18 agosto 2020

La “crisi di Suez” del 2021?

 

Non attendetevi chissà quale crisi del canale di Suez per il prossimo anno…non è questo il senso di questo titolo…però ci sono delle attinenze storiche che andrebbero valutate, poiché la vicenda del Coronavirus ha fatto passare in secondo piano la grande novità di questi ultimi anni: la Brexit, ossia il distacco del Regno Unito dal vecchio continente, un affare complesso, che merita qualche approfondimento.

 

La “crisi di Suez” del 1956 fu ordita, senza consultare gli USA e l’URSS, da Francia, Gran Bretagna ed Israele per “impadronirsi” – forse sarebbe più opportuno dire “avere una gestione indipendente dall’Egitto” – del canale di Suez dopo la nazionalizzazione imposta da Nasser. La questione era sì importante, ma c’erano i mezzi per gestirla (come poi avvenne) senza una guerra.

Una parte del problema era economica – ossia gli oneri che le navi pagavano da chi dovevano essere incamerati? – ma questo era secondario, difatti, a crisi conclusa, vennero trovati accordi soddisfacenti per tutti.

La vera questione erano gli accordi di Sèvres del 1920 – i quali, sancivano con precisione certosina l’equilibrio di potenze nell’area – che assegnavano a Francia e Gran Bretagna dei territori “d’influenza” che andavano dall’Egitto all’Iraq, dal Libano ad Aden. In quei luoghi era nato Israele, ma le potenze europee lo inclusero nell’avventura, bypassando il problema.

Il vero problema era il 1956, ossia l’anno della crisi in Ungheria e dell’invasione sovietica: i rapporti USA-URSS erano tesi, e l’URSS minacciò d’intervenire in Egitto, da qui l’ordine americano di fermare tutto e tornare da dov’era giunti. Quando gli israeliani erano a 10 miglia da Suez e gli anglo-francesi a 24 miglia.

 

La crisi di Suez è generalmente accettata come la fine dell’Impero Britannico e di quello Francese, per quanto attiene il passato coloniale e sancì il primato degli USA nel controllo del Pianeta, soprattutto degli oceani, che sono la via che porta dappertutto.

 

Il secondo aspetto che è interessante notare è la dottrina Monroe, ossia l’atto del 1823 del presidente americano Monroe il quale, dopo l’indipendenza dalla Gran Bretagna del 1776, dichiarò che l’intervento europeo nelle colonie americane era concluso, e gli Stati Uniti erano gli unici a poter decidere i destini del continente americano.

Nell’Europa del Congresso di Vienna tale dichiarazione fu letta con sorpresa e qualche dileggio, poiché essendo inconsistente la Marina Statunitense, l’unica nazione veramente in grado di gestire la questione era la Gran Bretagna. Era un paradosso: Gadda inquadrò la vicenda in un suo romanzo:

 

“Oggi [...] le terre anche loro son libere, salvo alcuni scampoli come le colonie francesi e inglesi, e il campicello di Monroe, chiuso da un leggiadro filo spinato.” (dal romanzo La meccanica di Carlo Emilio Gadda.

 

Questo “principio” fu ciò che consentì alla Gran Bretagna di giocare, dopo il Congresso di Vienna e congiuntamente alle altre nazioni europee fino al 1914, sul “piatto” della politica euroasiatica, mantenendo però solo per sé il resto del Pianeta. E quel gioco terminò bruscamente, a 24 miglia da Suez, nel 1956.

 

Sulla Brexit – che solo gli allocchi pensano si sia trattato di un “moto popolare” – bisogna ricordare che iniziò appena dopo che Trump era stato eletto alla presidenza, nel 2016. E che, all’epoca, il leader conservatore inglese era David Cameron, europeista “tiepido” ma non convinto dello “strappo” dall’Europa, bensì della necessità di rinegoziare alcuni punti d’attrito: lasciò la carica ed il seggio parlamentare proprio nel 2016, dopo l’esito del referendum.

Dunque, fra il 2016 ed il 2017 qualcuno, in Gran Bretagna e negli USA, era deciso a rinverdire la vecchia alleanza di Monroe, poi continuata per due guerre mondiali. In buona sostanza, prima di trovarsi invischiati nei mille problemi dell’Europa con il suo enorme Est (Russia, Cina, ecc) USA e GB ritennero meglio puntare le loro carte sulla vecchia alleanza: la stessa che la Gran Bretagna sancì per convenienza all’indomani del Congresso di Vienna del 1815.

 

Notizia nella notizia, che non sorprende, è contenuta in uno dei tanti protocolli diplomatici varati dopo la separazione dall’Europa: la Gran Bretagna si riserva di comminare le proprie sanzioni economiche ad altri Paesi in completa indipendenza, senza nessuna eccezione. Un passetto un poco azzardato.

La NATO, quindi, risulta indebolita come alleanza, ma rafforzata sugli intenti da seguire: meno siamo, più in fretta giungiamo ad una decisione. Una decisione che si prende quando il quadro delle alleanze è più definito, e dunque ci si avvicina ad un confronto.

 

Strana notizia, dunque, quella del velivolo antisommergibile italiano “pescato” a “rastrellare” il Mar Nero, e subito rinviato alla sua base da un Su-27M di Putin. Poi è giunta la smentita da parte italiana – ma queste tardive smentite hanno il sentore della toppa peggio del buco – perché dire che l’aereo non è più in servizio…beh…è la scusa di Pierino pescato a rubare la cioccolata…al punto che i russi non hanno modificato la loro nota diplomatica di protesta. (1) (2)

 

Invece, stupisce la decisione d’aver deciso la solita rivoluzione “arancione” e ferragostana in Bielorussia, con tante braccia tese nel saluto nazista e le classiche richieste di “libertà” che si sentono urlare da due secoli in tutta Europa, e non hanno mai condotto a niente. (3)

Alla NATO, purtroppo, non basta una Ucraina dove la popolazione ha perso almeno il 30% del suo potere d’acquisto e che vive, per lo più, con le rimesse degli emigranti. I russi, se volessero, potrebbero arrivare a Kiev in un paio di giorni, ma non vogliono essere accusati d’aver invaso un Paese democratico, governato prima con un colpo di Stato, e dopo da un presentatore televisivo.

Stupisce perché la Bielorussia fa il pari con la Cuba del 1962 : è il “cortile di casa” della Russia, che mai e poi mai cederà di fronte alla NATO (ed alla Lituania) in quel contesto, è troppo vicino a Mosca per i canoni di sicurezza del Cremlino e Putin ha già avvertito d’esser disposto ad inviare le truppe.

 

Tirando le somme, torniamo alla Brexit ed alla strana decisione britannica di saltare il fosso per tornare, con gli USA, ai tempi di Churchill o di Monroe. Comunque la pensiate, fu un bel coraggio, oppure una così ampia sfiducia nell’Europa ed una grande fiducia negli USA. Ma quali USA erano?

Nel 2016, era stato appena eletto Trump e pareva che il tycoon fosse lanciato verso i due mandati, ossia fosse giunto fino al 2024, cosa che oggi pare molto difficile: nessuno poteva immaginare che una malattia epidemica sconvolgesse gli equilibri del Pianeta.

Perché gli USA s’adoperarono per avere la Gran Bretagna con loro? In qualche modo non se n’era mai andata, però tutta quella compagnia…i francesi rompiscatole, i tedeschi boriosi, gli italiani infidi, gli spagnoli con quel loro orgoglio…no…meglio soli che mal accompagnati.

Perché, chi va con la Gran Bretagna sa che avrà la possibilità d’avere con sé, se non proprio tutto il Commonwealth, almeno quella parte del Commonwealth che ancora riconosce Elisabetta II come sua regina. E chi sono?

 

Beh…a parte Canada, Australia e Nuova Zelanda…ci sono due cittadine (Akrotiri e Dhekelia) a Cipro, Gibilterra, l’isola di Ascension, le Falkland, l’isola di Diego Garcia, Belize, Brunei, Kenya…tutti posti dove ci sono basi militari britanniche e/o aeroporti militari. Senza dimenticare tutte le isole dei Caraibi, che sono invece basi finanziarie, chiamate altrove “paradisi fiscali”. (4)

Pur dimenticando, nella nostra lista, tanti luoghi incantevoli (ed importanti dal punto di vista strategico) chi “sposa” la Gran Bretagna fa un ottimo affare: se, poi, lo “sposo” sono gli USA – con tutte le loro basi nel mondo e le varie flotte – si tratta di una coppia di ferro. Più acciaio, petrolio ed Uranio, tanto per non farsi mancare nulla.

 

Questa è stata la mossa che ha portato i due a chiedere il divorzio dalla litigiosa Europa – non monete, finanza, tecnologia od altro – perché avendo a disposizione un aeroporto in quasi tutto il pianeta, senza dimenticare che da molti anni i due continuano a dirigere le operazioni militari in Iraq ed Afghanistan, consente loro di dominarlo. O, almeno, così sperano.

Di certo alcune cosucce li hanno spaventati: mai s’attendevano che i russi si mettessero a difendere la Siria come hanno fatto, impiantando persino una base aerea russa in territorio siriano. Ma ciò che veramente li spaventa è il ritmo col quale Pechino avanza sul piano militare.

 

La Cina, oggi, ha in servizio due portaerei, ma il governo ne ha ordinate subito altre due poi, senza attendere oltre, ne ha ordinate altre quattro, che saranno a propulsione nucleare. Ciò che sbalordisce è il ritmo, sei anni in tutto: ciò significa che nel 2026 otto portaerei cinesi saranno in linea, modernissime e pronte al confronto.

Come se non bastasse, i cinesi hanno modernizzato i missili a traiettoria balistica con sistemi d’autoguida terminale molto avanzati in funzione anti-nave, un po’ come i Kalibr russi, ed oggi è difficile pensare di mantenere il dominio del Mar Cinese e, più avanti, dell’Oceano Indiano. Il tutto, beninteso, senza armi atomiche.

 

Ci si può domandare dove vogliano arrivare i cinesi: a parte piccole contese territoriali, isolette di poco conto, al massimo Taiwan, che è già comunque ampiamente all’interno del sistema di difesa cinese, la Cina può avere due obiettivi: o lo scontro totale con le vecchie potenze euroamericane, oppure la conquista e la difesa di una zona paragonabile a quella conquistata dai giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale, la “sfera di prosperità asiatica” a guida giapponese.

Ammesso che questo sia un obiettivo cinese, poiché la Cina ha già oggi una miriade di rapporti economici con la Russia, l’India, il Pakistan, l’Iran, l’Indonesia, la Malesia, il Vietnam…lo stesso Giappone.

Può essere un suo obiettivo giungere a controllare anche politicamente altre Nazioni? Ne dubito, perché non vedo il bisogno di farlo: grazie alla leva economica, sono già ben presenti in Asia. E nello SCO, alleanza senz’altro più solida della NATO perché nata e sorretta più da rapporti economici che da semplici somme militari.

 

Perciò, a mio parere, il grande sviluppo militare della Cina è più difensivo che offensivo, mentre la rinnovata forza dell’accordo fra USA e GB sembra indicare una volontà di riappropriarsi di quanto hanno perduto nei confronti della Cina dal punto di vista economico.

Un gioco piuttosto azzardato, poiché Cina (e Russia, e India) sono tutte potenze nucleari, e dunque non aggredibili con quei mezzi.

 

Oltretutto, la presenza di Trump alla Casa Bianca il prossimo anno è molto dubbia, ed anche se il nuovo presidente accettasse la sfida iniziata dal suo predecessore – una sorta di continuità diplomatica – non vedo con quali mezzi potrebbe intraprenderla, dopo la sciagurata gestione del Covid-20. Non dimentichiamo che gli USA, ad oggi, hanno circa 17 milioni di disoccupati che sopravvivono a spese del governo. Fino a quando? E si tratta dei soli disoccupati delle industrie: a quanto ammonterà, alla fine, il dissesto finanziario di tutto l’indotto statunitense?

Si fa affidamento sulla forza del dollaro, ma si può continuare a farlo? E per quanto? I cinesi hanno iniziato a comprare petrolio in yuan ed alla Borsa di Shangai c’è già una quotazione in yuan (con tanto di future) dal Marzo 2020, mentre scambiano i prodotti energetici con la Russia nelle rispettive divise (yuan e rublo) ed anche altri Paesi cominciano ad usare altre valute, come l’Euro. L’Iran usa dollari, euro, yuan, rubli e rupie.

 

E’ sempre molto difficile fare previsioni, soprattutto su quel “lungo periodo” sul quale John Maynard Keynes aggiungeva sempre una postilla “nel quale saremo tutti morti”. Però, almeno alcuni ragionamenti senza pretendere d’aver svelato la Luna, si possono fare.

Mentre la Cina non sembra avere, oggi, necessità del confronto militare per sopravvivere sulla scena mondiale, la posizione di USA e GB ricorda un po’ quella di due giocatori di poker che hanno perso parecchio e, alle tre di notte, raggranellano tutti i soldi che hanno ancora per tentare il classico “o la va o la spacca”.

Rischiando di trovarsi, col serbatoio vuoto, a 24 miglia da Suez.

 

1) https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/08/16/caccia-russo-affianca-aereo-marina-italiana-su-mar-nero-no-violazioni-confine-ma-difesa-smentisce/5901533/

2) https://formiche.net/2020/08/italia-russia-mar-nero/  

3) https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/08/17/la-marea-dellopposizione-riempie-le-strade-di-minsk-decine-di-migliaia-alla-marcia-per-la-liberta-in-bielorussia-video/5901868/

4) https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/4/4f/Commonwealth_realms_map.svg

 

 

 

06 agosto 2020

Bombe atomiche, e cervelli all’ammasso a gogò

Una devastante esplosione ha sventrato il “cuore” di un Paese devastato, ossia il porto di Beirut. Un Paese veramente alla frutta per capacità politiche ed amministrative, che ha visto recentemente una svalutazione dell’85% della moneta, che vede – spesso – i jet israeliani che sorvolano il territorio di confine per colpire o tracciare le mosse del “nemico alle porte”, ossia Hezbollah. Questo è il quadro libanese.

Un governo del genere ha lasciato negligentemente sulle banchine 2.750 tonnellate di Nitrato d’Ammonio da circa tre anni, dopo che era stato sequestrato da una nave che batteva bandiera moldava (?) ed era diretta in Madagascar. Se l’area in oggetto era l’area della merce sequestrata, possibilissimo che ci fossero anche fuochi pirotecnici a loro volte sequestrati, o magari armi, altri esplosivi…in una nazione disastrata come il Libano, puoi trovare qualsiasi cosa in qualunque strada.

Ciò che dimostrerò, però, è che nessun ordigno nucleare è stato usato in quel frangente, né che missili o bombe sono state lanciate sul porto di Beirut.

Andiamo con ordine.

 

Gli esplosivi non sono tutti uguali e, la loro potenza, si sprigiona principalmente nella capacità di svolgere reazioni chimiche (in genere, ossidazioni con successiva combustione) nel minor tempo possibile.

La principale (ed essenziale) qualità di un esplosivo è quindi quella di generare un’onda d’urto la quale, maggiore è la velocità con la quale si distanzia dal punto d’origine, maggiori sono i danni che crea.

Possiamo renderci facilmente conto di questo fenomeno se incendiamo – a terra, in un luogo aperto – un bicchiere di gasolio: il gasolio brucerà, abbastanza velocemente. Se, invece, usiamo della benzina l’incendio sarà più subitaneo ed assomiglierà più ad una modesta esplosione la quale, non trovando ostacoli, si esaurirà in una manciata di secondi.

Il Nitrato d’Ammonio, invece, è un esplosivo più subdolo perché necessita di due fasi: la prima, nella quale riscaldandosi genererà una nuvola di Ossigeno la quale, in un secondo tempo, “assalirà” il combustibile (tipicamente polvere di carbone o gasolio assorbito su un substrato inerte) provocando l’esplosione, che porterà il Carbonio prima a CO (ossido di Carbonio) poi a CO2 (anidride carbonica) e sarà proprio qui il maggior “salto energetico”, con conseguente fiamme ed una consistente onda d’urto.

Difatti, se usato in ambito civile o militare, il Nitrato d’Ammonio richiede un duplice innesco, a distanza di una manciata di secondi.

 

Siamo, però, molto distanti dal C3, C4 o T4 che sono esplosivi plastici – usati nelle testate dei missili ad esempio – e che generano un’onda d’urto che viaggia a velocità dell’ordine del Km al secondo a migliaia di gradi centigradi: uno di questi esplosivi, ad esempio, fu usato nella strage di Bologna del 1980.

Nulla di tutto ciò è stato notato a Beirut, laddove i grattacieli che si vedono in lontananza non sono stati interessati dell’esplosione, se non per aspetti secondari. Nemmeno a pensare ad un’esplosione nucleare, la quale in pochi secondi avrebbe ridotto tutto in briciole, grattacieli compresi, con una velocità impressionante.

 

La velocità è il secondo fattore: più l’onda d’urto è veloce e più disgrega le opere murarie. Se l’onda d’urto è simile a quella di Bologna è in grado di sollevare addirittura treni e scagliarli per aria, ma si esaurisce presto. La dinamica nucleare, invece, è molto diversa: velocità e temperature sono di grado superiore e provocano danni ben più gravi ed a maggiori distanze: però, mentre un’esplosione di Nitrato d’Ammonio genera molti incendi a breve/media distanza, difficili da domare, un’esplosione nucleare si sviluppa nell’arco di pochi secondi e giunge, con la sua potenza, a lasciare un panorama di distruzione totale, soffocando quasi i possibili incendi, che possono sussistere solo a grande distanza dall’esplosione.

E veniamo al “fungo”.

 

Il “fungo” è generato dalla veloce risalita di polveri nel luogo dell’esplosione il quale, successivamente, giunto ad una certa altezza perde la forza iniziale adagiandosi in posizioni periferiche per poi ricadere: questa è la dinamica del “fungo”. Che non necessariamente deve essere atomico.

Si creò, ad esempio, sopra Dresda dopo il bombardamento del 1945, ma anche in situazioni più comuni: tutto dipende dall’esplosione, maggiore essa è, maggiore sarà il “fungo”. Che non indica, assolutamente, un’esplosione atomica.

 

In definitiva, l’esplosione di Beirut ricorda molto le esplosioni di esplosivi a non altissimo potenziale, bensì generatrici di gravi danni per la quantità d’esplosivo usato: dato che non è così facile ottenere del T4, ecco che molti terroristi hanno usato il Nitrato d’Ammonio. Altre esplosioni, sono avvenute negli impianti di produzione.

Si sono verificate, solo dal 1916 ad oggi, ben 30 esplosioni per errore nei siti di produzione del nitrato d’ammonio con migliaia di morti: elenco in nota (1).

Anche i terroristi lo hanno usato per la sua facilità di reperimento: ricordiamo Oklahoma City, Bali e la Norvegia.

 

Qualcuno ha indicato la possibilità che sia stata usata una micro carica nucleare.

La presenza di radioattività viene, generalmente, misurata in Sievert, più precisamente in mSievert, ossia milliSievert (1Sievert/1000 ), giacché un valore di 1 Sievert ha già effetti sulla salute umana: che io sappia, non sono state fatte misurazioni con questa unità di misura che abbiano mostrato pericolo nell’ambiente.

Poi, la cosa ha poco senso: perché “metterci una firma” quando potevano dar fuoco a quel po’ po’ di disastro ambientale che c’era nel porto di Beirut con una semplice, modesta bombetta da usare come un detonatore? Non era nemmeno necessario usare un missile, che viene tracciato – oramai – anche da Cozzalandia.  

 

La domanda che oggi si pone è, allora, chi può aver avuto interesse a destabilizzare il Libano e tutta l’area medio orientale?

Francamente, non trovo risposte plausibili: un conto è fare il galletto come Trump…accusare la Cina di questo e di quello…l’Iran di quello e quell’altro…ad usuum stultorum si fa questo ed altro, compreso commenti su Twitter e battute su Facebook.

Un altro conto è, invece, mettersi in una situazione nella quale si devono rischiare le portaerei a portata dei missili iraniani che giungono fino al Mediterraneo Centrale i quali, oltretutto, sono anche in dotazione ad Hezbollah. E poi: vogliamo proprio combinare un casino del genere a portata delle basi russo-siriane di Tartus e di Hmeimin?

Difatti, Trump ha fatto la sua “sparata” ma è subito stato smentito dal Pentagono. Negli USA, oggi, gli schieramenti fra isolazionisti ed interventisti non sono più fra Repubblicani e Democratici, mentre anche l’ala più dura dei Repubblicani, i neocon, sono passati in seconda linea rispetto agli anni dei Bush quando parevano spadroneggiare nel partito repubblicano. D’altro canto, anche i democratici hanno, con una manovra concertata dai vertici, allontanato gli avventurismi neo-rooseveltiani di Bernie Sanders.

 

Ciò che rimane è un “grande centro” che è la maggioranza nel Paese e che oggi, a causa della pessima gestione della pandemia da parte di Trump, sta accettando come nuovo presidente quel Biden il quale – a dirla tutta – non canta molto di più di un pappagallo impagliato.

In questa situazione di debolezza politica, gli USA non hanno certo velleità imperiali: la situazione economica, dopo la pandemia, sarà molto “scura” e con poche speranze di miglioramento. La Cina, pur accusata di tutto il male possibile, si comporta già oggi da grande potenza: non ancora egemone, ma in procinto di diventarlo.

 

Israele poteva avere interesse a colpire il Libano? L’aviazione israeliana colpiva già le basi di Hezbollah nel Sud del Paese, ma non ha mai mostrato – dopo la batosta del 2006 – di voler ritentare l’azzardo, e non sono le tonnellate di nitrato d’ammonio andate in fumo a modificare la situazione. Fra l’altro, Israele generalmente ha sempre dichiarato le azioni militari che intraprende, perché è una “merce” facilmente spendibile sul fronte interno, quando vanno bene. Con la situazione politica interna dello stato israeliano, con un Netanyahu che sta in sella per miracolo, non mi sembrerebbe il momento di dar inizio a danze così pericolose per gli equilibri internazionali.

 

In quest’ottica, se vogliamo trovare un possibile bandolo per spiegare quel che è successo, dobbiamo tenere presente che la Cina sta modificando il suo commercio estero, nel senso che – da quando Rotterdam era l’unico porto di partenza/arrivo delle merci – è arrivato Cherbourg, quindi Il Pireo, poi Vado Ligure (quando gli insipienti amministratori locali s’accorgeranno che dove c’è un porto sono necessarie strade e ferrovie) e Trieste, già compresa nell’accordo siglato con l’Italia per la “Via della Seta”.

La Cina, dopo il rifiuto di Israele, aveva messo l’occhio su Beirut come porto sul Mediterraneo orientale, ma non è questo disastro che può spaventare i cinesi: al più, risparmieranno i costi di demolizione. La situazione è cambiata da quando è entrato in servizio il nuovo sistema Maerks per lo stivaggio e lo scarico delle merci: completamente automatico (non ci sono più gruisti) ed informatizzato, può facilmente “pescare” i container da scaricare in una data area. Da immense spedizioni in un unico punto, a più punti di raccolta delle merci destinate ad aree più ristrette.

Di certo, la situazione libanese – con Hezbollah al potere – non è di facile soluzione: ma Cina ed Iran sono entrambi nello SCO e l’esperienza degli ultimi 20 anni c’insegna che, all’interno dell’ex Patto di Shangai, le soluzioni – tempo al tempo – si trovano sempre. In questo senso, Macron poteva risparmiarsi la visita a Beirut se aveva intenti diplomatici: fuori tempo massimo, dai tempi del dominio francese su quelle terre.

 

Concludendo, se qualcuno ha tirato un missile, oggi, mezzo mondo ne è al corrente e servono a poco i tanti galletti che strombazzano teorie complottiste: il complottismo è di facile intuizione per le masse, ma spesso non spiega nulla della diplomazia internazionale, che è mille volte più complessa rispetto agli assatanati della tastiera uber alles.

Il potenziale esplosivo era là da anni, ammucchiato alla belle e meglio in un Paese che definire allo sbando è solo far un complimento a curve e tornanti: qualcuno ha dato inizio alle danze con una tanica di benzina? Può essere.

 

Nessuno, di certo, ha sprecato un missile per così poco: in pochi giorni la situazione s’acquieterà ed a Beirut tornerà la solita, sonnacchiosa, ricerca di mettere insieme il pranzo con la cena. Di certo, nelle cancellerie di tutto il Pianeta, ciascuno cercherà di trarre il massimo vantaggio dalla nuova situazione che si è creata.

Ed è solo questo che conta, per chi vuole analizzare la politica internazionale.

 

1) https://it.qwe.wiki/wiki/Ammonium_nitrate_disasters



03 agosto 2020

Logorroica italianità




Il tormentone nazionale riguardante l’immigrazione torna a farsi vivo con la solita logorroica ed inconcludente pantomima dell’italianità violata, succube, forzata. In realtà, il problema nasconde – ancora una volta, come se non bastassero altri pessimi “ricordi” – l’incapacità italiana di fare i conti con la propria Storia.

 

I numeri sono noti: già nel 1975 si superò la famosa “soglia” di 2,1 figli per donna – la quale segna il limite massimo, oltre il quale la popolazione tende a decrescere – che oggi s’attesta intorno ad 1,3. Il che, causa un decremento annuo pari a circa 200.000 italiani ogni anno, ossia come se una città come Padova, Brescia o Trieste non esistesse più. C’è, inoltre, il fenomeno dell’emigrazione italiana – un fenomeno più sfumato, più difficile da interpretare – che causa altre 150.000 partenze. In totale, se consideriamo la sola popolazione italiana, è come se una città come Bari o Firenze sparisse completamente. Ogni anno che passa.

E poi ci sono gli immigrati, una quota annua che in media è di circa 250.000 persone, una quota difficile da conteggiare con precisione e molto variabile di anno in anno: comunque, rispetto al primo decennio del secolo (2000-2010) l’immigrazione si è quasi dimezzata, passando da 500.000 ingressi annui agli attuali 200-250.000.

Come si può notare, il saldo demografico totale risulta di poco in calo: decine di migliaia rispetto alle centinaia di migliaia.

 

Comunque la pensiate, questo è il quadro generale di riferimento per il fenomeno: i dati sono stati presi da Wikipedia, dall’ISTAT e dal Ministero dell’Interno. Ora, bisogna analizzare i reali attributi dei fenomeni, sia l’immigrazione e sia l’emigrazione.

L’emigrazione italiana è più sfaccettata, perché composta da giovani (metà laureati e metà diplomati) che vanno in cerca di situazioni più soddisfacenti e da pensionati che cercano, in Paesi con un costo della vita inferiore, di vedere – in quel modo – la loro pensione “rivalutata”.

Il fenomeno dei pensionati è di minore importanza per numeri, ed è inutile contrastarlo: se una persona vuole andare a vivere alle Canarie, alle Azzorre o in Bulgaria, perché impedirglielo?

Anche il fenomeno dei giovani è, di per sé, difficilmente contrastabile: i ragazzi italiani sono molto ben preparati professionalmente da ottime scuole ed università. Aggiungiamoci un briciolo di “pizza e mandolino” ed i cuochi ed il personale alberghiero italiani sono i più richiesti nel mondo: non dimentichiamo ingegneri e medici, che trovano facilmente proposte più allettanti.

E veniamo all’immigrazione.

 

Molto spesso si sentono lamentele circa la scarsa cultura e scolarità degli immigrati – il che, spesso, è completamente falso, perché non abbiamo mezzi per valutarlo: la lingua, spesso, è un ostacolo insormontabile – ma la cruda realtà è che l’Italia d’immigrati con specifiche professionalità non ne ha bisogno.

L’Italia non necessita di personale di maggior professionalità, in quanto l’alta scolarità italiana fornisce – al netto dell’emigrazione – sufficienti quadri per i ruoli tecnici e dirigenziali del Paese: quello che manca sono elementi non molto specializzati per sopperire ai “vuoti” lasciati nelle mansioni più semplici dal calo demografico.

 

Personalmente, ho conosciuto due ingeneri senegalesi ed una laureata in Chimica ucraina, i quali si sono adattati a fare i muratori e la badante: le difficoltà nella padronanza della lingua – mi hanno spiegato – sono troppo elevate per rimettersi a studiare l’italiano scientifico/tecnico, che non è così semplice da imparare e l’inglese non basta.

Ma, le richieste italiane, quali sono?

 

Facciamo un piccolo esempio che riguarda un’impresa italiana dell’agroalimentare, sia essa di produzione agricola o d’allevamento: sono, in gran parte, aziende familiari. Poniamo che abbiano due figli (situazione molto comune)…ma uno dei due si laurea in Medicina (o Infermieristica, ecc), l’altro in Ingegneria (o Informatica, ecc)…che ci fanno fra pomodori e mucche? L’azienda, quando i genitori vanno in pensione, viene venduta od inglobata in consorzi più grandi d’aziende, le quali hanno però sempre bisogno di personale…e dove lo trovano?

Non dimentichiamo che l’Italia – nonostante si sentano qui e là le proteste per i pomodori olandesi o le albicocche spagnole – rimane la prima nazione europea esportatrice di beni alimentari di qualità o di produzione biologica. Sovente dobbiamo difenderci dalle imitazioni, ma questo avviene soltanto perché non produciamo abbastanza, da lì nascono le imitazioni. Qualcuno di voi ha mai visto una vera mozzarella di bufala salire oltre Roma? O trovare i famosi “ciccioli” emiliani fuori dai confini della regione? Riusciamo a malapena a produrre il 50% dell’olio d’oliva per il consumo nazionale!

 

Durante il lockdown, la mancanza degli immigrati ha fatto temere parecchio per le raccolte di fine Inverno e le semine primaverili, necessarie al ciclo biologico degli alimenti. Dov’è il vero problema?

 

L’italiano medio non ha una percezione sensata sul problema degli immigrati, bensì un falso e logorroico dibattito che sembra fatto apposta per non giungere mai ad una soluzione: da un lato quelli che difendono l’italianità “senza se e senza ma” e vorrebbero le cannoniere nel Canale di Sicilia, dall’altra chi ha un atteggiamento pietistico nei confronti dei migranti e confonde la carità cristiana con la realtà economica.

Ovvio che, le due fazioni, sono abilmente alimentate per scopi elettorali e quindi…guai a cercare di comprendere il problema, guai a “sgonfiarlo”! La gente comincerebbe a ragionare e ci mancherebbe l’argomento “principe” per le campagne elettorali! Dovremmo cominciare a parlare di cose serie, e non siamo capaci! Meglio le cannoniere (che non possono sparare) e le parrocchie che accolgono (magari vorrebbero, ma non lo fanno): insomma, non vogliamo uscire da lì!

Perché le altre nazioni europee hanno una percentuale maggiore della nostra d’immigrati e non si sente l’eterno piagnisteo italiano?

 

Per due semplici ragioni: perché hanno fatto meglio i conti con la loro Storia e, magari, sanno fare anche meglio i conti economici odierni. Oppure, sono completamente stupidi tedeschi ed inglesi che hanno il doppio degli immigrati italiani?

 

La differenza è tutta nel rapporto che le singole nazioni hanno avuto con il loro passato coloniale – che è stato certamente una iattura per i colonizzati! – ma che ha, forzatamente, insegnato ai colonizzatori a trattare: date un’occhiata alla colonizzazione di fine ‘800 nel Pianeta, e lo capirete da soli.

Africa, Sudamerica ed Asia erano colonizzate quasi soltanto da un pugno di nazioni: Gran Bretagna, Francia, Olanda, Spagna, Portogallo, Germania e Belgio. E l’Italia?

 

S’arrabattava, cercando di comprare un porto in Africa Orientale: quando l’ebbe, tentò di “allargarsi” ma, ad Adua, fu subito retrocessa nella serie C delle potenze coloniali. Sconfitta ed umiliata dalle tribù con archi e frecce, lance e scudi e pochi fucili ad avancarica.

Bene o male riuscimmo a rimanere in Somalia e l’unica personalità che i somali ricordano con affetto è il duca Amedeo D’Aosta, perché riuscì ad iniziare un percorso d’agricoltura più moderna e fondò fattorie sul modello europeo: conquistò i somali con l’evidenza dei fatti, non con i crocifissi o le boutade da operetta della diplomazia italiana. Quando fu preso prigioniero dagli inglesi (era il comandante supremo in Africa Orientale) fu trattato con i guanti dagli inglesi, che lo ritenevano più simile a loro che alle mezze cartucce del regime fascista.

 

Andammo in Libia, e per i primi vent’anni non sapemmo far altro che un milione di morti su una popolazione di 7-8 milioni di libici. Per loro fortuna una delle maggiori figure del Fascismo era un uomo diverso, che costruiva strade, case ed aeroporti senza vessare la popolazione locale: era Italo Balbo, che fu inviato in Libia. Balbo capì che, se voleva vivere in pace, non servivano i moschetti: attrasse intorno a sé la vecchia aristocrazia libica, degnandola di un ruolo anche nella nuova realtà ed il gioco gli riuscì.

Ma, Balbo, era contrario all’Asse con Berlino, era contrario ad una guerra contro l’Inghilterra e portava avanti, in Libia, una politica troppo personale, molto distante dalle velleità imperiali romane che non potranno – proprio per i vecchi problemi che Balbo indicava con arguzia – che arrendersi a centinaia di migliaia agli angloamericani, aprendo loro la via della Sicilia.

 

E’ interessante notare come, nel corso logorroico delle annose ed inconcludenti vicende italiane, le figure più nobili e lungimiranti scompaiano: è il caso del geologo Ardito Desio il quale, negli anni ’30, scoprì (lavorava per l’AGIP, appena fondata) in Libia enormi giacimenti d’acqua nel sottosuolo, che fu usata per l’irrigazione, poi Magnesio e Potassio e…petrolio. Portò a Mussolini la famosa “bottiglia” di petrolio – la ricerca del petrolio il Libia era iniziata nel 1929! – ma servivano trivelle più potenti, che gli americani già possedevano e che era possibile acquistare. Mussolini gli diede l’italianissima pacca sulla spalla e lo congedò con il fascistissimo “Bravo! Continua così!”. Ma non gli comprò le trivelle. La bottiglia di petrolio finì in qualche scantinato dimenticato, probabilmente insieme all’acqua di Lurisia ed al Barolo d’annata.

La politica italiana, in Libia, era una politica agricola che prevedeva di tornare al “granaio di Roma” d’imperial fascistissima memoria, e non contemplava che la Libia producesse petrolio: lo compravamo già dagli americani…

 

Non parliamo poi dell’Etiopia, dove riuscimmo veramente a farci odiare di un odio feroce, belluino: le violenze gratuite passarono il segno e, allo scoppio della guerra nel ’40, le tribù corsero ad ingrossare le file dei reggimenti coloniali inglesi. E ci resero, con gli interessi, tutte le violenze operate con sdegno e “virile consegna” da Badoglio e Graziani.

Fine del periodo coloniale italiano: cosa imparammo? Quasi niente. Cosa ricavammo? Poco o niente. Cosa spendemmo, in denaro e vite umane? Parecchio.

 

Se vogliamo cercare un paragone, riflettiamo che non ci fu nessuno che combatté il colonialismo inglese con la fermezza e l’astuzia di Gandhi: ma ci fu sempre, nelle sue parole, il riconoscimento d’aver ereditato dagli inglesi non solo ferrovie, scuole, porti, ospedali ed il sistema postale, bensì anche una classe di funzionari locali che lo resero in grado di far funzionare il Paese.

 

Potremmo continuare, ma non voglio tediare chi mi legge: ogni Paese trae oggi, nel suo rapporto con la migrazione, i concetti e gli insegnamenti che seppe apprendere durante la fase coloniale. Sembra quasi un ossimoro per le contrastanti vicende storiche, ma così appare dalla riflessione su quelle vicende.

In Iraq, ad esempio, gli inglesi s’accorsero a loro spese di quanto fossero incapaci ed inadatti gli americani in quel ruolo: essendo cresciuti con l’eroico ricordo della loro guerra anti-colonialista – proprio contro la Gran Bretagna! – non riuscivano ad entrare nel ruolo di chi doveva dirigere la ricostruzione dopo la guerra del 2003. Loro, erano andati lì a liberarli! Perché gli iracheni non li amavano? Contraddizioni del colonialismo.

In Tanzania, per molto tempo, gli abitanti ricordarono come efficienti ed umani i colonizzatori tedeschi, migliori degli inglesi che giunsero dopo il 1918, mentre gli olandesi, in Indonesia, riuscirono a farsi odiare al punto che gli indonesiani aprirono con gioia la porta ai giapponesi nel 1942.

 

Anche Francesi, Spagnoli e Belgi non hanno lasciato un buon ricordo dove sono stati, ma hanno – almeno – ricavato qualche esperienza da quelle lontane vicende, mentre l’Italia non sa nulla, non ha appreso nulla, non sa progettare nulla.

Eppure, gli esempi non mancano: negli anni, per far funzionare il suo apparato produttivo, la Germania (Ovest) attrasse milioni di turchi e di curdi (per antiche “vicinanze” diplomatiche) i quali, acerbissimi nemici in Patria, hanno vissuto in pace in Germania. In Germania è stata la potenza del welfare, sconosciuto nelle loro lande, a conquistarli.

Hindu e Sikh, in India, si “parlano” – ancora oggi – tramite attentati dinamitardi, mentre in Gran Bretagna vivono gli uni accanto agli altri: ma docenti di Matematica e di Fisica indiani insegnano ad Oxford, quando un indiano od un sikh non diventa un ottimo ed ascoltato esegeta shakespeariano. Se gli indiani non hanno certo abbandonato le basi ideali della loro cultura, apprezzano la cultura inglese e la affiancano alla loro.

 

Qualcuno dirà: già, ma il terrorismo islamico? Non ha forse colpito in Europa? Vero. Ma chi sono i nuovi terroristi islamici? Chi li sostiene? Chi li paga? Chi li prepara?

Il recente terrorismo islamico nasce sempre, come afflato ideale, dall’insoluta situazione della Palestina e di Israele, ma viene coordinato e scatenato dalle potenze del Golfo, le quali lo usano – anche in funzione anti-iraniana – per loro scopi di bottega (petrolifera).

Non confondiamo conflitti che nascono da radici ideali con altri, che sono soltanto trame di servizi segreti di mezzo mondo.

 

In sintesi: qual è stata e qual è la natura dell’immigrazione in Italia?

Dapprima albanese e marocchina, oggi senegalese, nigeriana, nigerina, malese, indonesiana…ed altre nazionalità.

Osserviamo, oggi, un cantiere stradale, oppure un grande cantiere come quello che ha ricostruito il ponte di Genova: chi c’è? Aprite gli occhi. Qualche italiano più anziano, soprattutto con compiti di caposquadra e di coordinamento, poi albanesi e rumeni (che sono bravi muratori) e, infine, tanti neri con compiti di manovalanza: grosso modo, le cose stanno così.

Se, invece, andiamo nei campi, sono quasi solo neri, mentre gli italiani usano le macchine agricole o si occupano dei trasporti.

Cosa diamo loro in cambio?

 

Se vengono qui per lavorare, come lavoratori avrebbero diritto ad un salario decente e, all’occorrenza, del relativo welfare: Germania, Francia e Gran Bretagna si comportano così, Spagna e Portogallo un po’ meno, ma nessuno giunge alle scene da “piantagione di cotone dell’Alabama” che si vedono in Italia.

Anzitutto, trattiamoli in modo da non dare loro delle ragioni per odiarci: lo facciamo continuamente, con la segregazione e l’abbandono in strutture che ricordano più dei campi-profughi che degli alloggi per lavoratori.

Soprattutto, ci mancano le idee per la convivenza, le idee che una nazione non colonialista (come l’Italia o gli USA) non può avere: allora, o li respingiamo (ma non possiamo farlo: li vedete i ragazzi italiani cresciuti a biscottini della mamma ed aperitivi con gli amici nei campi a sgobbare?) oppure, se li accettiamo dobbiamo creare un sistema nel quale abbiano il loro ruolo ed il loro posto dove stare. Sono esseri umani, non dimentichiamolo: e gli esseri umani, all’occorrenza, s’incazzano pure.

 

C’è, infine, la questione legale: ius sanguinis o ius soli?

Ho sempre nutrito molti dubbi sul “diritto del sangue” perché è un diritto che poggia sull’assioma che il “mio” sangue sia il più forte, colui che – solo – ha la spada in mano. E quando un altro “sangue”, più forte, s’attrezza e ti sconfigge? Torniamo alla schiavitù? Se ci pensate bene, è la legittimazione di una guerra perpetua.

Sull’altro versante, non riesco a comprendere perché un argentino che vive in Argentina da generazioni possa votare alle elezioni in Italia – dando, spesso, origine a dei commerci ignominiosi per quella manciata di voti che possono far ribaltare la politica nazionale – mentre un albanese che vive da vent’anni in Italia, che lavora stabilmente qui ed ha dei figli oramai irriconoscibili dai ragazzi italiani, non possa decidere niente.

Mistero.

 

Sono certo che, già da domani, torneremo ai soliti chiacchiericci logorroici: perciò, prendete queste riflessioni come semplice acqua che scorre. Ci vorrà tempo ma l’acqua, sempre, scava la pietra: non dimentichiamolo.