26 marzo 2014

In morte di Silvio


No, non si tratta di una boutade sul Silvio nazionale: qui è morto davvero un Silvio – lo abbiamo seppellito Domenica scorsa – ma non c’entra niente con la politica (almeno, quella che è definita tale) né col teatrino dei Pupi di tutti i giorni. La sua è una storia seria, di quelle che ci consentono – ricordandolo – d’aggiornare un poco ciò che sta succedendo alla centrale Tirreno Power di Vado Ligure, quella di Suez e De Benedetti. Quella di Sorgenia, dalla quale avrete ricevuto senz’altro le telefonate che vi parlavano di “energia pulita”.


E ci consentono anche di porre un parallelo fra le tesi di Jared Diamond nel suo magistrale “Armi, acciaio e malattie” – il quale, insieme ai libri di Huitzinga o di Carlo Maria Cipolla, tanto per citare due storici che hanno affrontato sotto l’aspetto storiografico, più settorialmente, cultura e tecnologia è diventato una pietra miliare della ricerca storica – ed i nostri tempi. Ma torniamo a Silvio.



Silvio aveva 58 anni, di professione saldatore e tubista: per tutta la vita ha lavorato sotto impresa, ossia quelle imprese di manutenzione che si occupano di tutto il “marcio”, di tutto il peggio che c’è da fare nelle aziende. E’ morto per un cancro alla laringe: fumava, si dirà, ma dopo aver descritto gli ambienti di lavoro nei quali visse quel “fumava” rispediamolo pure ad Enrico Bondi, che incolpava delle tragedie successe non l’ILVA, bensì a Taranto, rea d’essere una città di beoni e fumatori.

Qui parliamo d’aziende chimiche e dell’energia: settori che non hanno molti dipendenti per unità di prodotto, giacché il sistema deve essere automatizzato per ragioni di costi, mica per chi ci vive dentro. Di quel “particolare” – a lor signori – non frega una mazza: tanto, hanno soldi per bravi avvocati ed i giudici sono sempre indulgenti quando si tratta di “produrre”.



Mettiamo subito in chiaro un punto, prima di procedere: gli imprenditori sapevano e sanno benissimo quali sono i rischi per i lavoratori, non ignorano mai. Solo ai processi si discolpano: “a loro insaputa”, sempre così.

Tanto che alla famigerata IPCA di Ciriè – forse la prima fabbrica di coloranti (nata nel 1922) dove, nel dopoguerra, si riuscì ad imbastire un processo – saltò fuori che il figlio del padrone s’era avvicinato ad un bollitore (un semplice pentolone) dove un operaio rimestava chissà quale schifezza. Il padre lo notò e gli urlò “Sta via da lì, che quella roba ti fa venire il cancro”. E’ agli atti del processo.



Silvio lavorò nel “peggio” che si possa immaginare: l’ACNA di Cengio (SV), la Stoppani (nulla a che vedere con l’attuale colorificio) di Cogoleto (GE) e molte raffinerie che sorgono alle spalle di Genova, nell’area di Busalla.

All’ACNA di Cengio – raccontava – t’accorgevi che c’era necessità di riparare un tubo perché gocciolava a terra: peccato che, in quel tubo, scorresse acido solforico concentrato e caldo. Stava a te scansare le gocce, altrimenti...un bel buco in testa. Pardon, lì c’era il casco (!): sulle braccia, su una coscia...e chi aveva le tute antiacido?

Ma i veri killer silenziosi erano le naftil-ammine, le quali (è provato) provocano il cancro alla vescica: ancora oggi, dopo una bonifica durata anni, a 17 metri nel sottosuolo si trovano “strati” (esattamente come quelli geologici) di giallo, rosso, blu...



La Stoppani era, invece, un’industria che aveva un merito: l’acqua di mare di fronte a Cogoleto era batteriologicamente pura, come un laghetto di montagna. Non un misero Escherichia Coli che riuscisse a sopravvivere. La fabbrica produceva sali di Cromo esavalente partendo dal Cromo trivalente: vi lascio immaginare i colori degli scarichi a mare...a volte verdi, altre gialli, altre ancora di un bel arancione carico.

Gli operai? Riparavano, saldavano, smontavano e montavano tubi e raccordi in mezzo a quella melma colorata. Ah già, ma Silvio fumava...



A Busalla, c’erano sempre torri di distillazione da riparare: le cosiddette “torri a piatti”, le quali si consumano e si rompono. Aperto un portello, toccava a Silvio entrare in quel ambiente buio e cercare la perdita, la flangia...e saldare senza, ovviamente, tute di protezione ad alta resistenza.

Non voglio andare oltre: immagino che il lettore si sia già reso conto del contesto lavorativo di Silvio.



Le vicende della Eternit di Casale Monferrato, dell’ILVA di Taranto, dell’ACNA di Cengio e di Cesano Maderno (MI), ecc – dove vidi personalmente insaccare i terribili coloranti a base di acido solfanilico e beta-naftilammina con le pale: il colorante scendeva in polvere dal soffitto! Manco un’insacchettatrice automatica! L’anno dopo, saremmo scesi sulla Luna ed a Cesano Maderno non sapevano che esistevano i sistemi automatici? – conducono ad una sola conclusione: sanno benissimo che lì ammazzano la gente, e lo fanno scientemente.



Con l’industria energetica, invece, i veleni valicano i confini del “lager” e si spandono fra la popolazione: è il caso di Vado Ligure e di Porto Tolle. Ma anche di Civitavecchia, con la sua centrale “modernizzata” per il carbone.

Qui a Savona, l’azienda si difende (trovando un po’ di “spalla” nei sindacati) affermando che tutto è già stato fatto (rinnovati i controlli delle emissioni? Così in fretta? Tutto a posto?) ma, per ora, l’impianto resta fermo: i magistrati non ci credono. Lupus in fabula, negli stessi giorni il consiglio regionale ligure nega l’autorizzazione alla costruzione di alcune torri eoliche: impatto ambientale, niente da fare. La centrale va riaperta, tutti sussurrano a telecamere spente: e i morti? Continueranno come prima.



Mi riprometto di scrivere qualcosa di più specifico su questa ed altre vicende accadute in Liguria in questi anni – vicende che mi hanno visto testimone ed anche attore – ma oggi è un altro punto che desidero toccare.

E se queste morti fossero pianificate?



Mi ha molto colpito la notizia che ai macchinisti delle ferrovie è stato revocato il “privilegio” d’essere messi in pensione a 58 anni: andranno a 67, come tutti gli altri. Peccato che l’aspettativa di vita della categoria sia di 65 anni (1): un altro omicidio di massa. Intanto, Moretti blatera che potrebbe andarsene all’estero: ma chi lo tiene? In ogni modo, non è questo il problema.



In Italia ci sono circa 3-4 morti per il lavoro il giorno (2), questo lo sappiamo, ma non tutti sanno il dato degli invalidi permanenti: 25.000 l’anno. Un esercito.

E le malattie professionali?



Di certo si sa che l’asbestosi e la silicosi compaiono anche dopo 40 anni, ma sono tutte le nuove tecnopatie la vera “ultima Thule”, la frontiera della quale sappiamo pochissimo. Sappiamo solo che la gente sta male, di corpo e di mente.

Nell’agricoltura – ad esempio – aumentano molto i tumori: a causa dei sempre più specializzati fitofarmaci? Un caro amico è morto, molto tempo fa, con la pelle a brandelli a 33 anni: lavorava nelle serre.



Perché tanto silenzio intorno a questi fattori che ci decimano? All’estero, le aziende fanno a gara nell’esporre cartelli con scritto “Qui non avviene più un incidente sul lavoro dal...”: ne fanno un punto d’onore.

Con la riforma Fornero è stata spostata molto in là l’età della pensione: in effetti, un tempo c’era la quasi certezza d’arrivarci. Oggi, è solo una probabilità.

Il secondo passo è proprio fare in modo che meno persone possibile c’arrivino. Il terzo (nelle mire odierne di Cottarelli) è la diminuzione o la dismissione delle pensioni di reversibilità.



Operiamo un parallelo fra la situazione di circa vent’anni fa: pensione a 60 anni per gli uomini e 55 per le donne, reversibilità dell’assegno per la quasi totalità in caso di morte del coniuge, pagamento del TFR/TFS dopo pochi mesi.

Oggi: pensione a 65-67 anni, reversibilità dell’assegno (sempre in caso di morte) per circa il 60% massimo (ma dipende dai redditi ed è già nelle mire di Cottarelli colpirle), pagamento del TFR/TFS dopo 2 anni e mezzo. Per chi riesce a prenderlo: cosa prenderanno i lavoratori d’aziende fallite che hanno perso il lavoro?

Questo per chi ancora ha/aveva un contratto a tempo indeterminato: per chi è precario (di varia natura) tutti i condizionali sono d’obbligo.

Sintesi: questo significa ammazzare un Paese, anzi, i suoi abitanti.



Nel 1990 la popolazione italiana era ancora in crescita: è un indicatore importante, misura la fiducia nel futuro di un popolo. Oggi, viene mantenuta artificiosamente intorno ai 60 milioni immettendo immigrati, ma la realtà è cruda: storicamente parlando, il popolo italiano è in via d’estinzione.

Così è per Spagna, Portogallo, Italia e Grecia: Paesi decretati inutili, da eliminare. Anzi, no: popoli da eliminare.



Jared Diamond racconta la verità quando afferma che il 95% degli indigeni americani ammazzati non fu massacrata con le armi da fuoco: furono le malattie ad ucciderle. Gli europei erano più avvezzi, e da più lungo tempo, a convivere con molti animali domestici (che avevano “passato” le malattie all’uomo): il contatto fu, ovviamente, fatale per popolazioni sprovviste di anticorpi.

Quali sono gli anticorpi che ci mancano per vivere in questa Europa? Come ben sappiamo, i popoli del Nord ci disprezzano per il nostro (a loro dire) lassismo.

Non si tratta di anticorpi biologici, bensì culturali: andiamo a cercarli.



Il primo è la riforma protestante (difatti, le aree cattoliche, nel Nord, arrancano) poiché santifica la ricchezza, la considera un dono di Dio. Il cattolicesimo ha avuto, in questo senso, un atteggiamento ambiguo: ha lasciato correre la ricchezza per qualcuno (e continua a farlo) ma, sostanzialmente, è rimasto radicato al detto che “dei poveri è il Regno dei Cieli”, più ammennicoli vari che parlavano di canapi e di aghi.

La vittoria culturale in economia del Protestantesimo (si pensi alla Amsterdam del XVII secolo, alla Lega Anseatica oppure, più vicini a noi, ai WASP statunitensi), e poi dell’ebraismo – molto simile sui temi economici – era ed è scontata: chi li ferma più?



Il secondo è rappresentato dall’enorme ritardo delle banche d’affari: mentre nel Nord erano presenti da secoli, qui da noi esisteva solo Mediobanca e poco altro. Quando anche le altre banche furono trasformate in S.p.A., concepirono il “nuovo” come un rapporto stretto e durevole con il potere: insomma, si passò dal “salotto buono” milanese con gli Agnelli, i Pirelli e poco altro ad un allargamento, ma solo qualitativo, mai quantitativo. Ciò spiega perché la piccola industria italiana sia sempre nei triboli per cercare finanziamenti, mentre i boiardi di Stato od i privati che si associano navighino nella finanza a gonfie vele. Cosa sono, le banche d’affari dello Stato Pontificio? Chi ha una buona idea, difatti, non si rivolge ad una banca d’affari italiana: va all’estero. Notiamo che l’andazzo non è solo d’oggi: lo scandalo della Banca Romana è datato 1892.



Il terzo è il sistema giuridico: l’habeas corpus entrò a far parte del sistema giuridico anglosassone nel 1215 con la Magna Charta: in Italia, s’imprigiona Cucchi e lo si ammazza, per poi affermare che la legge – sulla base della quale era stato arrestato – era incostituzionale.



Il quarto è la negazione del progresso, quando questo cammino significhi maggior democrazia: è il caso della Rete, dove scontiamo ritardi epocali. Mentre nel Nord si pensa ad incrementare e diversificare le potenzialità della Rete, qui da noi si continuano a studiare leggi per tappare la bocca ai blog.



Il quinto è la sottovalutazione della cultura e della lingua: da noi, un celebre ministro dell’economia affermò che “con la cultura non si mangia”. E’ assolutamente falso. Operiamo un parallelo fra l’attività del Goethe Institut e la parallela istituzione italiana, la “Dante Alighieri”: il primo è, dal dopoguerra, veicolo d’espansione culturale (e non solo) germanica nel pianeta ed i tedeschi non badano a finanziamenti. Le due lingue (tedesco ed italiano) per bacino d’utenza sono quasi equipollenti, l’effettiva espansione della lingua nel mondo è, però, molto diversa. Già, ma è notizia di questi giorni che alla “Dante Alighieri” s’assumeva in nero (cosa risaputa da anni), ed a volte l’istituzione diventava solo terra di conquista di voti (soprattutto dopo la legge sul voto degli italiani all’estero, che ci ha regalato fior di politici come Razzi), con i fondi per gli insegnanti “mangiati” sotto varie forme, nepotismi, ecc.



Riassumendo, un abitante del Nord è rafforzato dalla sua religione, che non gli genera sensi di colpa se s’arricchisce, da secoli sa di poter contare su un sistema finanziario dinamico e sicuro, sposa il progresso ogni volta che lo ritiene conveniente, sa di vivere in un sistema di regole certe ed è accettato ovunque come portatore di cultura.



Un abitante del Sud Europa, invece, se pratica il prestito a tasso d’interesse (in teoria) sa di perdere la vita eterna, se non ha un nome od un blasone non riceve finanziamenti per le sue idee, viene bastonato alla prima occasione sfortunata da una giustizia (?) a volte incomprensibile e sempre di parte, se si lamenta sul Web può essere perseguitato e, quando va all’estero, lo chiamano “pizza e mandolino”, oppure “berlusconi”.



Attenzione: in questi pochi punti non si dà nessun giudizio d’ordine etico e, soprattutto, morale. E’ semplicemente una questione evolutiva per accertare chi sia più “adatto” ad affrontare la modernità. E non si dà nemmeno un giudizio sulla modernità: i perdenti Oglala ebbero centomila volte più “moralità” degli schifosi Washicu, ma finirono nelle riserve.



Questo ci spiega perché in Italia esistano “i” Silvio, che muoiono di cancro perché “è il Fato” e, ogni giorno che passa, in tre/quattro famiglie si piange la morte per lavoro del padre, spesso unica fonte di reddito, oppure si crede che quella di Cucchi sia stata una “terribile fatalità”, o ancora che noi siamo “razzialmente inferiori” ai nordici...tutte storie senza fondamento...in realtà, dobbiamo prendercela solo con la nostra incapacità di guardare con onestà il nostro modo di vivere e di chiederci: è meglio vivere “all’italiana”? E come si può riuscire? Già, ma per un simile dibattito servirebbero dei veri intellettuali: quelli che si ritengono tali, in Italia, vanno ai talk show, ridacchiano e cercano solo visibilità e soldi.



Jared Diamond pone un curioso discrimine per la schiavitù: non presente nelle società più primitive. poiché tutti i componenti erano legati da rapporti familiari o di conoscenza (come nella tribù), ma già presente nei piccoli regni (quelli che definiamo “re pastori”, oppure chefferie in francese). La non-conoscenza dell’altro – ed i vantaggi che lo schiavo procura – fanno passare in secondo piano le remore sulla “proprietà” di un essere umano.

Immaginiamo ora un grande stato sopranazionale, dove le singole parti – per secoli – non hanno fatto altro che combattersi per la supremazia: secondo voi, hanno remore a rendere schiave altre popolazioni?

Non le renderanno schiave nel senso tradizionale del termine, ma ciò che è avvenuto ed avviene in Grecia denota già un potere schiavista: nessuno è stato mosso da pietà per le migliaia di suicidi greci, per la fame dilagante, per la mancanza della più elementare protezione sociale.



Furio Colombo, dalle pagine de “Il Fatto Quotidiano” (3), si domanda come mai la Francia stia “precipitando” nel voto alla destra di Marine le Pen senza trovare altre soluzioni. Riesce a darsela da solo la risposta oppure dobbiamo fargli un disegnino? Chi crede ancora in questa Europa? Poi, ciascuno farà le proprie scelte e, quando ci sarà un Parlamento europeo spaccato in due parti, saranno cavoli amari per Barroso & Co.

Siamo d’accordo che è un voto “tanto peggio, tanto meglio” (in Francia, il Fronte Nazionale ha dimostrato in passato di non saper governare le realtà locali e fu punito col voto, ma la disperazione cresce e l’odio per l’Europa non trova altri sfoghi): ciò indica quanto i francesi desiderino inviare un messaggio di disapprovazione al governo. Marine le Pen non vincerà le elezioni europee, però lascerà una situazione d’ingovernabilità nel Paese: inizia la china discendente anche per la Francia (Paese in realtà ateo, ma ufficialmente “cattolico”), mentre la Germania pensa già all’Ucraina.

Insomma: possiamo rimanere od uscire dall’euro, ma il futuro riposa nel passato, non scordiamolo.



Eppure, fummo dei veri e propri precursori, in molti campi. I banchieri fiorentini, nel 1300, finanziarono la Guerra dei Cent’anni (dalla parte inglese) e presero una batosta economica terribile: il re Enrico II promise molto (come sempre, “sarà una guerra breve”) ma i suoi successori non resero un soldo. Ebbene, già nel 1492 i banchieri fiorentini finanziarono l’acquisto (tramite Amerigo Vespucci) della Santa Maria di Colombo, che non era di proprietà del Re di Spagna, ma la Spagna ebbe l’impero. Sfortuna?

No, la mancanza di uno stato unitario quando ci si poteva ancora imporre nello scenario mondiale e, infine, una pessima (è ancora poco...) gestione dell’Unità, che non andrebbe ricordata, bensì criticata e – se possibile – corretta. Dopo l’Unità, acquisita militarmente – a differenza dello Zollverein tedesco – l’incapacità di gestire uno stato: le gerarchie cattoliche tornarono ad imporsi nel 1929, e fu la fine.



A fronte di queste, poche riflessioni la questione dell’Europa appare sullo sfondo: minuscola, miserrima se confrontata al coacervo di cause storiche che ci circondano. Restiamo? Faremo i servi. Ce ne andiamo? Ci massacreranno economicamente. La Storia non ammette errori, questa è la triste sentenza.



(1) http://www.zappingrivista.it/primo/articolo.php?nn=7199

(2) http://www.jobtel.it/infortuni-sul-lavoro/

(3) http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/03/25/elezioni-francia-il-disastro-calmo/925453/

17 marzo 2014

Der neue Lebensraum


«Senza considerazione per le tradizioni e i pregiudizi, il nostro popolo deve trovare il coraggio di unire il proprio popolo e la sua forza per avanzare lungo la strada che porterà il nostro popolo dall'attuale ristretto spazio vitale verso il possesso di nuove terre e orizzonti, e così lo porterà a liberarsi dal pericolo di scomparire dal mondo o di servire gli altri come una nazione schiava.»


Adolf Hitler – Mein Kampf



“Due compiti dobbiamo forzarci di dominare in parallelo: interno, dobbiamo tornare ad essere una nazione, verso l’esterno è di realizzare qualcosa che abbiamo fallito due volte: coerentemente con i nostri vicini (sic!), per trovare un ruolo che si adatta alle nostre esigenze ed al nostro potenziale. Il ritorno alla normalità in casa e fuori corrisponde a un desiderio profondo del nostro popolo dopo la fine della guerra. Ora è necessario, se vogliamo essere rispettati nella comunità internazionale…”

Klaus Kinkel – Ministro degli Esteri tedesco dal 1993 al 1998



Eppure, nonostante i due agghiaccianti e belluini incipit che aprono l’articolo, prima vi voglio parlare di un Paese dimenticato la cui Storia è stata sempre scritta, sui tratturi di campagna, dagli zoccoli della Cavalleria. Più tardi, la grafia migliorò e – ordinatamente – i cingoli dei panzer e le ruote gommate degli 88 mm antiaerei disegnarono nuove geometrie sulla pianura ucraina. Infine, la pagina finale della Storia fu vergata dai panzer T-34 russi e, dall’alto, dai crateri disegnati con le bombe dagli Sturmovich.

La storiografia ucraina è basata sulle ossa e sulle ceneri che riposano sotto il suo fertile terreno: è quasi impossibile citarli tutti. Svedesi, lituani, polacchi, ungheresi, francesi, italiani, tedeschi, russi...e chissà quali altre terre hanno dato i natali a chi riposa là, sotto i campi di girasoli: oggi, inizia un altro giro della giostra e nessuno sa come andrà a finire.



Un’ultima annotazione – tanto per mostrare quanto la storia di questo Paese sia un continuo pendolo, a volte quasi fermo, altre vorticosamente parossistico – riguarda Venezia, sì, proprio Venezia.

Ad Aprile del 1945, il poderoso sistema di difesa della città lagunare (comprendente le batterie da 381 mm del Cavallino) era servito da militari ucraini (ex prigionieri di guerra) che avevano sposato il III Reich, mentre i soli ufficiali erano tedeschi: un reparto di artiglieria da fortezza.

I primi accordi per la resa furono redatti da un Tenente inglese che si avvicinò con una motobarca e incontrò sulla spiaggia, proprio sotto le volate dei mostruosi cannoni, gli ufficiali tedeschi. I quali, non avevano nessuna remora ad arrendersi: c’era, però, il problema degli ucraini.

Se non si prendevano accordi con loro – e si garantiva che non sarebbero stati consegnati ai sovietici (erano ex prigionieri che avevano tradito, e dunque sarebbero stati fucilati) – gli ucraini minacciavano di sparare sulla città lagunare e di morire fino all’ultimo uomo.

La cosa finì bene: intervennero gli americani che garantirono la prigionia (e il successivo pass per l’emigrazione) negli USA.



Una annotazione più recente è del 2011 quando mio figlio, appena terminato il liceo, chiede il “regalo per la promozione”: un viaggio in Ucraina con il suo miglior amico, un ucraino che chiameremo Ivan. La famiglia è “buona” e mi fido a lasciarlo andare (la madre, che fa la badante, è ingegnere): mio figlio parte con 500 euro, una fortuna per un ucraino.

I due partono su un furgone di quelli che trasportano merci da e per l’Ucraina, da e per l’Italia, in un antico commercio che ricorda i tempi della Lega Anseatica, le aringhe, i cetrioli nei barili, la vodka.



Dopo un paio di giorni di peregrinazioni fra le frontiere europee “aperte”, ma lente a causa delle dilagante corruzione delle varie polizie, arriva la telefonata: sono giunti finalmente nel piccolo paese dove abitano i nonni, dalle parti di Ivano-Frankisk, nell’occidente del Paese: Lviv (quasi al confine polacco) non è lontana, mentre Kiev richiede un giorno di treno. Odessa (che mio figlio vorrebbe vedere) è troppo lontana e la madre di Ivan non consente pernottamenti fuori casa: troppo pericoloso, afferma.

Per tutto il soggiorno le notizie sono poche e frammentarie e, anche quando i due tornano, non raccontano molto: come sempre, è nelle settimane e nei mesi seguenti che si parlerà del viaggio, di quella terra lontana.



Il racconto di mio figlio avviene “a rate” e racconta di una terra che gli è piaciuta: una terra povera, dove le strade sono orribili e loro due viaggiavano sicuri, sobbalzando fra le buche, con la robustissima Moskvich di memoria sovietica del nonno, perché Ivan – in Ucraina – può guidare. Mio figlio non ha nemmeno la patente.

Ogni tanto, un pezzo di strada normale: “è perché ci abita un politico” afferma, sicuro, Ivan.

L’Ucraina è oggi, terra d’emigranti: addirittura, incontrano un pizzaiolo ucraino (in vacanza) che lavora a Napoli e parla solo ucraino e dialetto napulitane strett strett, che mio figlio riesce a stento a capire. Nu napulitane ucraine: vabbuò, so’ finiti i tempi della Tammurriata nera.

Innumerevoli gli scambi “culturali” con la gente del luogo e le migliaia d’emigranti che tornano in vacanza nella loro terra: ripartono carichi di pezzi “firmati” che costano la decima parte (e che rivenderanno in Italia), ma che non sono made in China. Miracolo? Mah...



Ho domandato a mio figlio se questa gente sia armata o disposta ad armarsi e, soprattutto, se fortemente nazionalista (anti-russa). Le risposte sono state:



Sono anti-russi in gran maggioranza;

Non ha visto armi, anche se c’è da presumere che qualcosa in giro ci sia (certamente non lo dicono ad un italiano, però non c’è la situazione che fu in Bosnia o in Croazia, per capirci);

Sembrano più disposti al “armiamoci e partite”, all’italiana.



Per questa serie di ragioni, concordo – non so fino a quale punto – con chi sostiene un intervento esterno (sul modello libico): v’immaginate cosa succede ad offrire migliaia di euro da quelle parti? A guidare le rivolte, i soliti noti: specialisti delle varie armi europee.

Non concordo, invece, con chi spiega tutto con la “dottrina Brezinskj” e con l’imperituro attacco della NATO alla Russia. Potrà imbonire qualcuno di là dell’Atlantico, ma di certo non l’attuale amministrazione USA (che è stata molto cauta): questa, è una faccenda europea, soprattutto economica.

La strategia militare non c’entra niente: se qualcuno pensa d’indebolire la Russia in questo modo, rifletta su quanto dista Vladivostok. Oppure cambi mestiere, che è meglio.



Ma torniamo alla vita di tutti i giorni.

La gente, lassù, guadagna circa 100 euro il mese: è lo stipendio medio e più normale, perciò mangiare al ristorante costa meno di 5 euro in due, vodka compresa. La “gestione” delle sbronze è in “chiave” nordica: meglio farlo in casa, altrimenti sono botte. D’altro canto, la vodka viene servita a più gradazioni – anche a 90°, da diluire con l’acqua come più aggrada – solo che c’è sempre qualche deficiente che non trova la bottiglia dell’acqua: i poliziotti, però, se ti beccano in strada trovano sempre il manganello.



Kiev è invece un’isola a sé: i prezzi – almeno nella zona centrale – sono esattamente quelli italiani, od europei in genere. Durante la visita di un giorno a Kiev, al ristorante mio figlio pagò – per due persone – l’equivalente di 50 euro, rimanendo incredulo: in un Paese dove la gente guadagna 100 euro?!?

Sarebbe come se in Italia, per un pranzo normalissimo, ti chiedessero mille euro.

La cosa si spiega (vedremo meglio più avanti) un po’ con il solito andazzo turistico delle capitali (Kiev, non ha molto da offrire, a parte le cupole d’oro delle chiese) ma, soprattutto, perché la Casta locale non vuole troppa gente “normale” da quelle parti, al punto che non vedi parcheggiate le solite Audi, Mercedes, ecc dei politici, giacché per andare “al lavoro” in Parlamento usano vecchie carcasse per non dare nell’occhio.



La Casta locale è più corrotta di quella italiana – Ivan puntualizza: “Almeno avessimo i vostri!” (sic!) – e quella santarellina di Julia Timoschenko, con le sue treccine e l’aria da ragazzina in vacanza, era in prigione perché aveva aumentato il prezzo del gas agli ucraini, mettendosi in tasca una fortuna.

Sull’esercito ucraino non farei troppo affidamento: proprio a Kiev, i due videro (poi furono allontanati) un po’ di “najoni” che marciavano all’interno di una caserma. Il problema è che i coscritti ucraini provengono dai quattro angoli dell’Ucraina, ed il sergente che mandò via mio figlio ed Ivan parlava russo schietto!

Già che ci siamo, chiariamo che “l’ucraino”, in sé, non è niente di più di un dialetto del russo come ce ne sono mille da lì a Vladivostok: qualsiasi ucraino comprende benissimo un russo, al più ci sono termini più usati in una delle due lingue piuttosto che nell’altra.



Una domanda che feci a mio figlio riguardava lo stato dell’agricoltura: una terra fertile e ricca...

I campi? Mah...anzitutto – risponde – ci sono molti appezzamenti abbandonati. Trattori? Pochissimi, qualcuno ha un cavallo, ma la gran massa dei piccoli proprietari non ha nulla: i cavalli sono così, nell’Europa del XXI secolo, ciò che unisce queste lande dimenticate.

Nel senso che chi possiede la bestia va in giro ad arare in cambio di soldi o di una parte del raccolto, come si faceva una volta anche qui da noi. Non manca mai, poi, la mangiata (e bevuta) serale alla fine dei lavori.

Un mondo abbastanza tranquillo: durante la raccolta delle patate, mio figlio s’accorse con orrore che i sacchi erano da un quintale: allora strinse i denti e cercò di non recare pregiudizio alla Patria, anche a costo di portare un quintale sulla schiena per un percorso di un centinaio di metri, fino alla rimessa.



Eppure, anche in Ucraina in epoca sovietica, ci saranno state le fattorie collettive con mezzi meccanici: ciò che si capisce dal suo racconto è che, all’indomani del crollo dell’URSS, nelle campagne chi guidava un trattore divenne subito il proprietario del trattore. Siccome, poi, la Belarus (grande fabbrica di trattori sovietica) era, ovviamente, in Bielorussia e la Zetor in Cecoslovacchia, gli ucraini non avevano una fabbrica nazionale di macchine agricole e importare un Ursus polacco non è cosa agevole, in un Paese dove guadagni 100 euro il mese.

Ciò spiega, in parte, l’emigrazione ucraina, anche se i dati in mio possesso riguardano solo la parte occidentale.



Lo stesso andazzo ha colto le ex fabbriche sovietiche: in alcuni casi (pochi) rimodernate, in altri depredate dapprima per i macchinari, poi (la cosa prosegue ancora oggi) per pezzi vari o, semplicemente, metallo.

Insomma, nell’Ucraina odierna è difficile comprendere “cosa fa” una persona, se si eccettua l’apparato pubblico (polizia, esercito, burocrati vari, ecc) poiché spesso si tratta di qualche lavoro alla luce del sole, accompagnato da un altro ancora viziato dalla piccola corruzione di stampo sovietico.



Alla corruzione politica sono già abituati, gli stipendi sono da fame sono la regola...in più, non dimentichiamo che hanno una buona scuola e possono sfornare tecnici di grande valore. Moltissimi ingegneri, che oggi s’arrabattano in Italia, potrebbero tornare con stipendi molto diversi nella loro terra.

Per questa ragione – all’ovest – l’appoggio all’Europa è quasi totale: esattamente il contrario di ciò che avviene nel Sud e nell’Est, dove è l’orso russo a farla da padrone.

Già, ma chi è questo “occidente” che si papperà Kiev e la parte ovest?

La Germania, ovvio...pardon...”l’Europa”...il “nuovo spazio vitale”.



La Germania non ha certo bisogno di terra per gestire la sua emigrazione (come ai tempi di Hitler), ma il boccone di una nazione quasi “a terra”, con stipendi ridicoli ed una classe di buoni tecnici fa gola, oh come fa gola!

Stasera la Russia si annetterà la parte Sud, e questo poteva far parte dei giochi, così come la parte Est – alla fine – difficilmente rimarrà insieme all’Ovest.

Per la Germania un buon affare, per la Russia anche: insomma, una divisione “alla polacca” dei tempi di Ribbentrop/Molotov.



Qualcuno cerca altri interessi, di tipo energetico: perché mai la Russia dovrebbe piangere per l’Ucraina perduta quando ha già in funzione il North Stream (1), che va direttamente dalla Russia alla Germania passando sul fondo del Baltico?

Domani, ci potrebbe essere il South Stream (2): basta che noi europei non c’intestardiamo col Nabucco (3), che non tratta gas russo. Il padrone dei rubinetti è Putin: vogliamo capirlo? E se gira il rubinetto tutto dalla parte di Pechino?

E poi: vogliamo capire che, per Putin, è meglio avere a Kiev una controparte tedesca seria, e non gli arruffapopoli ucraini?

Anche altre opzioni – quali la presenza di scisti ricchi di petrolio, come ricordava Ugo Bardi (non credendoci, in fondo, nemmeno lui) – possono essere i canditi sulla torta, ma il dato essenziale è una poderosa avanzata del capitale tedesco in Ucraina, dove applicherà all’industria locale (da costruire? Non importa) gli standard di tecnologia tedesca che danno così buoni risultati in Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, ecc.



Chi ci perde e chi ci guadagna?

La Russia, la quale s’annette il Sud e così finisce la pantomima dei “porti in affitto” per la sua Flotta del Mar Nero: fra l’altro, così facendo, s’avvicina al confine rumeno (per quel che conta...). Inoltre, Gazprom avrà qualcuno che pagherà le bollette cash, senza più – ogni tot anni – una crisi che minaccia la guerra: bisognerà vedere come s’accorderanno per la zona di Donetsk (Est), dove ci sono i bacini carboniferi.

La Germania “accenderà le caldaie in Ucraina” e, tutto ciò, porterà dei vantaggi anche alla Russia. E l’Europa?

Questo è un passo, della Germania, che previene ricatti sull’euro: qualora (ed è molto probabile) che nel nuovo Parlamento Europeo ci sia una forte componente anti-euro, la contromossa è già lì. Euro1 od Euro2, Euro alla Germania, Euro a chi resta...di fatto, un passo di simile importanza previene una separazione (anche consensuale) europea, della quale la Merkel s’è già detta favorevole.

La missione dell’euro è compiuta: ha arricchito le aree centrali ed impoverito quelle periferiche, come spiega molto bene questo articolo (4).



O come sentenzia “Voci dall’Estero” (5):



“Quanto alla guerra civile che si profila all'interno dell'unione economica e monetaria (l'Euro ) sulla politica monetaria, esiste una facile soluzione. La Germania può recedere educatamente dall'euro e il Sud può essere educatamente d'accordo, ognuno sforzandosi di dimostrare al mondo che è tutto sotto controllo.”



Insomma: ce ne andiamo noi o te ne vai prima tu? Non c’è che l’imbarazzo della scelta.



Chi potrebbe avere un danno, anche considerevole, dallo spostamento ad Est del baricentro “europeo”?

Non l’Italia, la Spagna, la Grecia, ecc...questi sono già “bolliti”...la Francia. Sì, la Francia – quando mancherà il tradizionale “asse” con Berlino – si troverà in una posizione di isolazionismo: sola in Prima Classe (difficile) od in compagnia, come capofila della Seconda Classe?



Meglio non andare oltre: per ora aspettiamo che si stabilizzi la situazione all’Est (non ci metterà molto) poi ci sarà da occuparsi dei contraccolpi europei, che si faranno sentire...oh come si faranno sentire!



(1) http://it.wikipedia.org/wiki/Nord_Stream



(2) http://it.wikipedia.org/wiki/South_Stream



(3) http://it.wikipedia.org/wiki/Nabucco_(gasdotto)



(4) http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-09-22/perche-merkel-vince-germania-140808.shtml?uuid=AbavkWZI



(5) http://vocidallestero.blogspot.it/2013/11/la-germania-sara-la-prima-uscire.html

04 marzo 2014

Dodici stazioni


Già alla prima stazione m’accorsi che qualcosa non andava.


Per il momento decisi d’aspettare e non ciucciai quel latte che la tetta di mia madre, generosamente, offriva.

Finché ero ancora in contatto con i Superiori li informai: controllarono.

Sì, c’era stato uno sbaglio: dovevo andare in un altro posto, ma non c’era modo di rimediare e così tirai un sospiro: bevvi lo stesso latte che mia madre, incredula, tirava dalla tetta e metteva nel biberon. Bisogna portare pazienza, pensai.



Alla seconda Stazione ero all’asilo e ricordo che mi piaceva esplorare il sottopalco del teatro: c’erano mille cianfrusaglie e, da una piccola botola, si riuscivano a vedere le gambe delle bambine.

Mia nonna, intanto, parlava con la suora che insisteva...è così bravo, facciamo che metterlo in prima solo come osservatore, poi si vedrà...ma ha compiuto cinque anni da poco...non fa niente, solo osservatore, poi si vedrà...

Sì, ci fu uno sbaglio.

Così, mi ritrovai ad andare in bici quando i miei compagni di scuola trafficavano con i motorini, col motorino quando andavano in moto, con la moto quando prendevano la patente...mi stufai di rincorrere, e presi la patente a 23 anni. Fanculo agli sbagli degli altri.



Alla terza stazione attendevo i risultati degli esami: terza media, col cuore in gola. Chissà com’è andata.

Nove di Latino e nove d’Italiano: solo sette in Matematica.

Con quella pagella – pensai – il mio sogno di studiare anche il greco e poi chissà...forse l’aramaico e l’egizio...era a portata di mano.

Ma ci fu uno sbaglio, anzi, un’interferenza.

Non considerai che mio padre, finalmente, aveva deciso di esercitare la sua patria potestà e s’impose con mio nonno, che voleva farmi fare il Classico per avere un nipote medico.

Così, il 1° Ottobre del 1964 mi ritrovai al secondo piano dell’Istituto tecnico, aula 207, ad osservare il cielo ed il fabbricato – nel quale era passato mio padre quand’era nuovo – inaugurato proprio da lui, Benito Mussolini in persona.

Il cielo era terso, azzurro, senza una nuvola: che ci facevo lì? Ci doveva essere stato uno sbaglio, non c’era altra risposta.



Alla quarta stazione conobbi l’amore.

Sfrenato, infinito come il cielo, ricchissimo d’ogni bene come il mare.

Navigai sui suoi seni come sull’onda lunga dell’Atlantico, poi mi rifugiai fra le sue cosce come nel porto con l’entrata più angusta ma sicuro, protetto da ogni quadrante dai venti della vita.

Assaporai le sue labbra carnose mille e poi altre mille volte...ma la volta che fu mille e una lei disse che non poteva continuare.

Come? Perché?

Suo padre non mi voleva: avevo la testa troppo nelle nuvole, non ero concreto.

Meglio un Geometra del Comune che conosceva: persona quadrata, che già guidava la macchina e sapeva quel che voleva della vita.

Per una seconda volta qualcuno sbagliò e mi coinvolse nel suo errore: se n’accorse.

Tornò, anni dopo, e mi offrì tutta se stessa in cambio di quell’amore che era oramai trascorso ma che lei diceva poteva tornare...saremo di nuovo noi...

Non s’accorse che avevo cambiato oramai stazione: ero diventato cinico senza saperlo.

Lei tornò alla sua città e sposò il geometra: la incontrai anni dopo e mi mostrò due marmocchi, i suoi figli, ma c’era sempre un’ombra di tristezza nel suo sguardo.



Alla quinta stazione gli sbagli iniziarono a pesare e mi ritrovai a dover rendere un pezzo di fegato.

Siccome era strana una colecistectomia a vent’anni, i professori portavano i loro allievi ad osservare il caso: senz’altro un brutto scherzo della genetica, concludevano sempre.

Ero sempre circondato da camici bianchi.

Uno mi chiese: cosa fai? Biologia, risposi. Auguri, ciao.

A dire il vero, nei miei desideri, sarei dovuto essere anch’io fra quegli studenti: che ci fosse stato uno sbaglio?

Mi chiesi se alla seconda stazione qualcuno non avesse sbagliato a farmi fare la Primina: l’anno seguente ci fu la liberalizzazione dell’ingresso alle facoltà universitarie, e sarei riuscito a realizzare ugualmente il mio sogno.





Alla sesta stazione sperimentai la vita del tombeur de femmes.

Strana vita, che assapori per caso, perché quello è il momento storico della liberazione sessuale, come lo fu per Casanova nella Venezia del ‘700. Corsi e ricorsi storici.

Così, trascorsi notti rubate al sonno e regalate al sesso, ma mai appariva la parola “amore”: nessuno voleva permetterselo perché rischiosa.

Meglio accontentarsi di fugaci sguardi, d’allusioni, che duravano fin quando lei si infilava nuovamente mutandine e reggiseno, quasi strappati via nella foga del desiderio, dell’amplesso liberatore.

Oppure pomeriggi passati nei luoghi più impensati...in una piovosa Alassio, in un casotto della Ferrovia in mezzo alle risaie del vercellese...ma il più delle volte nell’alcova di qualcun altro.

Fu uno sbaglio? Forse, ma dettato dalla Storia: eravamo gli attori dell’incedere dei tempi.



Alla settima stazione ci fu un altro sbaglio: meditai che era ora di mettere la testa a posto, e mi sposai.

Così, nacque una figlia e continuai a fare la mia vita di “mordi e fuggi” con le donne.

A dire il vero, il giorno del matrimonio, mia madre se n’accorse e mi disse che ero ancora in tempo per cambiare idea. Sì, con il cortile zeppo d’invitati, fra le quali la mia “fidanzata” del momento.

Come sempre, in questi casi, pone rimedio un divorzio nemmeno poi tanto combattuto: lei lo sa, tu lo sai...ciascuno per la sua strada. Uno sbaglio cosciente.



All’ottava stazione vinsi un concorso ed entrai di ruolo a scuola a spron battuto: finalmente una boccata d’ossigeno!

La persona che mi fece firmare decine e decine di fogli, però, mi raccontò d’essere un ex docente che aveva, di sua volontà, scelto d’essere immesso nei ruoli amministrativi. Come mai? Non disse nulla ma, di sottecchi, mi fece capire che la scuola, come luogo di lavoro, non brillava proprio di luce cristallina.

Me ne sarei accorto col trascorrere del tempo, quando mi fecero trascorrere diciassette anni in uno sgabuzzino: come tutti i prigionieri della letteratura, da Edmond Dantès Silvio Pellico, divenni scrittore mio malgrado, perché quando sei recluso immagini mondi impossibili e favolosi. Devi pur sopportare gli sbagli degli altri.



Alla nona stazione, in un giorno di Maggio e col ritardo di un “fidanzamento oramai d’argento”, mi (ri)sposai, anzi, ci sposammo e facemmo festa a modo nostro, in una società operaia che c’affittò la sala. C’erano piatti liguri e piemontesi ma semplici, tutto all’insegna di premiare l’amicizia al posto dello stomaco, e la damigiana del vino faceva bella mostra di sé proprio dietro al tavolo degli sposi. I figli ci guardavano un po’ stupiti ma anche allegri per quella festa che, oramai, non s’attendevano più. L’officiante, un assessore, lesse una bellissima storia sull’amore coniugale, tratta da uno dei mille Talmud apocrifi, creazioni di gente strana che, come me, non aveva mai sentito una terra come la “sua”, ma solo un posto dove, temporaneamente, posava i piedi. Non ci furono sbagli quel giorno, nemmeno uno, e salutammo gli amici con qualche lacrima fuggevole, che sono le più vere.



Alla decima stazione ero abbastanza sollevato: di lì a poco sarei andato in pensione e il pallido ricordo di cosa fosse la libertà m’inebriava. Quasi non ricordavo più cosa fosse gestire il proprio tempo come più ti piace, non avere orari, impegni, doveri. La Gretel era lì ad aspettarmi: per ora stava ferma sullo scalo, ma il suo scafo già fremeva al pensiero dell’onda.

Invece, arrivò una professoressa come me, esperta di pensioni, la quale affermò sicura che, per salvare l’Italia dal baratro, era necessario che io lavorassi altri cinque anni.

Avevo sentito quelle frasi, o roba simile, centinaia di volta...il Paese non può aspettare, dobbiamo sacrificarci, la Patria ha bisogno di uno sforzo supremo...eppure l’Italia era sempre quella, un posto dove non si sta mai bene perché i tuoi diritti sono sempre aleatori, ma anche i doveri non li controlla nessuno. Passarono anni, ma la situazione non migliorò affatto: probabilmente ci fu uno sbaglio. Pazienza: avrei rivisto la libertà a fine pena, a 67 anni.



All’undicesima stazione morii.

Chiamai mia moglie, che oramai era diventata sorda, ma non mi sentì: stava chiacchierando al telefono con un’amica. Parlavano di creme, ricordo, creme per le smagliature.

Scivolai in una sorta di sonno, poi in una situazione ovattata dove appena percepivo la vita come la mia, appartenente a me: una luce chiara quasi m’abbagliò e mi trovai nuovamente al cospetto dei Superiori.

Qui, non c’erano stati sbagli: la morte è l’unica situazione nella quale non puoi sbagliare.



Alla dodicesima stazione ero in un anfratto, qualcosa del genere...solo rocce intorno a me, ed una luce che calava dall’alto.

Si passava dalla veglia ad una specie di trance che assomigliava al sonno, dove tutto vorticava con una velocità pazzesca: la storia del nostro e d’altri mondi transitavano alla velocità della luce e, mentre osservavi, ti sembrava di conoscere ogni singola persona, ogni singolo essere e ti pareva di partecipare alla vita d’ogni singola molecola.

Solo una cosa non mi piaceva: in quel labirinto c’era poca luce, solo diffusa...quanto mi sarebbe piaciuta una finestra sul mare!

Interpellai un Superiore, il quale chiuse gli occhi e controllò: ma sì, è vero...qui c’è stato uno sbaglio...dovevi andare al livello superiore, dove ci sono le finestre...ma com’è stato possibile...

Grazie, dissi, ho capito: non si può rimediare...eccetera...ne riparleremo al prossimo eone...



Dedicato ad Elisabetta (Eli) e Luigi Tedeschi i quali – ironia della sorte – sono ambedue romani, non si conoscono personalmente, ma hanno perso, entrambi, i genitori a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro. Il padre di Eli pochi giorni fa. Spero che questa “amicizia elettronica” si faccia sentire e porgo ad entrambi ed a nome di tutti le nostre condoglianze.