26 febbraio 2010

Calepino Italiano del 26 Febbraio 2010

Come da copione, la Corte di Cassazione ha sancito che la corruzione dell’avv. Mills, da parte dell’emissario Bernasconi, per conto del corruttore, l’editore televisivo Silvio Berlusconi, avvenne nel 1999 e non nel 2000 e, di conseguenza, che tale reato è da considerare prescritto.
Come da tradizione, il direttore del TG1 – Scodinzolini – nominato dal Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, ha sostituito la parola “prescritto” con “assolto”, comunicando quindi agli italiani quel che da anni sostiene il finanziere/costruttore Silvio Berlusconi, ovvero d’esser bersaglio di un’acclarata persecuzione.
Nella sentenza, viene così riconosciuto un risarcimento, “per danni d’immagine”, da parte del condannato/prescritto Mills nei confronti del presunto corruttore/”prescritto in divenire” editore Silvio Berlusconi, ma contemporaneamente Presidente del Consiglio dei Ministri italiano, Silvio Berlusconi.
Come si giunge a tanto?
La Corte di Cassazione ha stabilito i termini temporali della corruzione sotto la presidenza del magistrato Vincenzo Carbone, che rimane alla presidenza della Corte per volere del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi il quale, in due occasioni, ha posticipato l’età della pensione (obbligatoria) per i magistrati, dapprima da 72 a 75 anni, poi da 75 a 78. Insomma, chi vuole resta[1].
Ma, chi ha studiato il provvedimento per rialzare nuovamente l’età della pensione del Presidente della Cassazione, Vincenzo Carbone, è il Consigliere di Stato presso la Presidenza del Consiglio Luigi Carbone, figlio di Vincenzo.
Così, il corruttore/prescritto Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi – condannato a pagare, nel processo civile per la cessione di Mondadori, 750 milioni di euro come risarcimento nei confronti di Carlo De Benedetti, poiché la corruzione degli avvocati e magistrati romani Previti, Acampora, Pacifico e Metta fu dimostrata (corrotti senza corruttore?) – si vedrà risarcire 250.000 euro dall’avv. Mills, una parte dei 600.000 euro che il corrotto/prescritto avvocato inglese acchiappò, tramite intermediario, dal presunto corruttore/”prescritto in divenire” editore Silvio Berlusconi.
Giunti a questo punto, confessiamo che la testa ha iniziato a ronzare e ci siamo chiesti se eravamo all’altezza di un così alto compito, ossia annotare nel nostro calepino le vicissitudini di questo grigio Venerdì di Febbraio.
Siamo giunti alla conclusione che nemmeno il grande Leonardo Sciascia sarebbe stato in grado di tratteggiare un così vasto e complesso quadro, al punto che ne sarebbe rimasto travolto e l’ira l’avrebbe sopraffatto.
Solo la ieratica e talvolta beffarda ironia di Pirandello potrebbe giungere a tanto, poiché distaccata e quasi sorridente, nel rimirare l’agitarsi delle miserie umane. Perciò, qui concludiamo.
Così è, se vi pare.
Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.

[1] Fonte: http://www.repubblica.it/2009/10/sezioni/politica/giustizia-14/pensione-magistrati/pensione-magistrati.html

24 febbraio 2010

Quando la melma arriva alle labbra, s’invoca la privacy

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente.”
Bertolt Brecht

E’ di oggi la notizia che il Tribunale di Milano ha condannato Google per aver pubblicato un video girato in una scuola, nel quale si vedeva un giovane affetto da autismo vessato da alcuni compagni di classe[1].
Il fattaccio avvenne nel 2006 in un Istituto Tecnico di Torino: la notizia ed il video fecero il “giro” del Web e, solo dopo, delle redazioni dei giornali.
Ricordiamo che quel video fu importante, per comprendere il livello di “bullismo” nel quale erano precipitate alcune scuole: seguirono quelli con le “pruderie”, le “attenzioni sessuali” – vere, false, presunte, poco importa, questo è la Magistratura a doverlo accertare – da parte d’allievi ed insegnanti.
La condanna, di per sé mite – 6 mesi con la condizionale – è stata inflitta a tre dirigenti di Google per non aver rispettato la privacy del ragazzo vessato, mentre non è stata riconosciuta la diffamazione dello stesso.
Lasciamo la vicenda processuale – i genitori del ragazzo avevano già ritirato la querela nei confronti degli imputati, mentre l’associazione ViviDown proseguirà in Appello per il reato di diffamazione – e scendiamo nel mondo di tutti i giorni, quello dove le botte sono botte e gli sputi pure.
Caliamoci nella parte del ragazzo: solo, impaurito, abbandonato, mentre i suoi aguzzini lo spintonano, lo picchiano, inframmezzando il tutto con saluti nazisti mentre vergano sulla lavagna il simbolo delle SS.

Prima di procedere, vediamo quali possono essere state le responsabilità della scuola, perché – come s’appurò in seguito – quel comportamento era abituale.
Fenomeni sporadici di violenza (contro se stessi, altri, ecc) possono avvenire ovunque ed è molto difficile essere presenti nell’attimo “fuggente”.
Ovvio che durante una lezione è responsabile il docente e, se non è addormentato o in trance, nulla avviene, poiché il docente ha tutti i mezzi per intervenire. Se non ha sufficiente carisma per affrontare la situazione, può sempre avvertire il Dirigente, che a sua volta dovrà prendere provvedimenti, fino a chiamare la Polizia.

E’ invece più difficile controllare i tempi di pausa, ossia l’intervallo oppure i cambi d’ora, poiché in quegli istanti i docenti si spostano da una classe all’altra, lasciandola “scoperta”. Pochi sapranno, però, che la sorveglianza dei corridoi è assegnata ai Collaboratori Scolastici (i bidelli) i quali non sono soltanto dei “frati scopini”.
Chi svilisce i bidelli di fronte agli allievi (purtroppo, talvolta avviene) commette dunque un grave errore, poiché mina l’autorità di chi ha un compito da portare a termine, ossia “supplire” nella sorveglianza mentre i docenti cambiano classe.

Il momento più pericoloso è sempre l’intervallo, perché i corridoi s’affollano e, qualora avvenga un’improvvisa colluttazione – pur mantenendo il proprio posto di sorveglianza in corridoio (ci sono appositi turni) – quando si riesce ad arrivare è sempre tardi.
Capitò molti anni fa nella mia scuola, quando due allievi si presero a botte per una questione di femmine: un dente rotto ed una mano sanguinante. Quel giorno non ero in servizio, ma mi raccontarono che tutto avvenne così fulmineamente che nulla si riuscì a fare.

Un caso più grave avvenne in una scuola non lontana – non citerò il luogo, perché la storia fu assai triste – quello di un ragazzo che, durante l’intervallo, attraversò di corsa la classe e si gettò nel vuoto dalla finestra aperta, uccidendosi. Il tutto, sotto gli occhi dell’insegnante che era seduta alla cattedra, che dovettero poi portare via, anch’ella, in ambulanza per lo choc subito.
La docente fu ovviamente assolta da qualsiasi responsabilità, poiché non si poteva assolutamente prevedere una cosa del genere. Se mai, sarebbe stato necessario ascoltare prima quel ragazzo, capire cosa lo agitava, ma si sa: voti ed interrogazioni hanno sempre la precedenza, con tanto di tabelle esplicative per la valutazione, mentre ascoltare qualsiasi cosa che non sia ripetere la lezione è un optional, che pochi praticano.

Tornando a bomba sul caso di Torino, si scoprì che quei comportamenti erano abituali: il poveretto, chissà da quanto tempo subiva botte ed angherie.
Chi interviene a salvarlo? Il docente? Il Preside? Un ispettore del Ministero? Miss Gelmini in persona? “Papi”?
No, chi lo salva è la colossale ignoranza e la spavalderia dei suoi aguzzini, i quali – non contenti – pubblicano il “frutto”, la prova provata della loro “virilità” nei confronti di una persona inerme. E, se non ci fosse stato Google (o chi per esso, nel senso dell’informazione), oggi quel povero ragazzo sarebbe ancora là a prender botte e sputi.
Ma, l’informazione, cos’è?

E’ una roba che se la prende, da un lato, con il Presidente del Consiglio – e non a torto – e dall’altro con la Magistratura e la “cattiva stampa”. Per noi, gente comune, bisogna perlomeno che ci passi sopra un camion e che dopo faccia retromarcia, per “fare notizia”.
Se non ci fosse stato quel filmato reso pubblico da Google – diamoci una sveglia, signori miei – nessuno si sarebbe accorto di niente: tante belle chiacchiere sul “bullismo”, fiumi di parole con l’autorevole intervento degli strizzacervelli e dei pedagogisti. Quel video, a differenza delle chiacchiere, inchioda.

Mi piacerebbe chiedere a quel ragazzo se quel filmato – indubbiamente difficile da “digerire”, poiché essere filmati alla berlina non fa piacere a nessuno – non ha cambiato la sua vita, almeno per quanto riguarda la sua vita scolastica.
Se così non fosse – ossia se le cose fossero continuate come prima – allora sarebbe la scuola a doversi giustificare ed, eventualmente, a pagare.
Invece, s’invoca la “privacy”.
Ma quale privacy? Quella di prender botte e star zitti?

I giornalisti che fotografarono i bambini vietnamiti che scappavano, con il napalm americano che mordeva loro la carne, rispettarono la “privacy” di quei poveretti, oppure ritennero che fosse di primaria importanza mostrare la mostruosità di quei bombardamenti?
Chi riesce, oggi, in Afghanistan, a raggiungere un villaggio appena “bonificato” dalle forze occidentali – nel quale si notano gli inequivocabili segni delle bombe a caduta libera o di quelle a grappolo – e filma l’orrore dei corpi straziati, dovrebbe forse porsi il dilemma di rispettare la “privacy” di quei cadaveri e dei loro congiunti?
Ci viene il sospetto che questo “richiamo alla privacy” sia il prodromo sin troppo acclarato di un rinnovato “me ne frego!”, di lontana memoria.

Mentre il Paese sta sprofondando nella melma, mentre non c’è più angolo della vita politica che non emetta soffocanti miasmi, il Presidente del Consiglio lancia invettive contro le intercettazioni, che mettono a nudo il groviglio d’interessi corrotti che stanno strangolando il Paese: noi, la gente italiana.
Il problema non è chi dà le botte oppure chi ruba sulla Sanità, non è neppure scoprire se ci sono persone che sono state probabilmente elette al Parlamento grazie alle “soffiate” dei mafiosi.
Il problema è che qualcuno possa scoprirlo.
Che qualcuno pubblichi, smascheri le “bordate mediatiche", mostri il centro dell’Aquila ancora ridotto in macerie. Che ci sia qualcuno che fotografa il viso di una madre sanguinante, perché i pretoriani romani sono saliti lassù, in Val di Susa, per far rispettare l’ordine imperiale.

Nella società dell’apparire, nessuna voce dissidente deve giungere all’udito delle persone: un mieloso, mellifluo cantico di benemerenze deve tutto circondare, quello dei “paladini del bene e della libertà”, l’ultimo miracoloso ritrovato del capataz di Arcore – probabilmente una costola di Mediaset – che dovranno contrastare il “pessimismo” degli italiani.
E, qualora i “paladini” si trovassero di fronte a filmati imbarazzanti – oggi un ragazzo picchiato, domani un assessore che intasca una mazzetta, dopodomani una telefonata dove si concorda un voto di scambio – s’invocherà la “privacy”.

Non dimenticherò mai che, sul cadavere d’Alfredino Rampi, si giocarono le fortune della P2 e, ahimè, le nostre simmetriche disgrazie.

Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.

21 febbraio 2010

Luglio ‘56



Sette ponti più in alto del mare
la girobussola segnava il domani
ventimila tonnellate d’acciaio
ubbidivano alle mie mani
sulla prua si frangeva la notte
la guardia franca stava per montare
e il terzo ufficiale osservava distratto
l’occhio magico che scruta il mare.

Giù nelle cabine si faceva all’amore,
nel gran salone la festa moriva
e l’orchestrina regalava le ultime note
che scivolavano giù nella stiva.
Il marconista s’era tolto la cuffia
…niente più Genova da chiamare…
e fu guardando dall’alto del quarto ponte
che la vide arrivare…

Rit.
Acqua, acqua
acqua giù in sentina
acqua, acqua
acqua giù in turbina.
Getti di vapore in coperta
la pressione che sembra impazzita
battono ancora le eliche l’onda,
cercando un po’ di vita…

Nera com’è nera mio Dio l’acqua di mare
com’è nera, quaggiù nella cala…
Il primo di macchina forse ancora dormiva
mentre scendeva giù per la scala...
Ma qui, in mezzo all’Atlantico, mio Signore
una caldaia no non può scoppiare…
Com’è verde l’acqua a Portofino
com’è verde l’acqua del mio mare.

Ma il comandante certo non dormiva
un comandante no, non può dormire
c’è sempre un ospite da salutare
c’è ancora un cocktail da servire…
Forse fu l’unico a capire,
s’alzò di scatto quando udì lo schianto:
Oh dimmi nave, mia bella nave
chi ti ha affondato una lama nel fianco!

Rit.
Acqua, acqua
acqua nella stiva
acqua, acqua
fra la gente che dormiva…
Ora, lassù in plancia,
il terzo sta ancora a guardare
di fronte all’occhio magico
che non era riuscito a parlare…

Certo, con tre compartimenti allagati,
New York ora è così lontana
Oh Nantucket, oh maledetto oceano,
sia maledetta la tua triste fama…
Ora il primo di macchina è incollato
al manometro del vapore
mentre dall’alto chiedono, implorano:
pressione ancora per due ore.

Ma quando lui salì su in plancia
capì che era solo un addio:
venti gradi sbandati a dritta
senza governo, sei nella mani di Dio…
Forse per un attimo, un attimo solo
pensò che no, non la voleva lasciare…
poi diede ancora l’ultimo ordine:
piano con gli argani, scialuppe a mare!

Rit.
Acqua, acqua
colma d’acqua è la stiva
acqua, acqua
fin sulle bandiere a riva…
ma l’acciaio ancor si dibatteva
si rivoltava, non voleva morire…
Fa mio Signore che il mare non abbia
tanta acqua da poterla coprire…
Fa mio Signore che il mare non abbia
tanta acqua da poterla coprire.

Testo e musica di Carlo Bertani, Luglio 1988.

Riproduzione vietata, tutti i diritti riservati, Copyright 2010. E’ solo possibile linkare a questo blog.

19 febbraio 2010

Le badanti



Je veux dédier ce poème
A toutes les femmes qu'on aime
Pendant quelques instants secrets.
A celles qu'on connaît à peine
Qu'un destin différent entraîne
Et qu'on ne retrouve jamais

Voglio dedicare questa poesia
a tutte le donne che si amano
per qualche segreto istante.
A quelle che si conoscono appena,
che un diverso destino coinvolge
e che non s’incontrano mai.

Antoine Paul – Les passantes – 1911

Svoltano l’angolo della viuzza, antica come il rintocco delle campane, e si gettano frettolosamente nella statale: l’attraversano e si fermano di fronte alla Farmacia. Sembrano aver fretta, attendere qualcuno, essere attese.
Sono due, grassottelle e bionde, hanno entrambe le mani occupate a reggere pesanti sporte colorate: grandi borse di paglia intrecciata, sulle quali s’intravedono le ombre d’improbabili scenari tropicali. Tropici del tempo che fu – verrebbe da dire – tanto le palme ed il mare sono sbiaditi.
Attendono nervosamente, con l’ansia di chi spera: che cosa e come non si sa, ma si spera.
Forse c’è la paura d’esser giunte in ritardo, la speranza che altri ritardino, oppure che l’orologio sia rimasto sapientemente puntato qualche minuto avanti, per non concedere al tempo il lusso di sfuggire.
Parlottano, con quella cantilena russa che arrotonda le vocali e le allunga, per poi troncare la parola in un amen, come a dire che la vita può essere sì armoniosa, mentre il destino è sempre incerto.

Un furgone bianco, che appare dopo aver svoltato la curva, tronca a metà la frase: non sapremo mai se erano confidenze d’amore oppure trepidazioni di madri, poiché quel furgone bianco è il deus ex machina che irrompe nel proscenio, e tutto tacita.
E si ferma, proprio accanto alle donne.
Miracolosamente, la scena si anima e si tinge di nuovi colori: anche le stampe scolorite delle borse sembrano riprendere vigore.
Due uomini scendono: sono magri e slanciati, capelli scuri, giubbe con mille tasche che possono contenere di tutto, scarpe da tennis ai piedi. E parlano.

Non capisco – ovvio – cosa si dicono ma sembrano reminescenze di qualcosa che è lontano, oltre l’orizzonte del tempo, mentre comunicano con frasi brevi: a volte un sorriso sboccia furtivo sui visi delle due donne, oppure un gesto pare quasi voler cancellare la frase appena udita.
La scena adesso prende vigore ed accelera, poiché i due uomini aprono il vano posteriore del furgone e salgono: il contenuto delle borse viene svuotato con cura e, ogni pacchetto, trova un posto che sembra esser già stato assegnato all’inizio dell’avventura, quando il furgone era ancora nella pianura ucraina, placidamente adagiato nell’aia di qualche dimenticata cascina, oppure in un capannone della zona industriale.
Appena le mercanzie hanno raggiunto il loro posto, le borse tornano a riempirsi con altri, misteriosi, involti: non smettono di parlare, di gesticolare, di sorridere.
Terminata l’operazione, i saluti sono furtivi, come quelli dei viandanti nella notte: i due autisti riprendono posto in cabina, ripartono, e le due donne tornano ad imboccare le antiche viuzze del centro storico. L’ultima immagine che la mente registra è una targa ucraina, con misteriosi caratteri cirillici mescolati ad altrettanto intelligibili lettere dell’alfabeto latino.

Quella stessa mattina, so che arriverà la legna: l’Inverno è duro, e non basta mai.
Come tutti gli anni, e tutte le volte che arriva il camion con la legna, già so che Ivan – l’amico “del cuore” di mio figlio – ci sarà. E, come tutti gli anni, si ripeterà la solita cerimonia: non voglio soldi perché io amico. Risposta: proprio perché sei un amico, possiamo farti un regalo? I soldi per la pizza?
Se sono soldi per la pizza allora va bene, Ivan accetta, altrimenti l’amicizia – se fosse stato salariato – sarebbe infranta.
Ma mio figlio lo invita a pranzo, e Ivan non può sottrarsi: anche in quel caso, l’amicizia sarebbe per lo meno incrinata. Deve però recarsi a casa – solo per lavarsi, so che è una scusa – e se ne va.
Torna che profuma di doccia appena fatta con due pacchetti, che posa sul tavolo, precisando che sono per me: si vede che il capofamiglia – in Ucraina – ha ancora un ruolo che da noi s’è perso.
C’è una bottiglia di vodka ed il classico formaggio “a fili”, che assomiglia alle nostre scamorze affumicate e serve ad accompagnare la birra fatta in casa: Ivan, ogni tanto, si ferma con noi a bere una birra e, sempre ogni tanto, porta un po’ di formaggio. L’equilibrio è perfetto, le tradizioni rispettate: tutti possiamo ancora crederci uomini, “sotto il vento e le vele”.

Ivan non s’offende se mi sbaglio e lo chiamo “russo”, anche se mi ha raccontato che è di Lviv, quasi in Polonia, perché c’è un’anima comune che va oltre la geografia e la politica. Anzi, mi sussurra anzitempo di conoscere già il nome del vincitore alle prossime elezioni: «Sarà Yanukovich, è meglio per tutti.» Pragmatismo slavo, merce che talvolta si pensa che non esista, spesso subissata dalla nostra idea dell’oriente slavo: dalla mattanza jugoslava agli incessanti conflitti interni di Dostoevskij.
Ivan frequenta un Istituto Professionale, ma già lavora – quando lo chiamano – per dare una mano nella falegnameria, quella del proprietario della casa che hanno in affitto: lui, la madre e la sorella. Degli uomini della famiglia spesso racconta: padre, nonni, zii…che sono rimasti là, in Ucraina, a seminare e raccogliere le patate, a distillare la vodka, a resistere al vento della steppa. Perché? Poiché c’è un senso atavico in quel “resistere”, quasi che fosse la garanzia dell’esistere, del testimoniare il trascorrere del tempo sotto quei cieli bigi, con le auto scassate e la Polizia che si compra e si vende per cinque euro.
C’è però in Ivan un sentimento nobile che traspare nella dignità del sedersi, di versare la birra nei bicchieri, nel raccontare le storie lontane e vicine. E, man mano che il tempo passa, comincio a capire chi ho di fronte, chi veramente è il ragazzo che osservo spazzare di fronte alla falegnameria.

E’ un pomeriggio d’Autunno, e mio figlio sta provando la lezione che dovrà mostrare al suo insegnante al Conservatorio: squilli di tromba e “stecche” si susseguono ordinatamente. A rompere la sequenza, però, la voce di Ivan; «No, Emi, no: qui tu fatto La naturale, no, dimenticato, bemolle in chiave, non La naturale!»
Vengo così a sapere che Ivan non conosce solo approssimativamente la musica, perché è difficile dare un simile giudizio mentre s’ascolta e si segue, contemporaneamente, lo spartito. “Perché ci vuole orecchio”, direbbe Jannacci.
Così, una sera, racconta con la semplicità dei semplici che lui ha studiato violoncello. Gli chiedo quanto gli mancava, in Ucraina, per terminare gli studi.
Lui, con un’innocenza che è rara da scorgere nei ragazzi italiani appena mettono nel cassetto un “pezzo di carta”, semplicemente afferma: «No, io finito, finito cinque anni di violoncello con diploma.» Punto. E che punto.
Non so cosa prevedano i piani di studio ucraini in merito, però questo ragazzo che studia meccanica al Professionale è diplomato in violoncello. E il violoncello?

Qui, glissa. Non riesco a capire bene che fine abbia fatto il violoncello…c’entra la nonna, voleva che lui studiasse lo strumento…ma di più non si riesce a sapere. Se qualcuno ha notizie di un violoncello scomparso nelle nebbie della globalizzazione, ne dia notizia, per favore.
Può darsi che, con il progredire dell’astronautica, un giorno lontano scopriranno in qualche nube cosmica dimenticata un guazzabuglio d’oggetti che, questa gente travolta da eventi non suoi, non appartenenti alla loro vita, è stata costretta ad abbandonare. Se trovassero il violoncello di Ivan, prego inviare una mail allo scrivente od ai suoi eredi.

Se c’è Ivan, però, c’è anche Samir, che è una discreta testa di c…
Perché?
Poiché Samir ha la bella abitudine di farsi prestare le cose e poi, per riaverle, bisogna cercarlo con i segugi. Per carità, non ruba mai nulla, semplicemente “si dimentica”: la mia prolunga elettrica la tenne sei mesi, punta e mazzetta tre. Per fortuna c’è il fratello Youssuf, che è più serio.
Quando la pazienza termina, allora si ricorre a Youssuf, il quale allarga le braccia «Testa di m…» ruggisce in buon italiano, se lo fa ancora lo dirò a Mohammed.»
Perché Mohammed è il più vecchio dei fratelli, ed è il capofamiglia: guai se lo venisse a sapere! Sarebbero botte.
Ovviamente, per la gente del posto Samir è un “brucia”, uno sul quale non fare affidamento: per quelli un po’ più leghisti, diventa subito un “marocchino di merda.”
Dimenticano, questa buona gente, che spesso si comportano nell’identico modo (o peggio): un familiare di mia moglie, chiese ad un cugino se poteva mettere l’automobile sotto una tettoia che il parente non utilizzava. Certo, io non la uso…
Dopo vent’anni gli presentò il conto: usucapione, adesso è mia, vai pure dall’avvocato se vuoi.
Io stesso ricordo che un amico prete mi prestò un trapano a manovella per fare un buco nel bosco, dove non c’era corrente elettrica: non sapevo come fare, dopo 12 anni, a riportarglielo. Difficile, per uno scrittore, non trovare le parole, eppure non vennero: per fortuna che era prete, e che la carità cristiana ebbe il sopravvento.
Non per questo, però, sono diventato un “italiano di merda.”

Ma i ricordi vanno all’indietro, ad una sera di tanti anni fa, quando un amico allevatore venne a trovarmi portandosi appresso il suo “aiutante”: la luce delle scale era spenta e, l’aiutante, era così nero che quasi non lo vidi.
Ci sedemmo e, soprappensiero, versai del whisky in tre bicchieri: all’ultimo momento mi ricordai, imbarazzato, che l’ospite poteva essere musulmano.
Fu lui stesso, in un italiano stentato, a togliermi dall’imbarazzo: «Sì, musulmano, però…» e scosse il capo sorridendo.
Se l’italiano era approssimativo, il nostro guardiano e mungitore di capre parlava correntemente inglese e francese: quando dico “correntemente” intendo sostenere che non riuscivamo a stargli dietro.
Già, perché oltre alle lingue aveva anche una laurea in Economia.
Come mai, allora, l’emigrazione?

Colpa del Presidente Carter.
La sua famiglia – spiegò – possedeva un’azienda agricola dove producevano arachidi. Subito la mente s’ingombra d’immagini, dove schiene nere e sudare zappano una terra arida e polverosa, accompagnando la fatica con antiche cantilene tribali.
E’ lui stesso a spazzare la mia mente: «Avevamo due trattori, un Fiat ed un Renault, e le cose andavano bene. Io e mia sorella aiutavamo nei lavori di campagna, ma entrambi abbiamo studiato fino alla laurea.»
E poi? Dopo?
Dopo arriva Carter, che è un coltivatore estensivo d’arachidi, ed iniziano complessi “accordi” con il suo Paese: difficile capire i termini della questione, un po’ per la lingua, ma soprattutto perché lui è un economista e spiega con dovizia l’argomento, usando termini tecnici che noi non conosciamo.
In buona sostanza – riusciamo a capire – il prezzo delle arachidi comincia a dimezzarsi ogni anno, per più anni: non c’è bisogno di chiedere altro per comprendere.
Giunge così a Genova – all’epoca non era necessario usare i barconi – sbarca da un mercantile e cerca lavoro: il primo ricordo che ha dell’Italia – ricorda – furono un paio di banane che acquistò in un negozio. Non conosceva ancora il valore del denaro italiano, ma dal resto che gli diedero comprese che erano costate parecchio: lui, le raccoglieva in giardino.

Qualcuno dirà che esistono anche i delinquenti: certo che esistono. Io stesso me ne ritrovai due quasi “precipitati” in casa: s’erano arrampicati lungo le tubazioni esterne del metano. Fui fortunato e loro sfortunati, giacché una sciabola a pochi centimetri dalla gola convince, mentre prendere la via della fuga costò ad uno dei due una caviglia rotta. Mi fecero quasi pena, nel vederli arrancare lungo la viuzza mentre fuggivano, con quello con la caviglia rotta che gemeva e l’altro che cercava di scrollarselo per scappar via veloce: dalla parlata, mi sembrarono albanesi. Ma l’amichetto dei giochi di mio figlio, ai giardinetti, era il figlio di un muratore albanese e mia moglie discorreva con la madre delle solite cose, che tutte le madri hanno da meditare con altre madri.

Viene allora da dire che è in pericolo la nostra cultura, la nostra religione, il nostro “essere” italiani: vorrei ricordare che nessuna cultura, non timorosa di se stessa, ha mai avuto problemi di confronto. Ne siano esempi l’India inglese, dalla quale gli indiani si liberarono, cercando però di mantenere “l’impianto” amministrativo, scolastico ed organizzativo inglese. Oppure la tradizionale emigrazione curda e turca in Germania.

Mustafà era proprio un “vu cumprà” nel senso stretto del termine: girava mercati, strade e case per vendere le solite cose: calze, magliette…
Ogni tanto passava da casa nostra: suonava e proponeva la merce. Talvolta compravamo qualcosa, altre volte no: quasi sempre si beveva un caffè assieme.
Un giorno giunse e, già sulle scale, si lamentava del Ramadan: è dura, però bisogna farlo…
Come un perfetto ignorante, lo invitai a prendere il solito caffè, alle solite quattro chiacchiere: solo dopo ricordai che non poteva prender cibo né bevande durante il giorno.
Notai che era un po’ sulle spine, ma non ci feci troppo caso: in realtà, Mustafà era combattuto fra due precetti, ossia rompere l’impegno religioso oppure offendere l’ospite. Ritenne, evidentemente, che offendere l’ospite sarebbe stato più grave e confidò nella comprensione di Allah. Si sa: gli Dei sono omnicomprensivi, e dunque possono anche sorvolare su un caffè “corsaro”.

Oggi, un’indagine rivela che il 45% dei ragazzi italiani non si fida degli stranieri, oppure li odia. Per conforto, un buon 40% non prova questi sentimenti.
Mi chiedo se questi ragazzi abbiano mai provato ad ascoltare i loro vicini di banco, di scuola, di bar, di piazza.
Ho avuto il privilegio di poterlo fare, di riuscire nel convincerli a farlo.

Quando, anni or sono, nella nostra scuola apparve qualche indizio di razzismo – per carità, semplici risatine di sufficienza, sussurri fra “italiani doc”, marginali tentativi d’emarginazione – in accordo con il Preside decidemmo un’iniziativa “giornalistica”.
Con la redazione del giornalino scolastico e della radio d’Istituto, organizzammo una serie d’interviste: i ragazzi italiani intervistarono i loro coetanei d’altre nazionalità sulla loro terra, il loro passato, le loro esperienze. Dopo, ovviamente, aver ricevuto l’assenso dai ragazzi stranieri all’intervista.
Io non feci altro che organizzare le interviste: tempi, modi, formati audio, ecc. Poi, li lasciai “sbattere”.

Dopo qualche giorno, uno degli intervistatori mi fermò in corridoio e mi condusse sulla scala antincendio – il luogo dove ogni proibizionismo scolastico cede – e solo allora m’accorsi che aveva gli occhi lucidi.
«Prof, ho l’intervista ad Erika, ce l’ho qui nella chiavetta,,,»
«Bene, poi la ascoltiamo e…»
«No, prof, questo lo so, nessun problema…solo che…»
«Che cosa?»
«Solo che…ho dovuto farmi forza per non piangere mentre la intervistavo, ci sono riuscito, però…»
«Però?»
Sbottò: «Ma come si fa a rimanere indifferenti, quando senti raccontare della fame, delle giornate trascorse a cercare semi di girasole per mangiare…e poi gli scafisti, un bambino…non ho capito bene se morì durante la traversata, poi vedremo se si riuscirà a capire meglio riascoltando…e la madre che non voleva che lo gettassero in mare…» scoppiò a piangere.
Volle continuare «Come si può pensare che sia la stessa Erika con la quale andiamo in discoteca: nascosta per giorni in un uliveto nelle campagne del Salento, che si nasconde e striscia per raggiungere un vagone, poi sale sperando che la polizia non trovi lei e la famiglia… ma come si fa, come può succedere…»

Non ho nessuna difficoltà ad ammettere che esistano situazioni ben diverse, nelle quali è difficile comunicare: io stesso, mi trovai nella condizione di far scivolare la conversazione sulla lama di una sciabola.
Però, ascoltiamo poco, quasi niente.
Allora, mi sovviene un dubbio: forse che il nostro “non conversare” sia dovuto più al non avere niente, o poco, da raccontare?
Cosa possiamo raccontare a questa gente che è fuggita da tragedie inenarrabili, quale aspetto della nostra magnificata cultura li può attrarre? Ci sono le bellezze dell’Arte, ma non illudiamoci: sono bellezze d’altri italiani, d’altra gente, d’altri cieli. Non insozziamo il loro ricordo con gli umori delle nostre fauci.
Cosa possiamo raccontare, oggi, di noi?

Vogliamo narrare come una combriccola di schifosi lenoni e prostitute s’è accaparrata milioni – forse miliardi – di euro per dividerseli, nel nome di una poco giustificata “urgenza” negli appalti?
Che tutto deve passare nel dimenticatoio della normalità, benedetto dagli aedi di regime, dai Minzolini ai Vespa? E’ questo che possiamo narrare? Oppure lasceremo difendere la nostra “cultura” ai Borghezio? Ed alla, di loro, fallace e defunta cassandra?

E la grande Europa, quella che nei suoi documenti costitutivi desiderava andar oltre la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, che fa? Non riconosce un titolo di studio ucraino soltanto perché conseguito fuori dai sacri confini? Lo nega per fare in modo che un violoncellista sia costretto a spazzare una falegnameria?

Allora, si giunge a pensare: aspettate pure trepidanti i vostri furgoni, che portano la vostra vodka ed il vostro formaggio – tanto, nessuna ragazza italiana andrà a pulire il sedere ai vecchietti – ma rimanete non-integrati, salvaguardate le vostre culture perché, al confronto della nostra, sono sacre.

Giovanni Paolo II ebbe a dire che l’Italia era ormai “terra di missione”: inizio a credere che avesse ragione.

Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.

12 febbraio 2010

La guerra di Cementland

Se dovessimo cercare le origini di Cementland, finiremmo nella notte dei tempi, almeno alla metà del secolo scorso, probabilmente prima. Ciò che sappiamo, oggi, è che Cementland occupa la penisola italiana ed altre aree europee, ma solo in Italia le sue colonne cingolate hanno sbaragliato le forze avverse.
Come vedremo in seguito, esiste ancora la resistenza partigiana – la quale, talvolta, riesce a colpire duramente Cementland – ma non esistono più forze in grado d’opporsi in campo aperto: tutti i partiti sono stati arruolati da Cementland.
La vicenda di Cementland non appartiene neppure all’universo complottista, giacché non vi sono eclatanti segreti, “gole profonde”, grembiulini che tramano: tutto avviene alla luce del sole, come per qualsiasi occupazione militare. O la sconfiggi, o ti massacra.

L’occupazione militare dell’Italia da parte di Cementland, come ricordavamo, iniziò in anni lontani: narrano le cronache[1], che il quotidiano “La Notte” – di proprietà della famiglia di cementieri Pesenti – all’indomani di Piazza Fontana fu il primo a correre in soccorso alla bufala della pista anarchica. Sapevano già tutto: era stato Pietro Valpreda.
Oggi, i Pesenti fanno parte dello Stato Maggiore di Cementland, ed hanno “diversificato” molto le loro attività – dalla finanza all’editoria – come potrete verificare nel “quadro” tracciato da uno dei fogli clandestini che appoggiano la resistenza a Cementland, “Imprese alla sbarra”[2].

Come è riuscita, questa forza d’occupazione, a mettere a ferro e fuoco la penisola italiana, a domarla ai suoi desideri, a costringerla alla resa, a farsi consegnare il territorio nazionale?

La strategia è stata, negli anni, quella di un costante aggiramento: come qualsiasi forza d’occupazione, si è servita – secondo le situazioni, i tempi e gli obiettivi da perseguire – dell’attacco frontale, oppure (più usato) del sostegno di più Quisling, a loro volta sodali nella ripartizione dei feudi conquistati.
Il Quisling più appariscente è senz’altro il gen. Berluskaiser, il quale ha costruito Milano 2,3,4,5…mentre medita – chissà? – di portare a termine Milano 8, che sorgerà alla periferia di Pescara.
Sarebbe però sbagliato fermarci a questo caso alla luce del sole, giacché il reggente di Cementland – che oggi ha assunto la carica di vicerè della colonia Italia – è circondato da stuoli di vassalli, valvassori e valvassini, i quali s’esercitano nell’arte della trasformazione del territorio in lande cementate, il primo e vero obiettivo di Cementland.
A volte assurgono a ruoli di governo, come Lunardi (“con la Mafia si deve convivere”), poi scompaiono nell’ombra appena c’è una campagna militare da portare a termine, un altro lembo di territorio da seppellire sotto i cingoli delle loro armate. Scambiano allora il posto con altri generali e colonnelli: per un Lunardi che assume un comando sul campo, uno Scajola va a sedersi allo Stato Maggiore.
Più complessa la gestione dei subordinati: qualcosa viene a galla durante le cicliche cerimonie d’investitura chiamate “Elezioni locali”, ma – presto – tutto torna un brusio appena avvertibile, protetto da milioni di metri cubi di cemento.

Per comprendere la strategia di Cementland, ci viene in aiuto un lavoro[3] preparato dal giornalista Vittorio Emiliani nell’occasione di un convegno che si svolse in Calabria sull’occupazione del territorio da parte di Cementland: tutte le fonti citate sono di agenzie come l’ISTAT, Catasto, ecc, quando non provengono proprio dagli archivi e dalla propaganda di Cementland.
Partiamo dall’inizio, proprio terra-terra, ossia dal suolo consumato ogni anno da Cementland in Italia, confrontandolo con gli altri Paesi europei la produzione di cemento, ossia il più comune munizionamento utilizzato dalle forze armate di Cementland:

PRODUZIONE DI CEMENTO IN EUROPA 2004 (milioni di tonnellate):
Spagna: 46,60
Italia: 46,05 (47,8 % al Nord)
Scandinavia: 35,77
Germania: 33,40
Francia: 21,54
Regno Unito: 12,01
Benelux: 11,03
Austria: 4,03
Altri UE: 10,16
Turchia 41,26

Fonte: Associazione Europea del Cemento

L’Italia è praticamente in testa, poiché bisogna ricordare che la superficie della Spagna è di 504.645 km², mentre quella dell’Italia è di 301.338 km²: in altre parole, l’Italia è appena il 60% circa della Spagna! Eppure, Cementland consuma la stessa quantità di munizioni in entrambe le situazioni operative.
Incredibile, poi, che in altri scenari operativi, i quali contemplano più territorio e più popolazione, il quantitativo di munizioni consumate sia enormemente minore.
Questo dato, se analizzato con maggior attenzione, è il corrispettivo del numero di Quisling e di vassalli che Cementland dispiega sul territorio e – per un diverso aspetto – la resistenza che incontra.

Nel 1998, in Germania – ad esempio – una nota rivoluzionaria proveniente dalla ex DDR – tale Angela Merkel, all’epoca Ministro per l’Ambiente, oggi Cancelliere – fissava per decreto la massima cifra di 30 ettari/giorno da concedere a Cementland, contro i 120 di prima. In Gran Bretagna, Cementland fu fermata nel 1946 con il New Towns Act, che sostanzialmente ricalcava lo stesso principio: la comunità definita “Stato” decide il massimo che può essere concesso all’invasore depotenziandone, così, le mire.

Il consumo medio annuo di territorio (periodo d’osservazione 1950-2005), in Italia – vale a dire le aree che Cementland ha occupato in media ogni anno – è di 221.745 ettari, ciò significa che la “soglia” italiana è di 607 ettari/giorno. Se pensiamo che i tedeschi ritennero che una soglia di 120 fosse inaccettabile e, per legge, la ridussero a 30…
Senza nessun controllo né opposizione, Cementland s’espande nel Belpaese ovunque, sempre di più: se la media 1950-2005 è di 607 ettari/giorno, quella del periodo 1990-2005 è più alta: 669 ettari/giorno. L’invasione s’espande a macchia d’olio.
C’è da chiedersi perché sia consentita una tale espansione, come mai nessuna autorità italiana s’opponga all’invasore. La principale ragione è che i governatori italiani sono governatori coloniali, espressioni di Cementland. Ma c’è dell’altro.

Come va la produzione in Italia? Come sta il sacro PIL? Non tanto bene, grazie: bisogna correre ai ripari.




Fonte: Arnaldo Sciamarelli su Eguaglianza&Libertà 17 Novembre 2006.

Come si può facilmente comprendere, senza il contributo di Cementland il PIL italiano sprofonderebbe sotto zero e no, non si può mostrare al mondo le mutande sporche! Interviene Cementland che tutto sistema: la calce non è forse un ottimo sbiancante?
La Germania, che fino a ieri era il primo esportatore mondiale – superata quest’anno per un’incollatura dalla Cina – può permettersi di contrastare Cementland – poiché, in definitiva, non ne ha bisogno – mentre l’Italia, che ha svenduto il proprio apparato produttivo oppure l’ha demolito, è obbligata a piegarsi ai diktat dell’invasore.

Siamo, in definitiva, come il conte Ugolino: divoriamo il territorio che un giorno sarà dei nostri figli per regalarlo a Cementland ed ai suoi vassalli. In cambio, otteniamo un PIL non proprio sotto zero: siamo come degli sciagurati agricoltori che si nutrono con le sementi dei futuri raccolti.
E’ sempre stato così? Non proprio.
In questa tabella, possiamo osservare chi sono gli “attori” del mercato edilizio, vale a dire chi costruisce e perché: ecco il raffronto (valori percentuali) di 20 anni, 1984-2004.



Fonte: elaborazione CRESME su dati ISTAT

Come si potrà notare, nello scorrere dei decenni l’edilizia pubblica s’è praticamente estinta, l’edilizia di cooperativa (assimilabile a quella popolare) ha perso parecchi colpi, ma anche i privati sono retrocessi: chi s’è imposto?
Le imprese: il “cuore” di Cementland.

Siccome neppure l’iniziativa privata basta più, scendono in campo le grandi corporazioni, veri e propri corpi d’armata di Cementland, i quali possiedono di tutto: giornali, reti televisive, parlamentari, amministratori locali, giornalisti…insomma, occupano l’Italia.
Rimane il problema di giustificare la cementificazione di vaste aree, la vera ragione dell’esistenza di Cementland: non bastano le autostrade, le centrali nucleari, i ciclopici ponti, perché queste sono le grandi campagne militari. Servono le piccole guerre d’ogni giorno per mantenere alta la produzione del munizionamento, per trovare sempre nuove missioni alle colonne cingolate, ai caterpillar d’assalto.
Ecco allora spuntare le mille iniziative sportive: si costruisce un ambaradan stratosferico in provincia di Torino – eh, ci fossero tutti gli anni le Olimpiadi… – e poi s’abbandona tutto alle ortiche[4].
La cosa non è nuova: per Torino e per la pratica di costruire e poi d’abbandonare.

Appena decenne, mio padre mi condusse (come tanti, all’epoca) in visita ad Italia ’61, la manifestazione per il Centenario dell’Unità d’Italia. Salimmo sulla famosa monorotaia che, da Corso Unità d’Italia, sarebbe dovuta giungere fino al centro, velocizzando il trasporto pubblico. Era nei piani, tutto previsto.
Invece, terminata la Festa, gabbato lo Santo.
Oramai ventenne, studiavo a Torino e mi prese il vezzo d’andare a curiosare la vecchia Italia ’61, con il ricordo di papà che magnificava tutto…che delusione…
Il Palazzo della Vela era abbandonato e, l’unica cosa rilucente, erano i fuochi accesi dalle prostitute che, saltuariamente, lo usavano per i loro scopi.
Ma passano gli anni e, coerente con i desideri di Cementland, l’opinione pubblica (vale a dire i giornalisti di Cementland) spifferano ai quattro venti l’orrore: Italia ’61 va in malora!
Giungono allora in soccorso alcune unità corazzate di Cementland: il fabbricato è in condizioni pietose – ma non si deve abbandonarlo! – e così si dà inizio ad una nuova ricostruzione. E giù soldi, e tangenti.

L’operato di Cementland può essere riassunto in pochi dati, sull’aumento delle unità abitative (senza andare troppo indietro) fra il 1991 ed il 2005. In questo periodo[5], la popolazione è cresciuta solo del 3%, mentre il numero di stanze del 23,8%!
Insomma, Cementland deve costruire, utilizzare il munizionamento, altrimenti il meccanismo s’inceppa ed il PIL crolla: non vorrete mica veder crollare il PIL, vero? E dopo?

Peccato che già Robert Kennedy si fosse accorto dell’inganno: pare che, appena una persona che ha responsabilità di potere lo ammetta…beh…non serva più…
Ecco cosa disse nel lontano 1968:

Il PIL comprende anche l'inquinamento dell'aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.
Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari.
Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l'intelligenza del nostro dibattere o l'onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell'equità nei rapporti fra di noi.
Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta.

Ci pensò Sirhan Sirhan.

Un dubbio, però, rimane: se la legge della domanda e dell’offerta ha ancora qualche, seppur minimo, valore, con meno gente e più cemento i valori immobiliari dovrebbero decrescere. E invece…
Invece, le uniche città più care (abitazioni in centro) di Roma e Milano sono New York, Londra, Parigi, Zurigo e Monaco. Milano, è più cara di capitali del calibro di Madrid, Berlino, Amsterdam, Vienna, Bruxelles…
Come riesce, Cementland, ad ottenere questi risultati? Con due accorgimenti.

Per prima cosa, è necessario accentrate la popolazione: il territorio serve solo per le grandi manovre, ma è nei pressi delle città che hanno luogo le battaglie. Perciò, treni ad alta velocità ed abolizione delle linee secondarie. Piccoli ospedali? Rami secchi: tagliare. Scuola? Chiudere. Attività produttive? Emigrare all’estero oppure chiudere. Servizi per la collettività? Accentrare.
Va da sé che, chi ancora cerca di vivere nel territorio, può solo farlo se ha già un lavoro nei pressi: altrimenti, è obbligato ad inurbarsi. Cementland va in brodo di giuggiole.
Ma non basta ancora.

Maledetti italiani: scopano ma non fanno figli! Decrescono! Troppo!
Visto che c’è un intero continente che viene tenuto in condizioni di sempre maggior miseria, approfittiamone!
Non importa se la disoccupazione italiana (quella reale) supera forse già il 10%: meglio se giungono sempre nuovi barconi dall’Africa!
Qualcuno lavora? Bene! In nero? Meglio ancora! Si prostituisce, spaccia, ruba…non importa. Paga l’affitto? Per Cementland basta ed avanza, così il patrimonio immobiliare italiano può gloriarsi d’esser giunto alla stratosferica cifra di 3.522 miliardi di euro! E gli italiani, nel 2005, erano indebitati per 160 miliardi di euro con le banche![6]
Cementland e Bankenland sorridono, soddisfatti, e vanno a cena contenti.
Se qualcuno non crede a queste cifre, passi il confine francese e si rechi in Costa Azzurra: a parte gli improperi dei francesi – che vedono i valori immobiliari impazzire per la vicinanza all’Italia – scoprirà che i prezzi delle abitazioni, pur nella “gettonata” Costa Azzurra, decrescono man mano che ci si allontana dall’Italia.
Dopo Saint-Tropez il fenomeno, praticamente, si estingue: in Spagna, con l’equivalente italiano di un appartamento, si compra una villa.

Ora, qualcuno inorridisce per le parole pronunciate nella notte dell’Aquila a Roma, da quelli che sapevano che quella tragedia, per loro, si sarebbe trasformata in appalti, tangenti e prebende.
I giornali rincarano la dose, mettendo all’indice l’uso delle prostitute di Palazzo come strumento di corruzione e, in definitiva, di prassi politica.
Vorrei precisare e sottolineare che, chi scrive, non è per nulla scandalizzato dai sospiri delle alcove clandestine: lenoni e cortigiane, sotto varie vesti, hanno popolato i palazzi del potere in tutte le epoche. Verificare, per conferma, il potere che ebbe Madame de Pompadour in Francia: per certi versi, più devastante di quello che non ha mai avuto la D’Addario.
Per contro, ci schifano letteralmente i “ricami” che tutti tessono su queste vicende: dai moralismi da sacrestia di certa stampa – “conservatrice” o “progressista”, poco cambia – ai tentativi mediatici del Presidente del Consiglio di porsi come il “Chiavolini”[7] nazionale, contrapposto a Marrazzo, l’uomo che ambiva ad altre “vie”. Che pena.
Le cose da capire e da meditare sono ben altre.

Big Pharma, come sappiamo, ha ottenuto copiose raccolte di fondi grazie alla paura scatenata per la “maiala” che tutti doveva ucciderci. Con la “maiala” si sono arricchiti in parecchi e, addirittura, un oscuro sottosegretario di Cuneo è riuscito a riottenere la poltrona di Ministro della Sanità (o della Salute) che più non esisteva.
A margine – ma non a latere – un faccendiere della sanità pugliese forniva “carne fresca” per il sultanato Chigi/Grazioli. E chi paga?

La guerra di Cementland è più vicina alle nostre case di quanto immaginiamo: la “magnifica pensata”, trasferire il G8 dalla Maddalena a L’Aquila, è stata una mossa strategica di Cementland, nient’altro.
Con un colpo da maestro, il costruttore/editore/assicuratore/finanziere/politico…Berlusconi è riuscito a raddoppiare la posta, a duplicare i metri cubi di cemento: crediamo bene che gli Stati Maggiori di Cementland abbiano immediatamente inviato stuoli di “crocerossine” ardenti! Che, con l’immigrazione di tante bellissime e disponibili brasiliane, diventa uno scherzo fornire.
Torniamo alla domanda: e chi paga?

Negli stessi giorni, Berlusconi vola a Bruxelles e comunica le sue preoccupazioni: forse la disoccupazione, la produzione industriale, la corruzione…no…
Il problema sono le pensioni. Punto.
Troppa gente vive a sbafo: dopo aver lavorato una vita, va in pensione. Oramai, se ci riesce.
Patetica e vile la risposta del segretario della UIL Angeletti, un vero fleur du mal dell’oratoria, il quale si scaglia – apparentemente – contro ogni proposta: “le pensioni sono già a posto”, salvo poi aggiungere una postilla, ossia “tanto siamo già d’accordo con il Governo, di legare l’età della pensione all’aspettativa di vita.”
Il lavoro non è più una parte della nostra vita: diventa una pena da scontare, e l’età della pensione un “fine pena”.

Ecco da dove provengono le risorse per Cementland: dalle varie casse previdenziali. Non è forse vero che 3 miliardi di euro del fondo TFR dell’INPS sono state “stornati” sul bilancio statale, alla voce della spesa corrente?
Questo è soltanto un esempio: tramite le mille gabelle – nazionali e locali – più i prelievi effettuati sulle nostre casse previdenziali – sui nostri soldi – il governo s’impadronisce di risorse non sue. Poi, spaccia una riforma della scuola come “storica ed innovativa” quando, conti alla mano, altro non è che un colossale taglio degli organici per risparmiare quasi 8 miliardi nell’attuale legislatura. Ed affossare definitivamente la scuola pubblica, per avvantaggiare le scuole private le quali, magari grazie a dei prestanome, saranno di proprietà del presidente del Consiglio.
Per le stesse ragioni, non si ha più il “lusso” di trascorrere la notte prima di un intervento in ospedale: si va, digiuni, la mattina presto e s’aspetta. Fra un po’ metteranno i numeri per entrare nella sala operatoria, come dal salumiere. Anche qui si risparmia.

In definitiva, riducono tutte le prestazioni sociali e s’impadroniscono delle risorse degli italiani (ciò che ho appena scritto è solo una sintesi, per non tediare il lettore) mentre, dall’altra, finanziano Cementland sotto varie forme: il Ponte sullo Stretto, le centrali nucleari, la TAV, i vari G8, Olimpiadi, campionati sportivi, celebrazioni per i 150 anni dell’Unificazione, fiere varie…la lista potrebbe continuare.
Fantastico, poi, costruire delle strutture per poi far mancare i fondi: è un raffinatissimo gioco, da menti “raffinatissime”. I lavori s’arrestano e le strutture non terminate degradano: dopo anni si ricomincia, così s’assommano i metri cubi da costruire con quelli da demolire e da rifare. Cementland x 3.
Tanto, la “verità” ci viene raccontata – spesso con un’indignazione che sembra sincera – dai giornalisti del Presidente del Consiglio, dalle reti televisive del Presidente del Consiglio, dalla RAI dei dirigenti nominati dal Presidente del Consiglio, che ascoltiamo grazie ai decoder forniti dalle aziende del Presidente del Consiglio.

Come si può lottare contro questo mostro, questa forza militare che occupa la penisola italiana?
Qualcuno lo ha fatto, ed ha sconfitto Cementland. Come ha fatto?
A Savona, Cementland aveva ordinato la costruzione di un porto turistico da 600 posti barca (notare: in gran parte per imbarcazioni +15 metri, ossia “barche da sogno”, mica per chi ha un gozzo per la pesca o una modesta barca a vela d’altura) e, visto che erano attesi ricconi, cementieri, faccendieri, corruttori e quant’altro, bisognava preparare anche delle residenze.

Il grande architetto Fuksas – quello che si faceva invitare ad “Anno Zero” – aveva un problema: un progetto per una “torre” alta 150 metri era stato rifiutato in Russia. Talvolta capita che alcune unità combattenti di Cementland siano obsolete, oppure non adatte per vari motivi all’utilizzo operativo. Che fare?
Sbologniamo la torre a Savona, con il solito corollario di prebende per tutti: destri, sinistri, alti e bassi. Tanto, con qualche migliaio di metri cubi d’ottime munizioni, avremo sufficienti mezzi per ammorbidire tutti: non si hanno notizie di “massaggiatrici.”

Nasce però, in modo assolutamente spontaneo, un gruppo di persone che si radunano in un “Coordinamento” ed iniziano a proporre modeste iniziative contro l’attacco di Cementland.
Nel luogo scelto per il mega-porto turistico, c’è uno scoglio sul quale c’è la statua di una Madonna, detta “La Madonnetta”, che è lì da tempo immemore, alla quale la popolazione è legata per tradizione e per devozione.
Fuksas, allora, presenta la solita variante nella quale la Madonnina viene inglobata fra i moli galleggianti, le pompe del carburante e le gru per l’alaggio: insomma, diventa la Madonnina del porto turistico dei ricconi! La gente inizia ad incazzarsi.
Il Coordinamento della Margonara cresce – lo so perché la mia figlia maggiore ne fa parte – e propone, proprio dove dovrebbe scattare l’attacco di Cementland, una serie di manifestazioni: la spiaggia è demaniale, nessuno può cacciarli.
Oggi suona un gruppo, domani una modesta festa a base di musica, birra e panini, dopodomani una gara di nuoto…e la gente viene, legge, s’informa.
Poi nasce un blog – http://margonaraviva.blogspot.com/ - e la gente può accedere, conoscere, informarsi, essere informata delle iniziative. La protesta cresce.

Cementland, dapprima, sottovaluta la situazione: i carabinieri, ovviamente, perseguitano il Coordinamento. Ogni sera si chiedono i documenti, sempre alle stesse persone: si perquisisce, s’ispeziona, si minaccia, ma non salta fuori niente.
Per molto tempo tutto tace: anche i Verdi e Rifondazione glissano, il PD è una sfinge. Ma giungono le elezioni regionali. La Margonara diventa un problema politico: per qualche migliaio di voti si può perdere la Regione Liguria!
Nella stanze del PD s’impreca, ma la paura inizia a serpeggiare. E, se per colpa di questi maledetti idealisti, dovessimo perdere la regione?
Il 2 di Febbraio 2010 Fuksas è costretto a gettare la spugna: il Lanzichenecco – paradosso! – torna a Roma imprecando.
Sergenti e caporali locali di Cementland – il servaggio degli enti locali – strisciano e confermano la loro devozione a Cementland, poiché Cementland è vendicativa, ed hanno paura. Leggete cosa scrive[8] un tal De Cia, consigliere comunale di “Democrazia e Socialismo” (sic!):

"Ho letto le dichiarazioni che l'Architetto Fuksas ha fatto in questi giorni nelle quali dichiara di abbandonare il progetto del porticciolo turistico della Margonara. Sono ben consapevole di essere ancora una volta fuori dal coro di quelli che brinderanno a Champagne pensando di aver ottenuto una vittoria con relativa umiliazione del “odiato nemico”. Io ad esempio mi dispiaccio sinceramente che questo possa essere successo. Non considero per niente positivo che una realtà come la nostra ogni qual volta possa ottenere collaborazioni e esperienze professionali di carattere internazionale, si dimostri così provinciale da snobbarle o peggio denigrarle.Chi è contrario al porto alla Margonara, lo sarà comunque al di là di chi imposterà o firmerà il progetto e di quali contenuti architettonici e culturali esso sarà portatore. Ma io credo che non usare energie intellettuali o professionali di caratura internazionale, sia comunque una perdita per la Città. Stento a credere che il vero punto della discussione sul porto turistico sia divenuto l'unico intervento che faceva almeno pensare ad uno sforzo intellettuale e ad un approccio nel quale l'architettura si mette al servizio di un processo di riqualificazione del territorio. Stento a credere che le forze politiche principali, abbiano permesso di mettere in sordina la vera questione che riguarda questa come altre iniziative edificatorie e cioè se l'opera serve ed è utile al territorio, alla sua economia, alla sua qualità della vita.”

Si noti che, su tre aree del porto commerciale di Savona, una è praticamente inutilizzata e le altre parecchio sotto-utilizzate: non sarebbe difficile sistemare centinaia di barche nelle aree già esistenti. Ma, lì, il cemento c’è già: poche munizioni da sparare per Cementland.
La dichiarazione del consigliere comunale – mascherata con la solita patina pseudo-intellettuale ed un poco snob – è in realtà una profonda genuflessione nei confronti dell’architettura globalizzata, del modo di pensare globalizzato, dell’economia globalizzata. In fin dei conti, è una prostrazione a Cementland: speriamo di non essere radiati, anche se abbiamo fallito!

Se a Savona è stata vinta una battaglia – certamente non la guerra! – altre realtà lottano: la gente della Val di Susa contro la TAV prende le botte dai pretoriani giunti da Roma, ma non molla. Contro il Ponte sullo Stretto nascono iniziative e coordinamenti: gente che non vuole che le proprie città siano violentate dai mostruosi piloni del ponte, che avrebbero all’incirca la cubatura delle Twin Tower!
E a Vicenza, nel “profondo Nord” leghista, la gente scende in piazza contro la Cementland targata USA, la guerra che Cementland conduce in favore di chi fa la guerra.
Domani, dopo le elezioni, saranno comunicate le località dove sorgeranno le centrali nucleari: anche qui, la paura inizia a serpeggiare. La Polverini si smarca, corre per il “centro destra” che vuole le centrali ma non le vuole in Lazio, perché sa che la questione potrebbe diventare un pericoloso scivolone elettorale.

Non si può lottare contro le centrali di Berlusconi? Perché sono siti sottoposti all’autorità militare? Mais…qui à peur de qui?
Credete forse che Berlusconi abbia la forza di far sparare i soldati? Comandati dal general Bertolaso, che magari si porta dietro la brasiliana in tenda?
Ma va là!
Ci sono forme di lotta contro le quali il potere globalizzato poco può fare: se vince, è soltanto per il nostro disimpegno!
Cosa ci vuole?

Un coordinamento via Web – basta un blog per ogni centrale – che chiami a raccolta la gente quando spostano le armate di Cementland: migliaia di persone che arrivano con il sacco a pelo e si stendono sulle strade, sulle autostrade, sulle linee ferroviarie. Credetemi: non hanno sufficienti munizioni per sconfiggere un simile movimento.
L’errore sarebbe credere che bastino le manifestazioni – le “messe cantate” che ci lasciano fare – per sconfiggerli: se ne fregano delle messe, delle confessioni e del coro.
Quando, invece, la gente s’organizza e li contrasta sul campo – in modo assolutamente pacifico – non hanno armi: impariamo da Gandhi.


In fin dei conti, non è poi così importante vincere la battaglia ma combatterla: al più, ciascuno di noi potrà guardare negli occhi i propri figli e non sentirsi un rinunciatario, un vigliacco. E, questo, sarà il miglior insegnamento che potremo dare loro.




Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.



[1] Di Giovanni, Ligini, Pellegrini – La strage di Stato – vedi estratto: http://www.uonna.it/bilposs.htm
[2] Vedi: http://www.impreseallasbarra.org/index.php/Pesenti
[3] Vedi: http://dipiter.unical.it/Materiale_didatt_ciccone/ingegneria_del_territorio/Paesaggio,%20relazione%20Provincia%20RM%20%20%20%20%20%20%20%20%20%2011.10.07.pdf
[4] Vedi: http://tuttosbagliatotuttodarifare.blogspot.com/2010/01/abbandonati-gli-impianti-delle.html
[5] Fonte: Annuari ISTAT.
[6] Fonte: ANCI-CRESME, 2005.

[7] Raccontano gli annali apocrifi del Fascismo che, quando Mussolini riceveva qualche signora, gli addetti di Palazzo Venezia giustificavano la sua assenza poiché impegnato in un colloquio con il “Ministro Chiavolini”.
[8] Vedi: http://www.savonanews.it/it/internal.php?news_code=69056

07 febbraio 2010

Cane, Princeps

Principe,
quale meraviglia e quale onore, aver appreso che ci allieterà, al prossimo Festival di Sanremo, con la sua presenza. Mancava, veramente ci mancava.
L’aver saputo, poi, che non sarà presente come ospite bensì come concorrente, ci ha esaltato il cuore: l’erede al trono d’Italia che scende fra gli umili mortali per concorrere – senza raccomandazioni, beninteso! – con le migliori ugole d’Italia! Un solo dubbio: al suo ingresso sul palco, suoneranno la Marcia Reale?
Leggendo la sua confessione, maturata prima di prendere la ferale decisione, l’emozione ci ha sopraffatto: ha scritto lei stesso la canzone che canterete! Lei, Pupo ed il tenore Luca Canonici: speriamo, almeno, nel tenore.
Visto che è precipitosamente corso a Parigi per prendere lezioni di musica – lo sa che, un tempo, il Belpaese era la terra della musica? – e quindi non ci ascolterà, preso come sarà fra la chiave di tenore e qualche bequadro che “scappa” sempre, spiegheremo noi, con umiltà, la nobile decisione.

Lei ha scritto una canzone mentre era a Roma a preparare, con l’immancabile Pupo, una serie di trasmissioni televisive chiamate “I Raccomandati”. Proprio lupus in fabula, è il caso di dirlo.
Così, nelle solinghe serate romane – ha provato a telefonare a papà? Se era solo…beh…lui è nel “giro” e qualcosa le rimediava…– ha preso carta e penna ed ha scritto una testimonianza…ma che diciamo…un’ode all’Italia, Paese amorevole, gioioso, comprensivo…di tutto di più. Titolo, ovvio: “Italia amore mio”.
Poi, al ristorante, l’ha fatta leggere a Pupo il quale – subito esaltato dal real libretto – ha preso la chitarra e ne ha tratto un’ode celestiale, tanto da farla correre subito a Parigi dalla maestra di piano. Certo, con un critico musicale come Pupo, non si possono fare brutte figure. Confidiamo, nuovamente, nel tenore.

Dato che lei – ci permetta – è appena entrato nel mondo della musica e della canzone, la vorremmo rassicurare: già parecchi anni or sono, un menestrello genovese – tal Ivano Fossati – aveva sentenziato che, oggi, “fare tutto è un’esigenza”. Sicché, non ha troppo da preoccuparsi per la sua esibizione: possiamo anticiparle che, sicuramente, negli anni abbiamo ascoltato cose ben peggiori.
Ciò che più ci incuriosisce – Principe – sono i contenuti dell’ode italica da lei vergata, perché ci chiediamo quale Italia avrà visto: ma, l’ha vista – lei – l’Italia? Sa almeno leggere l’italiano? Lo speriamo vivamente.

Eh sì, perché questo Paese comprensivo, dove tutto s’aggiusta sempre, è lo stesso dove è stato fatto scendere dal treno un handicappato grave (senza braccia!) poiché non era riuscito a comprare il biglietto alle macchinette a terra. Sì, Principe, fatto scendere anche se mostrava, nel taschino, i soldi per pagare il biglietto! Se vorrà prendere atto del misfatto, legga, legga il collegamento in nota[1].
Le Ferrovie si sono scusare, sì, ma solo per “l’eventuale” umiliazione subita: “eventuale”. Ha capito, Principe? Provi lei a prendere un treno senza braccia e vedrà quali “eventualità” incontrerà sulle Ferrovie Italiane e questo – è bene dirlo – non per sola colpa del personale, ma soprattutto per i “lavaggi del cervello” che subiscono affinché non vada perso manco un centesimo. Se, poi, il treno ritarda di mezzora, che problema c’è? Nei piccoli paesi s’aspetta, come nei giorni scorsi, a -10° con le stazioni chiuse. Se il treno ha due ore di ritardo, lo si sopprime, così il problema è risolto: uno spunto per una nuova canzone?
Se vorrà fare un intero ellepi – mi creda – di materiale ce n’è, in abbondanza.

Recentemente, la Corte dei Conti[2] (che qualcuno vorrebbe eliminare o depotenziare) ha comunicato che le truffe ai danni dell’Unione Europea, quest’anno, sono state pari a 153 milioni di euro. Il trucco, caro Principe, si spiega in breve.
Siccome i finanziamenti che utilizzano i fondi europei – e questo solo in Italia – devono “passare” all’approvazione delle Regioni e delle Province, è chiaro che ciascuno vorrà la sua parte. Se, ad esempio, chiedo un finanziamento per impiantare un panificio e devo corrispondere il 20% a Caio, il 15% a Tizio ed il 10% a più Semproni, alla fine mi resteranno giusto i soldi per fare un capannone. E il resto? Non arriverà mai! Viaggi, percorra l’Italia dei capannoni abbandonati, è da decenni che se ne costruiscono, ovunque! Poi, provi a cantarla. Suggeriamo il titolo “Due cuori e un capannone”, ma siamo certi che l’amico Pupo saprà far di meglio.

Speriamo che lei abbia trascorso un sereno Natale: noi, italiani, abbiamo atteso trepidando la tredicesima per metterla da parte per il mutuo, mentre il Governo ha incassato quasi 5 miliardi dallo “Scudo Fiscale”. Non conosce il termine? Glielo spiego in un attimo.
Un certo signor Tremonti, che da quasi un decennio gestisce l’economia italiana, lasciò per anni che gli italiani – non tutti certo, solo i ricchi, quelli che grazie alla false fatturazioni riescono a frodare il fisco – portassero i loro “sudati” risparmi nei paradisi fiscali. Poi venne la crisi finanziaria, e quei soldi servivano in Italia: che fare?
Presto fatto: basta pagare il 5% e tutto rientra, compresa la non perseguibilità dei reati fiscali commessi su quei soldi! Il giochino, poi, proseguirà quando quei soldi – in Italia – avranno fruttato: invece di pagare circa il 40% di tasse, li esporteranno nuovamente all’estero! Ogni volta, un 35% secco di guadagno!

Ma torniamo all’Arte, quella con la “A” maiuscola, al 60° genetliaco del Festival della Canzone Italiana: già, canzone…comprendiamo che, per i suoi nobili natali, sia stato concesso uno strappo alla regola.
Un tenore, eh, Principe?
No, non dica che è già successo, perché Canonici non è certo Pavarotti ma, soprattutto, lei tutto ci sembra meno che Zucchero o Sting: non mescoliamo la farina con la crusca, per favore.
Inoltre, dovremmo domandarci quanto questo Festival della Canzone Italiana sia veramente degli italiani, oppure sia una vetrina del peggio.
Eh sì, Principe, perché mentre lei era lontano dall’Italia, affaccendato con le sue banche svizzere, qui in Italia una bella stagione di canzoni e di musica l’abbiamo avuta: lei non sa nulla, vero? Ma, Pupo, non le ha raccontato niente? Ah, forse perché gli sarebbe stato difficile rispondere alla sua domanda, ovvero: “Ma tu, Pupo, dov’eri?”
Già, dov’era Pupo? Avevamo di meglio.

Ora che è libero fringuello e gira per l’Italia, potrà toccare con mano che in tante cittadine liguri (e non solo) fioriscono piazze, vie, piazzette…dedicate a Fabrizio De André. Speriamo che lei, leggendo, non rammenti il Manzoni e lo parafrasi, al punto di chiedere a Pupo “chi era costui?”, perché tutti gli italiani lo sanno. Ma…sa chi fu Alessandro Manzoni?
Le basti sapere che De André è considerato uno dei maggiori poeti italiani del ‘900: per qualcuno il migliore, per altri se la gioca con Montale. Non sono certo queste “graduatorie” ad interessarci: roba da Festival di Sanremo. No, qui si parla d’Arte, al punto che Fernanda Pivano – allieva di Cesare Pavese – giunse a dire che “Bob Dylan era il De André americano”. Il che, soppesando i parallelismi fra le due culture, non fa una grinza.

Oppure, digiti su Google “cantastorie di Pàvana” ed osservi cosa esce: clicchi pure in alto, sul primo collegamento.
Francesco Guccini rimane il testimone di una generazione e della sua storia, ma seppe andar oltre, seppe congiungere le generazioni, le storie, le vite, i luoghi. Anch’egli amava l’Italia…oh, come l’ha amata…ma si è ritirato nel suo eremo di Pàvana, sull’Appennino a lui caro. Scrive, ogni tanto pubblica qualcosa, storie che non sono mai noiose o scontate.
Entrambi non ebbero mai la pensata di scrivere un’ode all’Italia, eppure l’amarono nei loro versi.

Chi invece la scrisse una canzone per l’Italia, “l’Italia liberata”, fu Francesco de Gregori, ma non so se si riconoscerebbe in quelle rime: lei, è uno svizzero prestato a casa Savoia. Dalla quale ci “liberammo”.
Così come non potrebbe mai comprendere un verso di De Gregori come “…confonde la giustizia con il Carnevale…”: vero che non le dice nulla? Eh, lo crediamo bene: lei non sa chi è Corrado Carnevale, il giudice ammazzasentenze!

Sarebbe ingiusto ricordare solo questi tre cantautori, perché ve ne furono tanti altri: il “professor” Vecchioni, il quale ricordava agli eroi che “giunti al mare, non c’è più nulla da conquistare”, il raffinato musicista genovese Fossati e la sua “Pianta del tè”, il menestrello Branduardi, il giullare Dalla, che si divertì a toccare i vertici della poesia in “Com’è profondo il mare”. E poi tanti altri…la ricerca di una musica rock italiana: la Premiata Forneria Marconi, gli Area…la canzone popolare…i Tazenda, la Nuova Compagnia di Canto Popolare e tutta la “banda” napoletana, dai Bennato a James Senese, da Alan Sorrenti a Pino Daniele…
E quanti, quanti ne dimentichiamo!

Come dice, Principe, a quanti festival della Canzone Italiana parteciparono? Quanti vinsero?
A parte qualche fugace apparizione, quasi nessuno di quelle persone salì sul palco dell’Ariston, almeno in quegli anni. Per lei non significherà nulla, ma s’immagina – all’indomani della tragedia di Seveso – se Antonello Venditti avesse lanciato alla platea dell’Ariston il suo “risarciteci i cuori!”? Lei sa cosa fu Seveso, vero?
No, Principe, per loro ci fu sempre e soltanto la “riserva indiana” del Premio Tenco per la canzone “d’autore”. Ma, se la logica non m’ha completamente abbandonato, quando si definisce “canzone d’autore” quella del Tenco, dovremmo chiederci: all’Ariston, cosa va in scena? Il festival dei figli di nessuno? Tertium non datur. O no? Capisce il Latino?

Così è la storia – Principe – e, se avrà modo di capire un po’ di più l’Italia, comprenderà che questa nazione ha completamente cancellato una generazione, ovunque: dalla politica alla canzone, in egual modo.
Siccome quei grandi nomi avrebbero, con la sola loro presenza, oscurato chiunque – perché erano poeti – si decise che quelli erano dei “pazzarielli”: sa, Principe, cos’è per Napoli “O’ Pazzariell’”?
E’ una persona che, in quanto assunto come pazzo, può raccontare la verità: tutto qui. E, siccome questo è il Paese del quale uno dei suoi più grandi scrittori – Leonardo Sciascia – sentenziò che è “senza memoria e senza verità”, tutto ciò che è vero dev’essere confinato, giacché non si può assumerlo come falso, ma nemmeno si può raccontare. Un Limbo? Faccia lei.

Perciò, quando salirà sul palco dell’Ariston, rammenti queste parole e rifletta sul destino che questo Paese – da lei, a suo dire, tanto amato – le ha riservato: un posto di serie B, per quelli che di serie A non potranno mai essere. Cane, Princeps.

Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.

[1] Vedi: http://www.repubblica.it/2009/12/sezioni/cronaca/ragazzo-braccia/ragazzo-braccia/ragazzo-braccia.html
[2] Vedi: http://www.repubblica.it/2009/12/sezioni/politica/fondi-comunitari/fondi-comunitari/fondi-comunitari.html

03 febbraio 2010

Consigli per gli acquisti

Viva la campagna…che mi dà tutti questi grilli, birilli, cavalli, coltelli, mulini, bambini, tacchini, pulcini, casette, cosette, forchette, saette, tramonti, racconti, bisonti, rimpianti, castagne, lasagne, lavagne, montagne, ombrelli, fratelli, cartelli, caselli, bestiame, pollame, catrame, legname, fragori, fattori, pittori, rumori, patate affettate, posate, scarpate, fontane, cantine, gattoni, fornelli, randelli, piselli, martelli, sentieri, bicchieri, mestieri, profumi, dolcini, legumi, barlumi, cipolle, corolle, betulle, farfalle, formaggi, foraggi…
Nino Ferrer – Viva la campagna – 1970.

Spesso, leggiamo articoli dove ci viene spiegata per filo e per segno com’è nata l’attuale crisi economica, quali saranno i suoi esiti, le contromisure da prendere per cercare riparo.
Non essendo un economista, prendo volentieri atto delle analisi altrui, cerco di capirle anche se – in alcuni casi, non molti per fortuna (capita soprattutto agli stranieri, con in aggiunta la fatica della traduzione) – il linguaggio troppo tecnico scoraggia il lettore. Oppure, gli chiede uno sforzo mnemonico e di sintesi che, talvolta, è veramente arduo.
Quando si spiega, dovendo usare un termine, credo si debba sempre scegliere il più comprensibile per tutti, mantenendo però la precisione del linguaggio. Per ovviare i termini più tecnici, meglio usare una perifrasi od una metafora.

Chiusa questa breve parentesi linguistica, torniamo alla crisi economica tanto strombazzata: l’impressione che si ricava, per l’Italia, è che sia stata poco toccata dagli eventi ben noti, ossia dalla creazione dal nulla di ricchezza inesistente sotto forma di bond “tossici”.
Alcuni grandi comuni italiani sono finiti nel sogno ad occhi aperti del Pozzo di San Patrizio, della Cornucopia a costo zero, ma l’Europa continentale è stata senz’altro meno coinvolta rispetto ai Paesi degli Angli.
Ciò nonostante, assistiamo ad un vero e proprio crollo dell’economia italiana: inutile citare i dati sulla disoccupazione o sul vertiginoso aumento della cassa integrazione, perché li conosciamo tutti.
Anche le analisi d’alcuni centri-studi (visto che non è obbligatorio chiamarli “think-tank”?) presentano un quadro scoraggiante: moltissime famiglie italiane non sono in grado di pagare un conto inaspettato di 600 euro, nemmeno pensare d’acquistare una nuova auto, meno che mai una casa.
Tutto questo è opera della crisi finanziaria internazionale?

Qualcosa sì – una riduzione delle esportazioni può starci – ma la verità è un’altra: è il “sistema-Italia” a non funzionare più, ad essere inequivocabilmente desueto. Tutto sta ad indicarlo, basta riflettere un po’.
Si parte da una scuola che è stata riformata l’ultima volta nel 1923, per passare ad una scuola la quale – senza nemmeno una discussione in Parlamento, con una semplice legge delega – rinverdirà gli antichi fasti, tornando pedissequamente all’impianto del 1923. Che andava benissimo nel 1923 (e fino al 1970 circa): poi, però, mostrò tutti i limiti di un sapere pensato per il 10% della popolazione.
Ad orchestrare questa bella pensata, un ministro che non sa nulla di scuola – assente giustificata dalla “plancia di comando” perché presto sarà madre, ma pur sempre assente – un sottosegretario che è lì soltanto perché ha la proprietà del marchio della vecchia DC, un ministro in pectore – Renato Brunetta – per il quale non merita nemmeno approfondire quali siano le sue competenze in campo didattico.

Passando oltre ma rimanendo nel campo del minus (inteso come mente, pensiero, ecc) veneziano, dovremmo riflettere su una delle sue ultime esternazioni: modificare l’art. 1 della Costituzione, da “fondata sul lavoro” a “fondata sulla finanza”. Tossica?
La disquisizione non è priva di senso, perché il piccolo ministro/forsesindacodiVenezia discende questa sua conclusione da un’analisi da perfetto economista embedded, ossia di una persona che sa perfettamente quali sono i cardini dell’economia globalizzata. La quale, proprio perché tale, ha il precipuo compito di scardinare qualsiasi resistenza al produci/consuma senza sapere quel che fai: fatti venire l’ulcera per 8 ore il giorno, giacché ti chiedi qual senso abbia quel che fai, poi recati al più vicino supermercato e compra senza sapere, ancora una volta, quel che mangerai.

Un meccanismo per formare perfetti imbecilli, laddove qualsiasi critica (nel senso, ovvio, di chi ancora esercita il raziocinio) è bandita: defeco ergo sum, ecco il regale incipit dei nostri tempi.
Fallo però in fretta, giacché la produzione costante ed in aumento di rifiuti è necessaria per finanziare gli enti locali, grazie agli inceneritori ed ai contributi CIP6 che incassano sulla nostra bolletta dell’ENEL, quei soldi che in bolletta sono indicati come contributo per le energie rinnovabili. Ci prendono per il sedere alla grande.
Spostare questo cardine della nostra Costituzione, dal lavoro alla finanza, significa semplicemente dire agli italiani: qui non si produrrà più nulla, o ben poco. Un tempo avevamo veri e propri gioielli tecnologici – Ansaldo, Olivetti, ecc – pubblici e privati, e li abbiamo gettati nella spazzatura per riciclarli sotto forma di tangenti e prebende per noi (classe politica) ed i nostri lacchè imprenditori. Oppure siamo noi politici i lacchè? Non si sa e non importa: tutti assieme appassionatamente.

Siccome non si produrrà più nulla, meglio investire laddove ancora si lavora: un unanime coro – destro, sinistro, alto e basso – invita, consiglia, spinge ad investire in “Cindia”, ovvero nelle economie orientali. Le quali, nonostante queste bazzecole della crisi, hanno continuato ad avanzare imperterrite.
Si dà il caso che gli italiani in grado di seguire cotanta sapienza brunettiana (ossia possedere capitali) siano soltanto un 20% circa, a largheggiare, perché gli altri sono quelli che pagano i debiti ed i mutui con la tredicesima. Se desiderate un po’ di “parlar forbito”, pigliatevi l’espressione “inarrestabile declino del ceto medio”.
Continuo?

No, basta ed avanza, perché ho scritto tantissimi articoli[1] per spiegare l’inganno politico/economico/energetico/istituzionale nel quale siamo stati precipitati: non avrebbe senso continuare. Meglio pensare al domani: al nostro domani, non al loro, a questa razza sciagurata.
Giungendo al dunque, una quisquilia come quasi 50 milioni d’italiani si troveranno – nei prossimi anni – ad affrontare il dilemma di come campare. Intendiamoci: non sarà fame – sono furbi, sanno cos’è l’elemosina – ma dimentichiamoci tanti piccoli “benefit” che ancora godiamo.
Tanto – non so se ve ne siete accorti – l’economia da “sguazzo” che propongono – i “pacchetti crociere”, le “impedibili” occasioni di viaggio, la moda all’ultimo grido, l’automobile supertecnologica e via discorrendo – sono pianificati, pensati per un plafond che non supera il 30% della popolazione. Gli altri, semplicemente, stanno a guardare.
Il che, potrebbe non essere proprio un gran danno. Basta riflettere.

Se abbandoniamo quel modo di pensare, non avremo nessun bisogno di una crociera che segue il copione della solita abbuffata a pranzo ed a cena, soltanto che avviene sull’acqua. Con l’imprevisto del mal di mare, che potrebbe farvi vomitare tutto: meglio, si prendono le pastiglie per il mal di mare e s’ingurgita nuovo cibo. Il PIL ringrazia.
Siccome superare i 130 Km orari costa salato, meglio nemmeno possedere uno dei “gioielli” da 200 all’ora: a momenti, ai fatidici 130 c’arriva una Panda.
Insomma, questo mondo di consumi stratosferici sembra creato apposta per gli allocchi che vogliono crederci: non abbiamo nessun bisogno – per la nostra salute fisica e psichica – di questa panoplia d’inutili orpelli.
Rimane il problema dei mancati introiti, degli scarsi guadagni, poiché un Paese che non produce può concedere solo salari da fame. Ovvio, che sono “da fame” anche perché dobbiamo mantenere quel 20% d’aguzzini.
C’è modo di sopravvivere degnamente in un simile scenario?

Sì, a patto di riflettere sulle contromisure da adottare.
Ovviamente, da qui in avanti, non bisognerà più pensare in termini generali – ossia gloabalizzati, si finirebbe nel loro cortile – bensì riferirsi alle situazioni personali, per quella che è semplicemente la nostra situazione economica, lavorativa, familiare, ecc, cercando a quale delle possibili “falle” della globalizzazione possiamo accedere per meglio campare.
Ciascuno prenda in esame la propria vita – famiglia, lavoro, impegni, ecc – e si soffermi su quel che può praticare, per migliorare la propria condizione, sia per l’oggi, sia per le scelte che potremo trovarci ad affrontare domani.

I bisogno primari dell’umanità sono principalmente tre: ripararsi, cibarsi e coprirsi. Iniziamo da quelli.
Il “riparo” è la casa, bene per il quale gli italiani s’indebitano per generazioni.
Pensandola un po’ come un aikidoka – ossia una persona che utilizza la forza d’attacco avversaria e la trasforma in difesa – in fin dei conti lasciano degli spazi, dei “buchi” aperti attraverso i quali potrebbe transitare un esercito.
L’Italia è un Paese a forte urbanizzazione: tutti gli indicatori statistici ed economici lo mostrano.
La ragione?
Una serie d’errori strategici compiuti negli ultimi decenni: nessun serio piano per salvare la nostra agricoltura al punto che oggi, per sette agricoltori anziani, in Italia, ce n’è soltanto uno giovane. In Francia e Germania, ad esempio, c’è praticamente la parità, ossia un normale ricambio generazionale in agricoltura.
La rapida industrializzazione che seguì la Seconda Guerra Mondiale fu pagata dalle campagne, che videro intere comunità giungere al lumicino: oggi, i medesimi luoghi sono praticamente delle comunità di pensionati.

Va da sé che il mercato immobiliare ha seguito l’andazzo e, la medesima situazione abitativa, in un paesino costa da 1/3 ad 1/6 rispetto alla città, affitto o casa di proprietà essa sia, al punto che le agenzie immobiliari sono poco propense a trattare questi immobili, giacché i margini di guadagno sono minimi.
Un appartamento in città, del valore di 300.000 euro, in un paesino scende sotto i 100.000; di più: le case isolate, con terreno annesso (veri “sogni” per chi abita in città), spesso costano ancora meno. Non tutte le aree del Paese seguono questo andazzo – i rustici maremmani non costano certo poco – ma tutta l’area prealpina ed appenninica ha subito una forte riduzione dei valori immobiliari, e sarebbe un peccato non approfittarne.

Si potrà obiettare che il lavoro è in città: con la perdurante crisi, di sistema per l’Italia, l’accentramento nelle città diventerà presto inutile. A ben vedere, l’urbanizzazione – dalla rivoluzione industriale in poi – è stata una necessità, più che una scelta: ora, che le aziende smobilitano, chiudono, riducono il personale, è ancora sensato programmare il proprio futuro in una città?
Ci sono moltissime attività professionali che si possono svolgere anche lontano dalla città – per questo non incentivano la banda larga, sono più furbi di quel che pensiamo – oppure recandosi in città solo per il tempo necessario.
Nelle scuole, spesso, anche personale di ruolo si sposta dalla città al circondario, segno che preferiscono vivere in città. Ma conviene?

Quali sono i vantaggi del decentramento?
Non si tratta soltanto del basso costo delle abitazioni, bensì del minor costo di molti balzelli, ad iniziare dalla tassa sulla spazzatura, l’acqua…per terminare con nessuna multa per divieto di sosta.
E l’energia?
Nei piccoli paesi è prassi che ci si riscaldi con la legna: scaldo circa 180 metri quadrati (più l’acqua calda per circa otto mesi l’anno), in una zona molto fredda e nevosa del Piemonte, con circa 1.500 euro l’anno. Le caldaie a legna, oggi, sono dei veri e propri gioielli, che consentono la carica una sola volta il giorno, ed è possibile controllare molti parametri per risparmiare.
Ho eseguito una semplice comparazione con mia suocera, che abita in Riviera, la quale – per riscaldare una villetta di circa 100 metri quadri – spende un capitale in metano e sta al freddo.

Fra l’altro, questi sistemi centralizzati consentono ogni genera di truffa: dagli scandali dei contatori “taroccati” che ogni tanto saltano fuori, fino all’anidride carbonica immessa nelle tubazioni (con la scusa di mantenere costante la pressione) che ci fanno pagare come metano. Provate a non utilizzare il metano per qualche mese: quando riaprirete le valvole dell’impianto, per parecchi minuti uscirà un gas che sa di metano, ma che non s’incendia. Più, ovviamente, tasse e balzelli che spillano con mille scuse sulle bollette.
Quando acquistate la legna, comprate energia e non foraggiate nessun apparato legato al potere: se, invece, siete robusti potrete tagliarla da soli, in un appezzamento di vostra proprietà oppure comprando il “taglio” a prezzi irrisori. In questo caso vi servirà qualche attrezzatura, ma una motosega ed un vecchio trattore vi costeranno quanto un’utilitaria usata!

Passiamo al secondo bisogno primario: coprirsi.
Mi fa quasi sorridere il pensiero di spendere soldi per gli abiti: la gente butta via di tutto! Approfittiamone!
In questi giorni di freddo, indosso il cappotto che fu di mio padre ed il cappello che fu di mio suocero: le colleghe – sempre attente a come vai vestito – mi chiedono dove ho scovato due capi così eleganti. Dal guardaroba di due persone a me care, ma oramai defunte! Stessa cosa per il lussuoso impermeabile che metterò in Primavera: roba di sartoria parigina. Era dello zio di una mia amica.
Ma non si gettano solo gli abiti dei defunti: un’amica di mia moglie, le telefonò per chiederle se le interessava una pelliccia di visone, giacché l’aveva letteralmente tratta dal sacco che la figlia stava gettando nella spazzatura. Ed è perfetta, senza il minimo difetto!

Conoscere, poi, una persona che fa il rigattiere è forse più proficuo d’avere amici banchieri: nessun pezzo d’antiquariato che ho in casa – dagli armadi in noce ai secretaire, le madie, le culle, le scrivanie – fu pagato più di 100.000 lire. Ci vuole parecchio lavoro per rimetterli in sesto, ma del “fattore” lavoro parleremo al termine dell’articolo.
E non buttano via solo le cose vecchie: tempo fa, il rigattiere mi regalò un lettino da bambini per mio nipote – una marca notissima, “di grido” – ancora imballato nel cellophane. Era stato gettato via senza esser mai stato usato!

In alcune città esistono oramai dei centri di scambio gratuito, oppure magazzini dove si trova a poco prezzo roba usata in buono stato: alcuni esempi? Rarissimo modellino di un leudo (barca ligure con l’albero inclinato verso prua) in legno, perfetto: cinque euro. Binocolo Zeiss perfettamente funzionante, in uso agli ufficiali tedeschi della Kriegsmarine (il meglio che esista): 100 euro.
Un tempo anche e-bay era conveniente, e lo è ancora molto, ma per le cose nuove: lentamente, è diventata una vetrina commerciale per addetti ai lavori. Non mi strappo le vesti per questo mutamento, e per molti acquisti è conveniente, ma il rigattiere rimane la miglior vetrina.

E passiamo al cibarsi.
Nell’abitudine globalizzata, cibarsi significa fare lo shopping al supermercato: attentissimi alle etichette, alla qualità (?), alla certificazione (boh…), alla provenienza (mah?)…
Ciò che vogliono è privarci della possibilità d’essere, almeno parzialmente, autosufficienti: tutto l’ambaradan globalizzato pensa al “fai da te” solo per venderti trapani e seghetti. A patto che li usi pochissimo, altrimenti mandi in malora l’industria del mobile e l’edilizia: contraddizioni capitaliste.
Il verduriere, in campagna e nei piccoli paesi, è sotto casa: si chiama “orto”.

Provate a sottrarre dal vostro bilancio mensile gran parte della spesa per i vegetali: fatto? Quanto vi rimane?
L’orto non è soltanto una fonte di ricchezza e di salute: è una pratica zen.
Ci vuole tempo, impegno ed un po’ di fatica ma la ricompensa è, sul piano meramente pratico, avere deliziosi minestroni e fantasiosi sughi ogni giorno, verdure così gustose che – quando assaggerete quella del supermercato – vi sembrerà di masticare della plastica.
Ci sono, inoltre, due importanti “ricadute”: la prima è la fiducia in se stessi che nasce dalla soddisfazione di provvedere, da soli, ad un bisogno primario. Non si tratta di un borioso “l’ho fatto io”, bensì della consapevolezza d’essere in grado d’ottenere dei risultati senza dover chiedere niente a nessuno. E, di conseguenza, nessuno potrà ricattarvi per quello che sarete in grado di fare da soli.
Il secondo frutto è più sottile, e si gusta negli anni: è la pace interiore che si prova osservano le file ordinate degli ortaggi che crescono, la bellezza dei fiori che diverranno frutti, i contrasti di colore fra il verde acceso della Primavera e la terra smossa, oppure il rigoglio di colori dell’Estate e dell’Autunno. Vi scoprirete silenziosi e consapevoli attori di un processo del quale fate parte, e la vostra mente farà una gran scorpacciata d’endorfine.

Ma l’orto non è soltanto un piacere solitario, se avrete la fortuna d’avere un vicino con il quale andate d’accordo: un vicino, tanti anni fa, mi regalò 125 piantine di finocchio, che trapiantai. Quell’anno, le condizioni meteorologiche furono favorevolissime per i finocchi: regalai finocchi a tutto il vicinato.
L’orto diventa, dunque, il luogo dove la ricchezza perde significato, perché – quando un ortaggio cresce bene ed è abbondante – a parte la modesta quantità che potrete congelare, il resto vi toccherà regalarlo. E lo farete con gioia.
Lo scambio diventa la regola con i vicini: hai una pianta d’albicocche? Più famiglie faranno la marmellata. Sei scarso d’insalata? Quello che, nell’Estate, ha raccolto le tua albicocche, provvederà.
Posso raccontare queste cose per esperienza diretta, per centinaia di baratti che ho fatto senza toccar moneta: mangio i germogli di bambù di mio cugino perché a lui non piacciono, tanto qualcosa da barattare ci sarà sempre.

Autosufficienza e baratto sono una delle migliori medicine che possiamo prendere per guarire dalla malattia del capitalismo: ricordiamo che, fra i Nativi Americani, era usuale scambiare in modo rituale gli oggetti, come le offerte sacrali del nostro mondo antico.
Voglio però terminare con una tiratina d’orecchie.

Si trovano appezzamenti da adibire ad orto sempre più facilmente: perché? Poiché sono pochissime le persone sotto i 40 anni che meditano di tenere un orto: i vecchi se ne vanno, e crescono le erbacce.
In compenso, fioriscono le palestre: vuoi un fisico “da sballo”? Vieni – la mielosa canzone capitalista – spendi ed attueremo la metamorfosi: conosco persone di 90 anni che non hanno mai visto una palestra in vita loro, ma hanno sempre coltivato l’orto, ed hanno dei fisici che ci metterei la firma ad averli io, quando e se arriverò a quell’età.

Cari ragazzi (scusate la deformazione professionale): se volete iniziare a pensare ad un mondo più giusto e più equo, ma anche più gioioso e salubre, qualche abitudine bisogna cambiarla. Ed accettare anche un po’ di fatica.
Va benissimo informarsi, studiare, discutere e criticare ma è meglio anche “saper fare”, perché nessuna pratica della sola mente vi donerà quelle sicurezze interiori che derivano dal mangiare la propria insalata, dal trasformare un tronco d’albero in una scrivania, dal risistemare le tegole del tetto dopo le nevicate invernali.
E, quando sarete temprati dall’esperienza, sempre meno persone potranno raccontarvela per coprirvi di dubbi ed approfittare di voi: ci vuole un po’ d’impegno – questo è certo – ma il risultato è certo. Provare per credere.
Un futuro di comunità interdipendenti deve necessariamente progredire su due gambe: l’analisi teorica, la sintesi delle soluzioni, la curiosità per l’innovazione e lo scambio dell’informazione. Ma, se manca la prassi dell’esperienza diretta, è un mondo che nasce zoppicando. E continuerà a claudicare.

Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.