tremante che – appoggiata al muro per lunghe ore – piange, consola, ricorda.
La prima badilata sul viso che la vita ti dà è, in certe circostanze, questa: la perdita, repentina, dell’illusione dell’immortalità. A 17 anni non si muore, non si dovrebbe. Eppure avviene.
Poi, mesi per recuperare il salvabile, cercare – nessuno di noi ha magiche ricette in tasca – di metabolizzare l’accaduto, perché la classe è un organismo vero e proprio, complesso, sempre diverso, che quando perde una mano od un piede urla di dolore.
Se, poi, la morte avviene per mano degli adulti – o, perlomeno, così viene percepita – allora…apriti Cielo! Sale la rabbia contro qualcosa o qualcuno – che è tipico dell’adolescenza, sempre ribelle – e quel qualcosa o qualcuno si trasfigura nella perversa Crudelia Demon, nel malvagio Capitan Uncino, nel sanguinario principe Vlad di turno.
Per noi adulti la questione si pone in altro modo. Se scorriamo le statistiche sulla sicurezza nelle nostre scuole, c’è da rabbrividire[1]: la metà di esse – i luoghi dove inviamo, fiduciosi, i nostri figli – sono luoghi insicuri.
Le testimonianze raccolte dal quotidiano “Repubblica”[2] fioccano a centinaia, da tutte le parti d’Italia, da destra a sinistra, e cadono tutte sulla testa di questa classe dirigente che, per bocca del Presidente del Consiglio, afferma trattarsi di “fatalità”. Sarà come per gli incidenti sul lavoro? Per le tragedie familiari? Per la povertà endemica? Cosa siamo, un popolo destinato antropologicamente alle tragedie?
Scusate: dimenticavo la buona notizia. Finalmente.
Non so se la mia scuola sia provvista proprio di tutte quelle certificazioni (mi pare di sì), ma ne conosco la storia e le vicende degli ultimi tre decenni. C’è qualcosa da imparare.
Anzitutto, la fondazione: 1621, ad opera dei Padri Scolopi. Mura squadrate, spesse, costruite col vecchio criterio di mantenere la base più larga della sommità: come nella mia abitazione (sec. XV), i muri non sono dei parallelepipedi, bensì dei tronchi di piramide.
Non sono un tecnico, ma queste mura hanno resistito ai secoli: perché?
Poiché quando costruire costava tanta, ma veramente tanta fatica – dal raccogliere le pietre nei torrenti per chilometri, fino all’erezione manuale di tutte le impalcature, all’impasto a forza di braccia di tutto quel che serviva – si conservava memoria del sudore e si facevano le cose per bene.
Ho assistito anche alla grande ristrutturazione che avvenne quasi trent’anni or sono, poiché la Preside – donna di classe ed orgogliosa della sua femminilità – riteneva, semplicemente, che quelle faccende fossero “cose da uomini”. Punto e basta.
Non ci furono fumosi “progetti”, “assegnazioni”, “responsabili” – se ben ricordo non ci furono nemmeno dei soldi di mezzo – perché s’andava ancora con il vecchio buon senso. Chiamò in presidenza un paio di docenti e l’assistente tecnico (tutti rigorosamente maschi, ovvio) e chiese loro con gentilezza e signorilità d’occuparsi al posto suo della questione, perché lei – lo ammetteva senza remore – non ci capiva nulla.
Fu una bella esperienza.
C’accorgemmo che il pavimento di un laboratorio “tremolava” un pochino e lo segnalammo al Geometra del Comune: detto fatto, fu organizzata durante le vacanze estive una prova di carico – la quale consiste nel caricare sul pavimento molti sacchi di cemento e poi fare delle misurazioni – dalle quali i tecnici stabilirono che si trattava di normale elasticità della soletta in robusto castagno, ancora perfettamente integro.
Ci fu poi la necessità di ricavare nuove aule dalle vecchie celle dei frati, abbattendo muri divisori che non erano semplici tramezzi, bensì strutture portanti. Il Geometra voleva realizzare aule più grandi abbattendo due tramezzi, ma l’Ingegnere della Provincia s’oppose poiché riteneva che la cosa avrebbe indebolito la struttura.
Ci furono parecchie discussioni – compresi noi, che tecnici non eravamo – per spiegare, capire, decidere. Alla fine, tutti fummo d’accordo che era meglio avere aule più piccole ma sicure. Vallo a dire alla Gelmini – miss “so tutto io” – che adesso ti mette 30 allievi per classe e non sai dove piazzarli.
Per il tetto, l’impresa che aveva vinto l’appalto ci disse a chiare lettere che spendere 40 milioni per il tetto era come buttarli al vento: «Dando solo una “ripassata”, tante tegole si cambiano e tante se ne rompono camminando: meglio aspettare, metterci più soldi e rifare il tetto da capo».
Seguimmo il suo consiglio e, pochi anni dopo – grazie ad un nuovo stanziamento – fu possibile rifare completamente il tetto. Il quale, gode tuttora d’ottima salute.
Poi venne la nuova stagione dei “Dirigenti Scolastici” i quali – poveretti loro – sono stati nominati pomposamente “Dirigenti” e di tutto devono sapere e capire. Dal Diritto alle ristrutturazioni.
Modesta e recente revisione dei pluviali e delle discese d’acqua dal tetto: tre discese partono dal tetto, diventano due al livello di un terrazzo intermedio e terminano in una sola a terra. Tutte, ovviamente, d’identico diametro. Risultato: allagamento. Ci vuole tanto a capire il problema?
Di chi la colpa?
Di nessuno e di tutti, perché oggi vige la “dittatura degli esperti”, le famose imprese chiamate a ristrutturare con i soldi pubblici le quali – guarda a caso – sono sempre le stesse.
Altro “esperto” fu l’idraulico che piazzò – questa volta a casa mia – una vaschetta zincata per un impianto di riscaldamento fatto con tubi di rame. Provai a balbettare qualcosa sulla pila di Volta. Mi fu risposto che “ne aveva messe tante”. Due anni dopo, vaschetta bucata ed allagamento invernale: quella volta fui io ad imporre una vaschetta di rame, la quale sta benissimo dopo tanti anni.
Insomma, tirando le conclusioni, la bella notizia è che io – a scuola – mi sento sicuro perché la struttura fu costruita in tempi “non sospetti” quando, a parlare di “obsolescenza programmata”, t’avrebbero bruciato sul rogo. Ma, con tutta questa fatica, dobbiamo farla male per poi rifarla?!?
E devo riconoscere che, le persone chiamate a ristrutturarla trent’anni fa, lavorarono bene perché avevano a cuore quel che facevano (uno, era addirittura un ex allievo): ciò non significa che lavorassero per pochi soldi, ma a fronte dei soldi richiesti fornivano una prestazione brillante.
Perché?
Poiché non ci sarà mai nessuna “tabella”, nessun “metodo” meritocratico in grado di competere con la semplice buona volontà, con l’etica professionale di chi desidera fare una cosa al meglio.
Cosa serve, allora?
Per prima cosa ascoltare quel che raccontano gli istituti di statistica da anni: il dato più pericoloso, per il futuro d’Italia, è rappresentato dallo “scollamento” sociale, dalla mancanza d’unità negli intenti, nel “tutti contro tutti” alimentato dall’assenza di vera cultura e dai media asserviti.
Siamo “pappetta" sociale e questo, in una nazione che ha avuto un percorso d’unificazione assai tormentato, concede troppe frecce al rischio di un’involuzione di tipo balcanico.
Se non riusciremo a ricostruire i legami amicali, comunitari, se non saremo in grado di ripartire cancellando di brutto gli ultimi decenni, buttando con gioia nel cesso tutta la paccottiglia che ci hanno propinato sulla “competitività”, sul “merito” (che decidono loro) e tutto il resto finiremo di certo a carte quarantotto.
In seconda battuta spendere, ma saper spendere con competenza ed onestà: a cosa serve costruire faraonici ponti ed altre facezie del genere, quando sono le scuole a crollare? Chi va a raccontare ai genitori di Vito Scafidi che si taglia sulla scuola per costruire un ponte che non servirà a niente – il futuro dei trasporti è l’acqua, non la terra, ancor più per la Sicilia – ci andrà quel tizio che ha il coraggio di chiamarla “fatalità”?
Da ultimo, dobbiamo ficcarci in testa che – se non riusciremo a cacciare questa pletora di politici inefficaci ed inefficienti – loro cacceranno noi. Lo stanno già facendo: Vito, se fosse diventato un bravo scienziato od un valente ingegnere, sarebbe dovuto emigrare come tanti suoi simili già stanno facendo.
Un Paese che non sa garantire la sicurezza nelle scuole, che costruisce anche quelle con il criterio dell’obsolescenza programmata – per domani foraggiare nuove tangenti – può attendersi solo nuove disgrazie ed un fosco futuro.
E non tiriamo in ballo il Fato – per favore – perché per gli antichi era cosa assai seria, mica le barzellette da Bagaglino che ci ammansiscono dai teleschermi. Spegniamoli, per favore, spegniamoli, sempre di più.
Motorino od auto, talvolta una bieca malattia, strappano ai genitori ed a noi insegnanti qualche giovane vita, un paio d’occhi ammiccanti, talvolta sbarazzini, sempre curiosi sguardi d’adolescente.
Il copione è sempre lo stesso: la bara sistemata al centro di una struttura (talvolta a casa o in ospedale) ed una classe tremante che – appoggiata al muro per lunghe ore – piange, consola, ricorda.
La prima badilata sul viso che la vita ti dà è, in certe circostanze, questa: la perdita, repentina, dell’illusione dell’immortalità. A 17 anni non si muore, non si dovrebbe. Eppure avviene.
Poi, mesi per recuperare il salvabile, cercare – nessuno di noi ha magiche ricette in tasca – di metabolizzare l’accaduto, perché la classe è un organismo vero e proprio, complesso, sempre diverso, che quando perde una mano od un piede urla di dolore.
Se, poi, la morte avviene per mano degli adulti – o, perlomeno, così viene percepita – allora…apriti Cielo! Sale la rabbia contro qualcosa o qualcuno – che è tipico dell’adolescenza, sempre ribelle – e quel qualcosa o qualcuno si trasfigura nella perversa Crudelia Demon, nel malvagio Capitan Uncino, nel sanguinario principe Vlad di turno.
Per noi adulti la questione si pone in altro modo. Se scorriamo le statistiche sulla sicurezza nelle nostre scuole, c’è da rabbrividire[1]: la metà di esse – i luoghi dove inviamo, fiduciosi, i nostri figli – sono luoghi insicuri.
Le testimonianze raccolte dal quotidiano “Repubblica”[2] fioccano a centinaia, da tutte le parti d’Italia, da destra a sinistra, e cadono tutte sulla testa di questa classe dirigente che, per bocca del Presidente del Consiglio, afferma trattarsi di “fatalità”. Sarà come per gli incidenti sul lavoro? Per le tragedie familiari? Per la povertà endemica? Cosa siamo, un popolo destinato antropologicamente alle tragedie?
Scusate: dimenticavo la buona notizia. Finalmente.
Non so se la mia scuola sia provvista proprio di tutte quelle certificazioni (mi pare di sì), ma ne conosco la storia e le vicende degli ultimi tre decenni. C’è qualcosa da imparare.
Anzitutto, la fondazione: 1621, ad opera dei Padri Scolopi. Mura squadrate, spesse, costruite col vecchio criterio di mantenere la base più larga della sommità: come nella mia abitazione (sec. XV), i muri non sono dei parallelepipedi, bensì dei tronchi di piramide.
Non sono un tecnico, ma queste mura hanno resistito ai secoli: perché?
Poiché quando costruire costava tanta, ma veramente tanta fatica – dal raccogliere le pietre nei torrenti per chilometri, fino all’erezione manuale di tutte le impalcature, all’impasto a forza di braccia di tutto quel che serviva – si conservava memoria del sudore e si facevano le cose per bene.
Ho assistito anche alla grande ristrutturazione che avvenne quasi trent’anni or sono, poiché la Preside – donna di classe ed orgogliosa della sua femminilità – riteneva, semplicemente, che quelle faccende fossero “cose da uomini”. Punto e basta.
Non ci furono fumosi “progetti”, “assegnazioni”, “responsabili” – se ben ricordo non ci furono nemmeno dei soldi di mezzo – perché s’andava ancora con il vecchio buon senso. Chiamò in presidenza un paio di docenti e l’assistente tecnico (tutti rigorosamente maschi, ovvio) e chiese loro con gentilezza e signorilità d’occuparsi al posto suo della questione, perché lei – lo ammetteva senza remore – non ci capiva nulla.
Fu una bella esperienza.
C’accorgemmo che il pavimento di un laboratorio “tremolava” un pochino e lo segnalammo al Geometra del Comune: detto fatto, fu organizzata durante le vacanze estive una prova di carico – la quale consiste nel caricare sul pavimento molti sacchi di cemento e poi fare delle misurazioni – dalle quali i tecnici stabilirono che si trattava di normale elasticità della soletta in robusto castagno, ancora perfettamente integro.
Ci fu poi la necessità di ricavare nuove aule dalle vecchie celle dei frati, abbattendo muri divisori che non erano semplici tramezzi, bensì strutture portanti. Il Geometra voleva realizzare aule più grandi abbattendo due tramezzi, ma l’Ingegnere della Provincia s’oppose poiché riteneva che la cosa avrebbe indebolito la struttura.
Ci furono parecchie discussioni – compresi noi, che tecnici non eravamo – per spiegare, capire, decidere. Alla fine, tutti fummo d’accordo che era meglio avere aule più piccole ma sicure. Vallo a dire alla Gelmini – miss “so tutto io” – che adesso ti mette 30 allievi per classe e non sai dove piazzarli.
Per il tetto, l’impresa che aveva vinto l’appalto ci disse a chiare lettere che spendere 40 milioni per il tetto era come buttarli al vento: «Dando solo una “ripassata”, tante tegole si cambiano e tante se ne rompono camminando: meglio aspettare, metterci più soldi e rifare il tetto da capo».
Seguimmo il suo consiglio e, pochi anni dopo – grazie ad un nuovo stanziamento – fu possibile rifare completamente il tetto. Il quale, gode tuttora d’ottima salute.
Poi venne la nuova stagione dei “Dirigenti Scolastici” i quali – poveretti loro – sono stati nominati pomposamente “Dirigenti” e di tutto devono sapere e capire. Dal Diritto alle ristrutturazioni.
Modesta e recente revisione dei pluviali e delle discese d’acqua dal tetto: tre discese partono dal tetto, diventano due al livello di un terrazzo intermedio e terminano in una sola a terra. Tutte, ovviamente, d’identico diametro. Risultato: allagamento. Ci vuole tanto a capire il problema?
Di chi la colpa?
Di nessuno e di tutti, perché oggi vige la “dittatura degli esperti”, le famose imprese chiamate a ristrutturare con i soldi pubblici le quali – guarda a caso – sono sempre le stesse.
Altro “esperto” fu l’idraulico che piazzò – questa volta a casa mia – una vaschetta zincata per un impianto di riscaldamento fatto con tubi di rame. Provai a balbettare qualcosa sulla pila di Volta. Mi fu risposto che “ne aveva messe tante”. Due anni dopo, vaschetta bucata ed allagamento invernale: quella volta fui io ad imporre una vaschetta di rame, la quale sta benissimo dopo tanti anni.
Insomma, tirando le conclusioni, la bella notizia è che io – a scuola – mi sento sicuro perché la struttura fu costruita in tempi “non sospetti” quando, a parlare di “obsolescenza programmata”, t’avrebbero bruciato sul rogo. Ma, con tutta questa fatica, dobbiamo farla male per poi rifarla?!?
E devo riconoscere che, le persone chiamate a ristrutturarla trent’anni fa, lavorarono bene perché avevano a cuore quel che facevano (uno, era addirittura un ex allievo): ciò non significa che lavorassero per pochi soldi, ma a fronte dei soldi richiesti fornivano una prestazione brillante.
Perché?
Poiché non ci sarà mai nessuna “tabella”, nessun “metodo” meritocratico in grado di competere con la semplice buona volontà, con l’etica professionale di chi desidera fare una cosa al meglio.
Cosa serve, allora?
Per prima cosa ascoltare quel che raccontano gli istituti di statistica da anni: il dato più pericoloso, per il futuro d’Italia, è rappresentato dallo “scollamento” sociale, dalla mancanza d’unità negli intenti, nel “tutti contro tutti” alimentato dall’assenza di vera cultura e dai media asserviti.
Siamo “pappetta" sociale e questo, in una nazione che ha avuto un percorso d’unificazione assai tormentato, concede troppe frecce al rischio di un’involuzione di tipo balcanico.
Se non riusciremo a ricostruire i legami amicali, comunitari, se non saremo in grado di ripartire cancellando di brutto gli ultimi decenni, buttando con gioia nel cesso tutta la paccottiglia che ci hanno propinato sulla “competitività”, sul “merito” (che decidono loro) e tutto il resto finiremo di certo a carte quarantotto.
In seconda battuta spendere, ma saper spendere con competenza ed onestà: a cosa serve costruire faraonici ponti ed altre facezie del genere, quando sono le scuole a crollare? Chi va a raccontare ai genitori di Vito Scafidi che si taglia sulla scuola per costruire un ponte che non servirà a niente – il futuro dei trasporti è l’acqua, non la terra, ancor più per la Sicilia – ci andrà quel tizio che ha il coraggio di chiamarla “fatalità”?
Da ultimo, dobbiamo ficcarci in testa che – se non riusciremo a cacciare questa pletora di politici inefficaci ed inefficienti – loro cacceranno noi. Lo stanno già facendo: Vito, se fosse diventato un bravo scienziato od un valente ingegnere, sarebbe dovuto emigrare come tanti suoi simili già stanno facendo.
Un Paese che non sa garantire la sicurezza nelle scuole, che costruisce anche quelle con il criterio dell’obsolescenza programmata – per domani foraggiare nuove tangenti – può attendersi solo nuove disgrazie ed un fosco futuro.
E non tiriamo in ballo il Fato – per favore – perché per gli antichi era cosa assai seria, mica le barzellette da Bagaglino che ci ammansiscono dai teleschermi. Spegniamoli, per favore, spegniamoli, sempre di più.
[1] Fonte: http://www.repubblica.it/2008/10/sezioni/cronaca/maltempo/allarme-bertolaso/allarme-bertolaso.html
[2] Fonte: http://redazione-repubblica.blogautore.repubblica.it/2008/11/23/le-scuole-sono-sicure-racconta-la-tua-esperienza/
E' nata ContrAgorà - http://contragora.blogspot.com/ - un blog collettivo formato, oltre che dal sottoscritto, da Carlo Gambescia, Barbara Albertoni (Cloro), Marco Cedolin, Antonio Saccoccio, Miguel Martinez, Nicola Vacca, Stefano Moracchi, Guido Aragona, Truman Burbank e Valter Binaghi.
L'idea è nata dall'Appello alla Rete che lanciammo per la crisi economica, ed ora proseguirà come luogo dove posteremo i nostri pezzi, a volte solo su Contragorà, altre in parallelo sui nostri blog.
L'idea è nata dall'Appello alla Rete che lanciammo per la crisi economica, ed ora proseguirà come luogo dove posteremo i nostri pezzi, a volte solo su Contragorà, altre in parallelo sui nostri blog.
E' importante, a mio avviso, essersi trovati - pur avendo storie personali diverse - per impiantare questo piccolo, nuovo luogo d'aggregazione e discussione sul Web.
Lunga vita a ContrAgorà!