Quando mio fratello mi racconta una storia, sto sempre ad
ascoltarlo attentamente perché raramente non ha un senso profondo: ha la
capacità di vedere oltre gli eventi, come se una vicenda apparentemente banale
– nella sua mente – andasse ad incasellarsi in un disegno universale. Per
questa ragione lui non scrive, ma fa delle vignette che sono più taglienti di
una lama di Damasco, e spesso qualche politico si è lamentato della sua
“troppa” bravura.
Così, una sera come un’altra, mi racconta che è andato a
comprare le sigarette, nella stessa tabaccheria dove vado io. Il negozio in
oggetto ha vicino un piccolo slargo, che dovrebbe servire come fermata
dell’autobus, ma è sempre occupato da automobili dei clienti che vanno a
comprare le sigarette: un continuo via vai.
Proprio di fronte, ci sono due posteggi riservati: uno per i
disabili e l’altro per la sosta carico/scarico di merci. Mentre il secondo,
talvolta, è “invaso” (per breve tempo) da comuni automobili, quello per i
disabili è “sacro” e sempre sgombro. Anche perché i vigili non scherzano.
Arriva, dunque, al negozio e posteggia l’auto nel solito
slargo che i vigili tollerano che sia invaso, a patto di non lasciarci la macchina
per più dei minuti che servono per andare alla rivendita. Mentre arriva, nota
che un’auto dei Carabinieri s’è piazzata nel posteggio dei disabili: magari
un’urgenza, roba importante, avranno i loro motivi…
Subito dopo, giunge l’auto di un disabile che, costernato,
vede che il posteggio è occupato: scende e, claudicando vistosamente, chiede al
Carabiniere sull’auto se può spostarsi. Apriti cielo! Il militare scende e lo
investe con un diluvio d’improperi: ma cosa vuole? Se ne vada! Noi stiamo
facendo il nostro dovere! Forza, via! Circolare!
Bah, meglio lasciarli ai loro diverbi…entra in tabaccheria
(che ha, ovviamente, le infernali macchinette da gioco) e, appena entrato, nota
subito l’altro Carabiniere: tranquillamente di fronte ad una slot-machine, che
infila soldi e tira la leva. C’è coda, e deve aspettare qualche minuto che lo
servano: il Carabiniere – mio fratello nota sempre tutto – è tranquillo come un
angelo, non tradisce la minima emozione mentre infila soldi, osserva lo
schermo, tira la leva.
Compra le sigarette ed esce: il Carabiniere continua a giocare
mentre il disabile è fermo con l’auto nello slargo (è una zona a forte
traffico, nemmeno pensare di trovare un posto “normale”), l’altro Carabiniere è
risalito in macchina. Se ne va, e la scena che lascia è questa.
La sera, a letto, apro un vecchio libro di Sepulveda: “Il
generale e il giudice” che non avevo mai letto. Diciamo subito che non è il
meglio che l’ottimo scrittore cileno ha pubblicato, ma c’è una spiegazione: è
stato scritto mentre Pinochet era stato fermato a Londra giacché il giudice
spagnolo Garzòn lo aveva incriminato per i suoi delitti. Ovvio che, per
Sepulveda, la vicenda dell’aguzzino poi tornato libero in Cile – fu, ancora una
volta, la Camera
dei Lord ad esprimersi contro la sua estradizione in Spagna, con l’apporto
decisivo di Margareth Tatcher – scatenò dapprima speranze, poi una rabbia
feroce. Si può capire.
Si tratta, ovviamente, di vicende cilene; ci sono, però,
alcuni paragrafi che mi hanno colpito, come – ne sono certo – non m’avrebbero
toccato profondamente, diciamo…10-15 anni fa. Vi propongo alcuni estratti:
“Il grande pericolo
per la stabilità politica e la pace sociale del Cile si chiama “modello
economico neoliberista”, si chiama “darwinismo economico”, si chiama “cultura
del ‘si salvi chi può’”…proporre una riforma costituzionale che restituisca ai
cittadini il diritto d’eleggere liberamente i loro parlamentari, affrancandoli
dall’odiosa tutela dei senatori designati a vita…finché non si saprà quando e
come è morto, chi è stato il suo assassino…la ferita rimarrà aperta e è compito
degli uomini onesti tenerla aperta e pulita, perché quella ferita è la nostra
memoria storica.”
Il Cile, dopo il golpe del 11 Settembre 1973, ebbe una
democrazia “sotto tutela” militare, finché Pinochet sedette come senatore a
vita: una riforma da lui voluta e fatta approvare dal Parlamento sotto la
minaccia delle armi. Dall’epoca, poco è cambiato: le antiche formazioni
politiche cilene – una specie di DC e le sinistre – si sono prontamente
adattate al “nuovo” che avanzava, ossia un simulacro di democrazia. Rimane
l’enorme masso, pesantissimo, di dare un nome ed un volto certo agli assassini,
a coloro che fecero la mattanza dell’11 Settembre 1973 e nei mesi seguenti. Il
Cile, tanto per capire ciò che afferma Sepulveda sui temi economici, è la nazione
al mondo con il più alto indice di Gini, ossia la terra dove c’è più
sperequazione nella distribuzione della ricchezza.
Torniamo in Italia.
Marco Biagi è correttamente individuato come colui che
stabilì le basi dell’odierna giurisprudenza del lavoro: poco importa se, col
trascorrere del tempo, si è andati ben oltre il suo pensiero. La “rottura” dei
tradizionali “contrappesi” fra mondo del lavoro e capitale, in giurisprudenza,
prese il “La” proprio dal suo pensiero: quando si rompono certi principi – il
valore dei contratti nazionali, le tutele del lavoratore, ecc – si è imboccata
una china che non ha fine. Per ora siamo giunti alla legalizzazione del lavoro
nero – tramite i voucher – domani s’arriverà alla schiavitù (mascherata), che
in certi ambienti (caporalato in agricoltura, soprattutto nel Sud) già viene
usata, dapprima con gli immigrati, oggi anche con gli italiani.
Il 9 Dicembre 2002 Biagi viene ucciso dalle Brigate Rosse.
Poi, inizia una strana stagione, nella quale i morti
ammazzati fioccano dal calendario. Federico Aldrovandi viene ucciso il 25
Settembre del 2005: seguono gli altri.
Riccardo Rasman, Giulio Comuzzi, Manuel Eliantonio, Marcello
Lonzi, Stefano Cucchi, Aldo Bianzino, Stefano Consiglio, Gabriele Sandri,
Stefano Frapporti, Simone La Penna,
Katiuscia Favero, Aldo Scardella, Giuliano Dragutinovic, Riccardo Boccaletti…e,
senz’altro, sfuggono alla triste conta altri nomi.
Così, i latino-americani hanno i desaparecidos, noi gli
ammazzati: cambiano le proporzioni (e sono molto diverse le società dove i
fatti avvengono) ma non si può che constatare un fatto evidente: qualcuno ha
conferito alle forze dell’ordine la licenza di uccidere e la conseguente
impunità.
Qui, c’è un parallelismo impressionante fra le madri (ora
nonne) di Plaça de Mayo ed i parenti delle vittime italiane: la stessa
protervia, lo stesso disgusto che si prova di fronte al palleggiamento delle
responsabilità, la medesima sordità nell’applicazione di leggi chiare e
semplici, i mille tentativi di affossare, insabbiare, deviare verità
inconfutabili. Un essere umano viene preso in consegna dalle forze dell’ordine
– che hanno il compito di proteggerlo fino al giusto processo (se viene
rilevato un reato) ossia il principio stabilito con l’Habeas Corpus inglese del
1679 – e ne esce cadavere.
Le caserme, le prigioni, od altro ancora – allora – ci
ricordano la tristemente famosa Escuela de Mecánica de la Armada (ESMA) di Buenos
Aires, dove i detenuti venivano torturati, uccisi, o gettati dagli aerei in
Atlantico.
E non mancano neppure in Italia i personaggi – veramente
squalificati e squalificanti – che proteggono in Parlamento questi assassini:
il figlio di Pinochet ebbe a dire, di fronte alle madri degli “scomparsi” “Mio padre uccise solo delle bestie”, che
non è molto diverso dai tanti sproloqui di un Giovanardi qualunque in
Parlamento.
Torno a ricordare che le modalità sono state molto diverse:
oltretutto, gli eccidi in Latino America sono avvenuti in epoca pre-Internet,
che consentiva più garanzie di farla franca, di far trascorrere molto tempo fra
gli eccidi e le giuste proteste, mentre oggi – cito solo un caso – poche ore dopo
l’uccisione di Gabriele Sandri tutta l’Italia ne era a conoscenza.
Ma, nella cultura di Internet, se vuoi far dilagare la paura
e chiarire chi ha il potere d’ucciderti senza pagare il fio, non servono
migliaia di morti: ne bastano pochi, poiché il concetto si diffonde
rapidamente.
Cosa vogliono ottenere con questa strategia?
La paura, soltanto il terrore verso la divisa, che si
materializza in uno sparare nel mucchio – di là delle appartenenze politiche –
per aumentare il senso di strapotere di chi ci governa. In altre parole, se a
qualcuno saltasse in testa di ribellarsi, ecco pronto il trattamento che vi
riserveremo, senza sconti. Abbiamo anche chi ci difende in Parlamento.
Così nasce il disprezzo per l’altro, per la popolazione, che
si materializza per la banale questione di un disabile che ha diritto a quel
parcheggio, mentre dall’altra parte – per formazione – ci si sente autorizzati
a spregiare qualsiasi diritto, nel nome di una divisa che rappresenta la
collettività. Chiaramente una percezione distorta che è stata inculcata, ma
così è: siamo solo “forza lavoro”, “risorse umane”, e poi vai a sostenere che
le parole non sono pietre!
Vi chiederete chi sono i mandanti.
Nel 1997 Marco Biagi è nominato Rappresentante del Governo
italiano nel Comitato per l'occupazione e il mercato del lavoro dell'Unione
europea, dunque si pongono le basi per stravolgere l’impianto di diritti e
doveri che regnava dagli anni ’50 e, soprattutto, si mettono in discussione le
conquiste dei lavoratori dei decenni seguenti.
Il liberismo, per avviare la fase di globalizzazione – ossia
investo dove costa di meno (o ci sono meno diritti) e vendo dove voglio – ha
bisogno di un terreno tranquillo, senza scossoni sociali. L’Italia, non
dimentichiamo, è la nazione europea che più ha avuto organizzazioni
terroristiche: è un sorvegliato speciale.
E poi c’è l’annosa questione della democrazia parlamentare:
può convivere con il turbo-capitalismo? No di certo.
Ecco, allora, che – al pari dei cileni – anche noi abbiamo
ricevuto il nostro Parlamento di “senatori nominati” e non c’è verso di
scalzarli (come si vede nei sondaggi) perché l’uso della giustizia ad
orologeria colpisce ora l’uno ora l’altro, secondo la bisogna. Al resto, pensa
l’immobilismo dei “senatori” stessi: e chi gliela farà mai fare una legge
elettorale dove si scelgano delle persone e non dei vuoti “Logo”?
Il M5S – grande speranza degli italiani – è diventato il
primo partito, ma si troverà di fronte gli altri 2/3 dei parlamentari, che si
coalizzeranno nel nome dell’Europa: visto quante ammuine stanno già compiendo?
D’altro canto, il non voler stringere alleanze, li condanna ad un imperituro
isolamento dal quale non riescono ad uscire.
Il compito del M5S è quello d’attrarre lo scontento di
larghi strati di popolazione, ma finisce tutta lì: non ho mai sentito nessuno,
da quella parte, chiedere con forza l’abolizione delle mille leggi sul lavoro e
la previdenza emanate dai vari governi liberisti e fortemente europeizzati.
Scusate, ma qui mi voglio togliere un sassolino che mi fa
“calciare” male…ma Roma, non ha due stadi di grandi dimensioni? Uno dei quali
versa in stato d’abbandono? Perché il Comune non stipula un contratto con le
due società, una all’Olimpico ed una al Flaminio, trovate un accordo fra le due
società, metteteci i soldi voi e restaurateli come volete. Non vorrete mica
dirmi che l’Olimpico è uno stadio inagibile?!? Al Comune, rimarrebbe i diritti
per gli altri sport.
Ma in questa Italia, che non trova i soldi per gli ospedali
e le scuole, dovete proprio buttare i soldi (perché ce li mettono, eccome!) per
costruire un altro stadio?!?
Nel 2013, interruppi la lunga stagione dell’astensionismo e
votai il M5S: perché? Poiché, anche se non ti sembra il modo di far politica,
concedere una prova è giusto. Ma dovetti subito ricredermi.
Ancora una volta, chiedo a Beppe Grillo di raccontare
perché, poco prima delle consultazioni per formare il governo, si recò a Roma,
ma la prima visita fu per l’ambasciatore statunitense.
Io, prima di tornare a votare il M5S, desidero due cose:
-sapere perché decise la visita;
-sapere, a grandi linee, quale fu il tono del colloquio.
In un movimento dove “uno vale uno” la chiarezza deve essere
specchiata, altrimenti non servono torrenti di parole e mille rassicurazioni il
giorno. La gente, Beppe, deve crederti, altrimenti avremo tanti Renzi o
Gentiloni per i secoli a venire, nell’attesa del fatidico 51%.