27 maggio 2009

Un mandrogno milleusi

Il pensiero d’occuparci di Mario Giordano, più che disturbarci, c’annoia. A morte.
Ci siamo più volte chiesti, osservando il giovane emulo di Farinelli, quale sia il posto, la foglia sulla quale giaccia nell’immaginario organigramma della cultura italiana. Già, perché, un tizio che si mette a blaterare sulla scuola italiana, qualcosa a che fare con la cultura dovrebbe averlo. A meno che non si tratti d’una foglia di fico: quella che s’usa, solitamente, per coprire le parti basse.
Ecco, forse ci stiamo avvicinando al centro, e al punto che sta nel centro del punto: se l’intuizione ci è sovrana, forse Mario Giordano è proprio una foglia di fico, calata con gusto sapiente nella comoda poltrona di un Giornale, nel centro, nel punto del centro. Di quel giornale.
Che ci stia a fare il giovane mezzosoprano in quel punto – così centrale – ci è oscuro e nemmeno ci sogniamo di perseguire vie tenebrose, che tracimano di bon ton retrò, dove gli affanni della dietrologia finiscono per arenarsi e puzzare di soldi smazzati senza troppi indugi, come oggi usa fare, nel tempo dell’inganno globale.

E così, il giovane mandrogno[1] ci parla di scuola.
Come si fa in fretta, dalla scrivania del centro, a pontificare di scuola e di guai della scuola! Come ci s’impegna per andare a punto senza mai toccare il boccino, perché a sfiorarlo appena si finirebbe per regalare la partita all’avversario.
Così, si ricopre tutto di glassa e si glissa, si mettono un paio di bocce per sbarrare le vie all’avversario, che altrimenti potrebbe dilagare, e si spera che il bocciatore sia orbo, ubriaco e sonnolento.
Il che, è vero.
L’avversario, più che dilagare, sta affogando nella palude dei suoi macroscopici e terrificanti errori di decenni: quelli di non aver più ascoltato la gente, la quale ha finito per ascoltare soltanto il banditore che urlava più forte.

Ma veniamo a noi, a questa scuola del malaffare raccontata dal nostro enfant prodige, il quale se la prende con gli studenti che immaginano don Rodrigo un prete per via del “don”.
Fosse solo questa, caro il mio mandrogno, non ci sarebbe poi tanto da inorridire: in fin dei conti, si sopravvive anche scambiando un nobilastro con un prete, per la differenza che faceva all’epoca. I guai della scuola vanno ben oltre.
Possiamo comprendere gli orizzonti assai limitati di Mario Giordano, poiché esser nati fra il Tanaro e la Bormida può condurre a due soli destini: o si valica la cortina delle nebbie, per approdare così all’Olimpo dei sensi trasfigurati – come seppero fare Pavese, Fenoglio, Tenco e Conte – oppure si finisce dietro la scrivania di un giornale. Di quel giornale.
La scuola di Mario Giordano è quella deamicisiana del libro Cuore poiché, nelle nebbie, l’unico sentore di scuola che si riesce a percepire – dato il limitar dell’orizzonte – è il libro che qualcuno aveva dimenticato sul comodino tanti anni prima, quando la camera era la stanza da letto del nonno.
Così, il buon Mario sceglie la parte del maestro Perboni/perbene e – al modico prezzo di 18 euro, editore (c’è da stupirsi?) Mondadori – ci spiega tutto sul default della scuola con un titolo che sa di folgorazione sulla via di Damasco, di un’epifania dello spirito: “5 in condotta”. Potremmo suggerire “Squola per ciuchi”, “Dietro la lavagna”, oppure lanciarsi in un britannico “Poor School” o in un avveniristico “Lavagne spaziali” ma, si sa, la nebbia incombe.
La sorella di Mario, Mariastella, ha invece scelto la parte della Maestrina della Penna Rossa: così, le foglie di fico sono due. D’altro canto, anche il didietro vuole la sua parte.

Con il bel 5 in condotta del mandrogno, scompaiono nelle nebbie decine di migliaia di precari oramai quarantenni, i quali si sono sorbiti le SSIS della verace Moratti, calate come gli Unni per falcidiare chi – nonostante tutti gli avvertimenti ricevuti – ancora s’ostinava a voler fare l’insegnante.
Dopo le SSIS – penate, faticate, scazzate – ecco giungere la sorellina occhialuta, quella dell’”Egìda”, a raccontare che no, ragazzi miei, qui si spende troppo e non ci stiamo più dentro. Andatavene via, fuori: qui non c’è più posto per voi! A quando il libro di Mariastella?
Sincrono con il pontificare del mandrogno – proprio negli stessi giorni! – va in scena nelle scuole italiane l’ultimo atto: mentre tutti sono attentissimi a seguire le vicende di “Papi”, scatta l’operazione “accorpamenti”.
Visto che ‘sti ragazzi confondono nobili e preti, allora meglio “accorparli”: se, prima, erano 20 in classe, con l’accorpamento saranno 30, Brunetta si fregherà le mani, Tremonti benedirà i “risparmi” e quei 30 poveracci andranno a aff…
Perché?
Ve lo racconto in due parole.

L’operazione “accorpamento” è quella che dovrà portare quasi 8 miliardi di risparmi dalla scuola, i quali saranno reinvestiti per 1/3 nell’istruzione (private comprese) e per 2/3 entreranno a far parte della fiscalità generale, ossia saranno conteggiati da Tremonti alla voce “Attivi di bilancio”.
Per i trenta poveracci, invece, significherà avere insegnanti che potranno fare ancor meno: ovviamente, se prima – in 20 – non riuscivano ad identificare don Rodrigo, domani lo faranno certamente meglio in 30. Volete sapere come funziona?
Una classe, in media, è composta da un 20% di “bravi”, da un 60% di “normali” e da un 20% di chediomelamandibuona.
Se un docente ha 20 allievi, avrà il tempo per non annoiare i “bravi” (che vorrebbero magari fare di più, ampliare le loro conoscenze, ecc), riuscirà a trascinare quel corposo 60% di mediani e troverà anche il tempo per cercare di salvare i naufraghi.
Con 30 allievi – e, questo, domandatelo a tutti i prof che conoscete – non ce la farà più (avrà 18 “medi” contro i 12 di prima!) e, allora, cosa escogiterà?
I bravi sono bravi e se la possono cavare da soli, con poco sforzo: perciò, mi dedicherò di più ai mediani. E i perduti nelle nebbie? Eh…se avanzerà tempo, se Dio gliela manderà buona…
Perché Giordano vorrebbe farci spendere 18 euro e del tempo, per raccontare una vicenda che si chiude in tre parole?

Tutti incolpano, per la malascuola italiana, la processione di ministri che l’hanno “cambiata”, da Berlinguer alla Maestrina della Penna Rossa.
Tutto il malaugurio nasce, invece, con il Decreto Bassanini, nel quale si ponevano le basi per la dismissione della scuola dallo Stato agli Enti Locali. Siccome non bastava ancora (e, date quelle premesse, non si poteva far altro), pensarono bene di “concedere” ai docenti un “monte ore” per “modernizzare” la scuola. Accidenti, quando si parla di scuola, le virgolette non bastano mai.
Il buon Giordano – probabilmente fulminato dalle nebbie, più che sulla via di Damasco – va a spulciare il solito stupidario della scuola (lo avrà, probabilmente, copiato da qualche sito Web) e scopre che è colpa dei docenti che si mettono ad insegnare la teoria della conservazione delle marmellate. Chissà se il mandrogno era a conoscenza che, il primo a scrivere un trattato sull’argomento, fu il medico personale di Caterina dé Medici, in arte regina di Francia, che rispondeva al nome di Michel de Notredame, in arte Nostradamus.
Lasciamo le pieghe della Storia e torniamo a noi perché, oltre alle facezie enunciate dal mandrogno, con la riforma dell’autonomia giunsero anche lo studio del Diritto e dell’Economia, le Tecnologie dell’Informazione, lo Spagnolo (seconda lingua del Pianeta!), la Fisica e le Scienze sperimentali. Già, ma al mandrogno conviene trastullarsi fra pizzette e confetture.

Per chi vive fuori della scuola, non è facile comprendere che la classe politica – sin dai tempi nei quali la Jervolino era Ministro della Pubblica Istruzione – non sapeva come cavarsela con una scuola riformata nel 1923 e poi, praticamente, mai più toccata.
Ah certo: si fa presto a dire “com’era bello quando i treni arrivavano in orario”, ossia come quella scuola funzionasse abbastanza bene. Abbastanza, sia chiaro, perché era una scuola d’elite.
Se qualcuno ha dei dubbi, scorra le pagine di due testi “paralleli”: “Un anno sull’altopiano” di Lussu e “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, di Remarque. Per capire come i due sistemi scolastici fossero già allora distanti, basterà riflettere che i tedeschi – completato il Gymnasium – finivano a fare i fantaccini mentre, da noi, bastava uno straccio qualunque di pezzo di carta scolastico per fare l’ufficiale. E ancora non bastava, al punto che furono promossi ufficiali (con carriera limitata a capitano) anche dei sottufficiali senza istruzione. In pratica, eravamo già indietro – per istruzione – un secolo fa.
Quando si cerca di portare lo standard italiano ai livelli europei – ossia la scolarità fino ai 18 anni – quella scuola inizia a far acqua da tutte le parti. Perché? Poiché era stata pianificata – nel 1923, da Gentile e Lombardo Radice – per essere la scuola del 10% degli italiani! Se si mantengono identici livelli d’apprendimento (e di verifica dei risultati), quella scuola finisce per fornire inevitabilmente i medesimi risultati, ossia un 10% circa di “abili”. E per gli altri? Non essendoci alternativa alla bocciatura del 50% (a dir poco) ogni anno, il sei politico diventa l’unica soluzione praticabile.

Spiegare l’impasse della scuola italiana è più facile con un semplice esempio: la scuola d’elite creata da Gentile e da Lombardo Radice è paragonabile ad una produzione d’alta qualità, ad esempio la Ferrari. Se si producono poche e costose Ferrari per un mercato ristretto, tutto funziona. Quando, la faccenda “grippa”?
Quando si pretende che dalle linee della Ferrari escano auto popolari: gli impianti, le maestranze, il know-how non sono assolutamente compatibili con la produzione d’utilitarie.
Fuor di metafora, la questione non riguarda soltanto l’annosa querelle sulle lingua antiche, perché quella scuola – parimenti – forniva ottimi Geometri che sapevano progettare e costruire, abili Ragionieri, Periti in grado d’essere classe dirigente industriale.
Come s’ottenevano quei risultati? Mediante la selezione.
Provate ad immaginare, oggi, classi composte totalmente, per capacità ed impegno, soltanto da quel 20% di “bravi” che oggi continuano ad esistere: potrete tranquillamente fare classi di 30 persone ed iniziare il primo di Ottobre. Quelli, non avranno problemi perché sono i più capaci.
Difatti, la scuola italiana continua a formare le cosiddette “eccellenze”, tanto che bravi ricercatori italiani occupano posti di grande responsabilità all’estero. Ogni tanto, arriva pure un Nobel.
La vera e propria frana inizia quando si vogliono applicare quei criteri alla quasi totalità degli studenti italiani: cosa succede?

Liceali che sanno a mala pena tradurre Cicerone, che hanno una vaga idea di cosa sia una derivata, diplomati tecnici che piazzano una vaschetta di Zinco in un impianto di riscaldamento con tubi di Rame (capitato a chi scrive, con prevedibili risultati), poiché sanno poco o nulla di Fisica e di Chimica.
Quindi, il semplice “ritorno al passato” non serve: quel “passato” già l’abbiamo e sappiamo che, per le “eccellenze”, funziona. Il problema è fornire una buona istruzione, di medio livello, per persone con capacità medie: quello che in Germania riescono, da sempre, a fare.
All’estero esistono offerte formative più coerenti, senza scivolare nella eccessiva varietà o specializzazione: perché non copiare qualcosa?
Per un malcelato campanilismo, la scuola italiana tende a difendere “in trincea” il proprio modello – che, ricordiamo, per le “eccellenze” funziona – senza accettare che, chiudendosi nella torre d’avorio che favorisce i pochi “bravi”, finirà per condannare all’ignoranza intere generazioni. Chi poteva intervenire?

La classe politica, incapace di proporre qualcosa, con la riforma dell’autonomia gettò sulle spalle dei docenti responsabilità che non potevano prendersi in toto: in altre parole, una riforma “dal basso” non era praticabile, poiché – e qui entrano in gioco altri problemi, meno conosciuti – si doveva riformare il non riformabile.
Parallelamente alle materie di studio ed agli indirizzi, ci sono le classi di concorso dei docenti e le cosiddette “cattedre”, ossia le ore settimanali per ogni disciplina. Si tratta, in parole povere, di un puzzle piuttosto complesso che ha vissuto, finora, con l’impianto del 1923.
Nessuno, ovviamente, ha mai pensato ad una riforma organica e coerente con i tempi poiché – in fin dei conti – conviene loro che ci sia soltanto un ristretto numero di “dotti” ed una vasta pletora che ha scarsi mezzi per interpretare la realtà che li circonda. Le analisi, compiute da molti istituti di ricerca sul cosiddetto “analfabetismo di ritorno”, lo confermano.

Così, ai poveri docenti italiani fu precipitata addosso la responsabilità di trasfigurare in alchimisti: con un misero 15% del monte orario (poi divenuto 25%) dovevano cavarsela – da soli – a risolvere il dilemma. Da Roma, silenzio assoluto.
Berlinguer promise i famosi “saperi minimi” e ancora li aspettiamo, la Moratti strombazzò una riforma, per poi approvarla in zona Cesarini a futura memoria, poi giunse Fioroni con il suo cacciavite e, infine, una tizia che potrebbe (forse) fare l’assessore all’Istruzione in un Comune sotto i 5.000 abitanti.
L’unico – paradosso! – che avrebbe avuto competenze ed idee era il professor De Mauro, ma fu solo un supplente e i supplenti – si sa – più che un po’ di ripasso non riescono a fare.
Adesso, arriva un certo Mario Giordano da Alessandria – che, non si sa come, s’è assiso alla scrivania che fu di Montanelli – e ci viene a raccontare la rava e la fava? Per “tirare la volata” alla sorella? Ossia, per fare in modo che la sorella possa impunemente firmare tutto quello che le passano Tremonti e Brunetta?
In tutta sincerità, mi frega assai poco di quanto si potrà blaterare sulla scuola italiana: quel che conta – e questa è la sola motivazione di scrivere al riguardo – è avvertire i poveri genitori dell’inganno nel quale sono stati precipitati. Loro, incolpevoli, i docenti, incolpevoli, gli allievi, incolpevoli.

Basti pensare che i docenti italiani, poche settimane or sono, si sono trovati a dover interpretare – per l’adozione dei libri di testo – una circolare non solo contraddittoria, bensì già cassata dal TAR del Lazio! La risposta? Ci sarà il ricorso al Consiglio di Stato, non temete: lo Stato non s’è ancora estinto! Ma, il TAR, non è parte dello Stato?
Vorremmo chiedere perché in Francia ed in Germania la spesa per i libri è risibile e, per la maggior parte, i testi vengono forniti direttamente dalla scuola, in comodato d’uso. Una cugina, a Parigi, spendeva 30 euro l’anno per due figli alle superiori! Dove finiscono i soldi?

Con la bella trovata dei “fannulloni”, Brunetta ha imposto come obbligo la visita fiscale anche per un solo giorno di malattia: il problemi, sono i tempi e chi paga.
Poniamo che, nell’arco della mattinata, giunga la telefonata che avverte dell’assenza: la scuola informa immediatamente la ASL di competenza per la visita fiscale ma, a quell’ora, i medici avranno già ricevuto il carnet delle visite. Quindi, un problema organizzativo non facile da risolvere. L’obiettivo, però, è un altro.
Una visita fiscale costa circa 60 euro e qui, la bella impostazione “privatistica” – di Bassanini, e poi di tutti, a seguire – fornisce il meglio di sé, perché mette in competizione due servizi dello Stato, proprio per quei 60 euro.
L’ASL avrà interesse ad incassarli, la scuola a non perderli: scatta così una gara sui tempi. Medici con le scarpette da atletica ed impiegati della scuola con fax “sonnolenti”: si gioca sui tempi, per salvare il bilancio, dell’uno e dell’altro.
Da quel che appare, la scuola sta perdendo ed i bilanci sono in rosso proprio per le maledette visite fiscali per un solo giorno. Un tempo, era il Preside a decidere se inviarla per un solo giorno: una questione di buon senso.
Immaginate una scuola con 60 dipendenti (docenti + ATA) dove ogni dipendente – rispettando in pieno la statistica della Ragioneria dello Stato! – stia a casa per malattia un giorno il mese. E’ una caso limite, “di scuola”, ma utile per capire dove si va a parare: fanno 3.600 euro il mese, 43.200 euro l’anno, che per una scuola di quella grandezza rappresentano più del 50% del budget, e tantissime voci del bilancio sono incomprimibili.
Ovviamente, non tutte le assenze sono di un giorno, non tutte le visite fiscali possono essere eseguite, ma l’esborso è comunque notevole.
Difatti, le scuole stanno indebitandosi per le visite fiscali: alcune, iniziano ad attingere agli anticipi di bilancio per il prossimo anno (siamo poi certi che arriveranno quei soldi?) ed azzerano tutte le attività che costano anche pochi euro.
Dopo aver creato le condizioni per “sbancare” i bilanci delle scuole, fra poco (magari d’estate, dopo le elezioni) daranno un ulteriore “giro di vite”, con la scusa che la scuola costa troppo. La Gelmini lo ripete ad ogni piè sospinto. In realtà, sono loro stessi a creare le condizioni del disastro: interrogato sul problema, Brunetta ha risposto che la questione “è allo studio”. Studia, va, che ne hai bisogno.
Ai più attenti, non sarà sfuggito che si tratta di un colossale trasferimento di denaro dalle casse delle scuole (Stato) a quelle delle ASL (Regioni): in questo modo, si dissanguano le scuole per allontanare il pericolo di bilanci in rosso delle ASL. Detto in altri termini, con una partita di giro, la scuola va a fondo e la sanità tenta di sopravvivere.

Qual è il ritorno, per la classe politica, nell’abbandonare la scuola al suo destino?
Con la legge D’Alia la classe politica cerca di mettere il bavaglio ad Internet: perché mai dovrebbe pianificare una scuola per formare buoni cittadini? Domani, se diventassero coscienti, li giudicherebbero.
Una piccola prova? Nonostante sia materia di studio, nessuno o pochi spiegano l’Educazione Civica. Scientemente, tutti i Ministri hanno sempre relegato in un negletto cantuccio proprio la materia che consente di comprendere il “posto” che il cittadino occupa nella società. Se si vogliono solo dei sudditi, a che pro “farli studiare” da cittadini?
La scuola, privata proprio dei suoi compiti precipui, diventa solo più un “servizio” che deve costare il meno possibile: già negli anni ’90, la progressione in calo dei docenti era dell’1% annuo. Ovviamente, ciò condurrà ad un declassamento dell’Italia in Europa e nel mondo: ciò che abbiamo sotto gli occhi.
Se in quegli anni s’iniziò con un Ministro della Funzione Pubblica (Bassanini), che impose quel disegno, ed un Ministro dell’Istruzione (Berlinguer) che lo attuò, giungiamo a verificare che lo schema non è mutato: oggi, Brunetta impone e la Gelmini firma. A margine, possiamo solo notare come si sia passati dalla tragedia alla farsa.

Quindi, le operazioni editoriali come quella di Mario Giordano sono soltanto il supporto ideologico per riuscire ad imporre tagli e dismissioni al patrimonio culturale della scuola italiana, così avremo soltanto – come imprinting culturale – l’Isola dei Famosi ed il prof. Filippo de Maria. Perfettamente coerenti con i desiderata di “Papi”.
Paradossale, poi, che l’operazione parta da un giornale di proprietà del Presidente del Consiglio: del resto, siamo oramai abituati a cose ben peggiori.
Come tutte le operazioni pseudo-culturali di bassa lega, si cerca di far leva più sulla “pancia” dell’elettorato: si cita “MadameWeb” come esempio negativo, le pizzette gratis promesse dalle scuole per avere più iscritti ed altra paccottiglia di vario genere, senza mai affrontare il nocciolo del problema, ossia adeguare la scuola ai tempi mantenendo ciò che c’è di buono.

Un dibattito serio sulla scuola richiederebbe ben altro spazio ma spero, con queste poche righe, d’esser stato chiaro e, soprattutto, d’aver fatto risparmiare 18 euro a qualcuno: 18 euro che sono proprio i classici 30 denari, pagati al mandrogno per reggere la coda alla Gelmini, a Brunetta ed al loro “Papi”. Si vergognassero.

E se, i docenti italiani, dovessero iniziare a giudicare i direttori di testata? Ce ne sarebbe da dire.

[1] Mandrogn’: termine dialettale piemontese per definire gli abitanti d’Alessandria. La probabile origine è da mandria o mandriano.

24 maggio 2009

Sui tanti perché di Italianova

A dire il vero, non ho gran voglia di tornare sulla vicenda di Italianova ma, siccome qualcuno – nemmeno poi troppo velatamente – lo ha chiesto nei commenti, non mi esimerò dal farlo.
Italianova nacque, per modo di dire, nel Febbraio del 2008 quando acquistai il dominio. Il nome era mutuato dal “dolce stil novo”, una trasposizione di quella che fu la nascita della nostra lingua, con la speranza di veder nascere un nuovo modo di fare politica.
L’idea era quella di creare un gruppo di persone affiatate, per riuscire a riunire i tanti che s’aspettavano qualcosa dal Web in termini di nuova politica, e che erano stufi di commentare soltanto sul blog di Grillo (o su altri) senza, però, intravedere un futuro coeso, una prassi, un progetto che avesse una scansione e dei tempi.
In questo senso, bisogna dire che Italianova possedeva dei connotati veramente innovativi: tanto per citarne uno solo, non era possibile commentare gli articoli o i punti del programma, ma solo proporre un’alternativa coerente con il resto dell’architettura. In altre parole, chi desiderava partecipare ad Italianova doveva impegnarsi in prima persona, non limitarsi al “quoto” e “non quoto”.
Ben presto si creò spontaneamente un gruppo: facilmente, come avviene sul Web, ma il problema della distanza ci limitava parecchio. In media, avevamo qualche centinaio di chilometri l’uno dall’altro.
Questo fu uno dei fattori che sottovalutammo: qualche volta riuscimmo ad incontrarci, ma per poche ore e senza conoscerci a fondo. E, se non ti conosci a fondo, la fiducia ha sempre qualche aggettivo che l’accompagna. Di troppo.
Il lavoro proseguì bene per tutta la Primavera e l’Estate, al punto che – a Settembre – eravamo pronti per il debutto: il sito era abbastanza ricco, c’era un programma politico completo, un metodo di lavoro (almeno, a grandi linee), e tanto entusiasmo. Avevamo già addirittura steso, a mo’ di esempio, una Proposta Operativa per l’Energia, in pratica una bozza di legge soltanto da tradurre nel linguaggio giuridico.
Le note dolenti erano che il programma l’avevo scritto quasi tutto io e, anche se desideravamo proprio l’opposto, alcuni del gruppo (eravamo otto, se ben ricordo) finivano per “quotare” o poco più.
Italianova divenne ben presto un luogo dove ciascuno faceva il suo dovere, ma a lavorare veramente eravamo in tre: gli altri, fornivano solo qualche contributo occasionale.
Il 23 di Settembre andammo on-line ma, la sera precedente, avevo chiesto al webmaster di pubblicare un ulteriore, brevissimo articolo: in pratica, una vignetta su Alitalia. Per suoi motivi, il webmaster mi rispose che l’avrebbe pubblicata solo il giorno dopo.
Non compresi perché, visto che ci volevano pochi minuti, non fosse possibile farlo. Rispose che non aveva tempo.
Io, chi mi conosce personalmente lo sa, ho un vero e proprio carattere di m…, nel senso che “prendo fuoco” facilmente. Altrettanto facilmente, però, mi “spengo”.
Preso dalla rabbia, scrissi che, se non riuscivamo a postare un articolo in un giorno, potevamo fare a meno di continuare.
Da lì, nacque un torrente di ritorsioni, liti e quant’altro, che condusse alla fine di Italianova.
Ovviamente, se avessimo avuto la possibilità di vederci, di parlarci di persona, probabilmente tutto si sarebbe appianato: anzi, forse non sarebbe nemmeno successo tutto quel can can.
Questa è, in estrema sintesi, la storia di Italianova: qual che conta, però, è capire cosa si mosse “sotto”.
Anzitutto, in Italianova non si muoveva foglia senza che io l’approvassi: era quasi normale, poiché ero stato io ad avere l’idea, a progettarla a grandi linee, a stendere la prassi di lavoro.
Questo è il primo limite di un’iniziativa che parte da una sola persona: si finirà sempre “ospiti” in quella casa, mai comproprietari.
Sull’altro versante, io ero l’unico che aveva qualcosa da perdere: anni di lavoro sul Web sarebbero dovuti “migrare” su Italianova, con tutto quel che significava, per me, abbandonare questo blog.
Anche altre esperienze, simili, sono naufragate oppure non decollano: dalla “Repubblica dei Cittadini” di Beha & Veltri agli “affanni” nei quali si dibatte Pandora. Anche Contragorà finì nel nulla, anche se aveva un diverso obiettivo.
Il Web è benedizione e maledizione al tempo stesso, poiché ti consente una facilità di contatti senza limite, ed altrettanto facilmente non ti consente di superare l’aggregazione puramente virtuale. Per questo, i partiti tradizionali “tengono”, oltre, ovviamente, per il fiume di soldi che hanno a disposizione.
Il problema “soldi” non è da sottovalutare: se si decide d’incontrarsi, come s’organizza tutto senza fondi? Non è bello leggere sul sito de “Il bene comune” che l’iscrizione costa 10 euro, ma si può capire, anche se non fa un bel effetto.
La gestione di iniziative come queste, poi, richiede capacità organizzative che io, solo, non sarei stato in grado di reggere: ricordo che uno dei problemi fu la gestione della posta. Chi si sarebbe assunto l’onere? E come coniugare la partecipazione di tutta la redazione, o “gruppo originario”, senza creare confusione?
Il paradosso che ho scorto nella vicenda di Italianova è che si trova accordo sui “massimi sistemi” in pochi minuti, mentre la gestione di una semplice matita richiede sforzi titanici.
Dopo l’esperienza di Italianova, il mio pessimismo è maturato e cresciuto: non per le persone (ottime per tanti aspetti), per l’iniziativa (che era fulgida) ma nella constatazione che è terribilmente difficile far convivere le idee con la prassi quotidiana. Quasi quasi, riesco a capire le difficoltà nelle quali si dibattono anche partiti come il PD: poggiano su una base clientelare ma, fuori da quel metodo, come possono rinnovarsi?
Perciò, ho preferito parlarne una volta per tutte per spiegare cosa fu Italianova: mi è difficile spiegare altro, perché mi rendo conto che ho bisogno di critica, ovvero di qualcuno che – non avendo partecipato all’iniziativa – possa farlo. Aspetto dunque i vostri commenti e cercherò più il dibattito che una sorta di “spiegazione”. In altre parole, voglio uscire – psicologicamente – dalla “gabbia” di Italianova: magari “primus” se altri lo desiderano, ma mai più solo. Sempre “inter pares”.
Poi, a Febbraio, mi deciderò a disdire il dominio.

16 maggio 2009

Non può che finire così (parte seconda)

Il torto, o la disgrazia del partito dottrinario è stato di creare la gioventù vecchia. Prendevano degli atteggiamenti da sapienti, sognavano di innestare un potere temporale sul principio assoluto ed eccessivo, al liberalismo demolitore opponevano, talvolta con rara intelligenza, un liberalismo conservatore.”
Victor Hugo – I Miserabili – II vol. – Libro Terzo – Requiescant.

Ogni popolo, quando s’avvicina al limite di default, non cerca soluzioni e s’affida più alla speranza che al raziocinio.
Uno dei cardini di questa politica vigliacca, il frutto più perverso di anni di reality, è credere che la buona stella – lo “stellone” italiano – sia una risorsa inesauribile, duri eternamente e per tutti. Provarono la stessa sensazione gli abitanti di Sarajevo.

Alen Custovic – nel suo bellissimo Eloì, Eloì[1] – fa pronunciare al protagonista (professore di Storia in una scuola di Mostar) una frase sibillina che, in qualche modo, ci chiama in causa:

“Forse solo gli italiani sono più meticci di noi. Qui la storia è complessa, e in ogni caso gli italiani sono arrivati a uno stato unitario molto tempo prima di noi (jugoslavi N. d. A.)

Non è certo il caso di metterci a sfogliare la margherita per decidere chi sia più meticcio: di certo, la genesi risorgimentale assemblò popoli probabilmente non “meticci” in senso razziale o religioso, ma diversissimi per culture e, soprattutto, per abitudini consolidate, prassi quotidiane, sistemi di governo.

Giunse una flaccida stagione post risorgimentale, quindi il Fascismo che tentò anch’esso la difficile amalgama, fino ai governi della Prima Repubblica che fecero assai poco per cercarla: la perenne sudditanza del Sud fu sfruttata come serbatoio di voti da contrapporre alle classi lavoratrici del Nord, che cercavano riscatto votando (purtroppo, credendoci) le sinistre. Quelle sinistre.
La storia unitaria, che s’avvicina ai 150 anni, può essere considerata lunga ma ha prodotto assai poco: forse, l’unica spinta verso una cultura condivisa avvenne negli anni ’60 del secolo scorso, con la grande emigrazione verso il Nord. In qualche modo, ci avvicinò.
Dall’altra, per decenni i politici di maggioranza (soprattutto la DC) non fecero altro che presentare il “conto” della pace sociale al ceto imprenditoriale del Nord, che lo onorava conferendo loro l’assenso d’attingere denaro pubblico per pagare i famosi milioni di false pensioni d’invalidità. Uno scambio “equo e solidale” che riuscì a rimanere a galla fin quando non cambiò la situazione internazionale: dopo il 1989, il PCI divenne una tigre di carta “certificata”, mentre prima poteva almeno millantare velleità e crediti.
Dopo il 1989, tutti gli equilibri saltarono, e saltò anche la necessità – per il ceto imprenditoriale del Nord – di mantenere quella gabella. E si giunse al fatidico 1992.

Tutto parte da quel maledetto 1992, quando la mafia – fra Maggio e Luglio – uccide Falcone e Borsellino: “menti raffinatissime” sono alla guida di quegli eventi. Nella stessa estate, sul Britannia, i destini dell’economia italiana – quel pezzo di “socialismo reale” che la improntava – passano nelle mani degli Angli. Ma c’è dell’altro.
A settembre va in scena la seconda parte di quel piano, perché anche i crucchi – padroni del supermarco e gestori del futuro euro – chiedono banco, e la lira perde il 30%. Giuliano Amato deve varare una legge Finanziaria con “tagli” per 100.000 miliardi di lire: sarà la prima di una lunga serie.
Se qualcuno cerca il “default” dell’Italia non deve cercarlo avanti: esso è già avvenuto, nel 1992.
Come un motociclista che corre a tutto gas, nel 1992 avvenne la fatale scivolata ed il ricovero in ospedale: dopo, tutto ciò che è avvenuto è solo cronaca dal coma farmaceutico.

Nel 1998, Bettino Craxi – da Hammamet, dov’è oramai in esilio – chiede conto a Giuliano Amato (all’epoca dei fatti Presidente del Consiglio) della sciagurata strategia che condusse la Banca d’Italia a gettare nella fornace di un’impossibile difesa della lira 70.000 miliardi. Amato, risponde “che stava intervenendo su Helmut (evidentemente Kohl) per rafforzare la linea di difesa della lira, e quindi che la partita era ancora aperta. Evidentemente il Governo italiano contava su di un massiccio intervento di sostegno da parte della Deutsche Bank (forse Bundesbank?, n.d.r.) [2].
Il costo finale di quel madornale errore – o tranello teso dai tedeschi? – furono 14.000 miliardi di perdita secca, dovuta alla successiva, inevitabile svalutazione.
Qualcuno, però, aveva avvertito.

Tre giorni prima della svalutazione, Gianfranco Miglio, senatore della neonata Lega Nord, recapita un “pizzino”, un avvertimento chiarissimo: vendete lire, acquistate marchi, fin quando siete in tempo.
Qualcuno, dalla Germania, aveva forse contatti più stretti ed obiettivi convergenti con l’allora regista della Lega Nord (Bossi era solo, all’epoca, un “giovane di studio”). Perché?
Vediamo cosa successe, parallelamente, molto vicino a noi.

Negli stessi anni, iniziò il processo che condusse alla disgregazione jugoslava e i due fenomeni non furono né casuali e né slegati. Le due repubbliche – italiana e jugoslava – erano entrambe “sotto sorveglianza”: la prima con il più forte Partito Comunista dell’Occidente (e, soprattutto, moltissimi contatti ed affari con l’URSS: si pensi alla lunga collaborazione con il gruppo FIAT, oppure le forniture di macchine di vario tipo per l’industria sovietica), la seconda che non fece mai parte del Patto di Varsavia e contrattò sempre finanziamenti sia con l’URSS, sia con l’Occidente capitalista.
La situazione, per gli aspetti geopolitici, fino a quel momento era d’equilibrio: la non appartenenza della Jugoslavia al Patto di Varsavia impediva all’URSS l’accesso ai porti adriatici, mentre l’equilibrio interno italiano consentiva affari a 360 gradi, anche nel “pianeta” del socialismo reale.
Qui, moltissimi fattori dovrebbero essere approfonditi, ma per quanto riguarda i nostri obiettivi basterà sottolineare che, fra il 1989 ed il 1992, quel mondo scomparve, trascinando con sé gli “accomodamenti” che ne consentivano l’equilibrio.
Per la Jugoslavia, è l’attivissimo ministro degli esteri tedesco Klaus Kinkel ad attivarsi, giungendo a “rispolverare” antichi contatti che risalivano alla Seconda Guerra Mondiale, soprattutto in Croazia. Quando il FMI intimò la suddivisione del debito jugoslavo fra le singole repubbliche, e Kinkel “girò” gli armamenti ricevuti dalla Germania Est in Croazia, la mattanza ebbe inizio.
Non fu possibile gestire la disgregazione jugoslava in modo chirurgico, limitandosi al lavoro “di fino” dagli uffici centrali delle banche, poiché la struttura economica della repubblica socialista era basata sull’impianto cooperativo: bisognava tagliare nella carne, la pelle non bastava. E si giunse a Sarajevo ed al Kosovo.

L’obiettivo, che a quel tempo la Bundesbank perseguiva, era la cosiddetta “Europa a due velocità”: prima dentro “i buoni”, per gli altri si vedrà.
C’erano, però, dei “buoni” che erano legati a nazioni “cattive”: la Slovenia era senz’altro “buona”, come “buonissimo” era l’antico Lombardo-Veneto. Ma la Slovenia era legata alla “cattiva” Serbia ed al pozzo senza fondo della Bosnia, mentre il Lombardo-Veneto era legato al sempre inconcludente meridione italiano.
Siccome fondare un partito e condurlo ad una buona visibilità politica costa parecchi denari – tralasciamo, per ora, il “dopo” della Lega Nord – i lettori potranno avere un’idea di chi sorresse i primi passi di Bossi & Co, dalla “cannibalizzazione” della Liga Veneta di Rocchetta ai vari parlamenti “padani”.

La scomparsa di Miglio, la sconfitta della linea della Bundesbank (le due “velocità), l’ingresso nell’euro ed il quasi parallelo ingresso della Lega Nord nei governi Berlusconi, proiettarono nel baratro della Storia quegli eventi, ma le cause sottese rimasero, al punto che – oggi – la Lega Nord si trova nella difficile situazione d’essere il partito che vota gli “sforamenti” di bilancio di Scapagnini a Catania e di Alemanno a Roma, fino a dover incassare il declassamento di Malpensa.

La risposta della Lega Nord è tutta contenuta nella speranza del “federalismo fiscale”, ma è uno specchietto per allodole: come abbiamo già ricordato nella prima parte di questo articolo, non si possono conciliare le esigenze di un Sud clientelare con quelle di un Nord che cerca, disperatamente, livelli di reddito e di welfare europei! Difatti, Tremonti è bombardato da richieste di fondi proprio per questa legge – “tutti saranno garantiti” ha affermato Calderoli, e sono pronte nuove gabelle per salvare Comuni, Province, Regioni, ecc – ma, non si doveva trattare di una legge che avrebbe condotto a dei risparmi? Eppure, la Lega Nord avanza nei consensi.

In definitiva – paradossalmente, vista l’alleanza con la Lega Nord – oggi Berlusconi è il garante dell’unità nazionale e la esercita ricorrendo alle vecchie prassi della Prima Repubblica, con alcune differenze.
Ha inaugurato la “caccia” al pubblico dipendente – che s’avvia a diventare lo zimbello della nazione: a quando la stella gialla? – per nascondere altro: in fin dei conti, non basta la “tosa” dei lavoratori dipendenti (TFR del settore privato, domani di quello pubblico, “congelamenti” vari, pensioni il giorno del mai…) e il Nord dovrà comunque pagare per un Sud inconcludente.
Basti pensare che, nel quinquennio 2000-2005 (centro destra), le pensioni d’invalidità concesse, in massima parte nel meridione, aumentarono del 47%[3].
Una risposta, a questo anomalo incremento, giunse da Lorena Ciorra dell’ANMIC[4]:

“…la pensione di inabilità (di misere € 255,13 mensili, che moltissimi ignorano), per tanta parte dei nostri concittadini è un vero e proprio assegno alimentare. Ma è un assegno così misero che vi ricorrono solo coloro che si trovano in miserrime condizioni, che non hanno un occupazione e vivono della bontà di vicini e familiari, ecco perché l’incidenza è maggiore al centro sud piuttosto che al nord.”

Ciò che venne ignorato nel passaggio alla cosiddetta “Seconda Repubblica” – ossia che le condizioni del Sud sono un dato strutturale – tornò ad affacciarsi dalla finestra, poiché la dismissione delle Partecipazioni Statali aggravò ancora il quadro del Meridione. Le eterne pensioni d’invalidità – o forme equipollenti – non sono altro che il pietoso welfare per il Sud, in cambio dei soliti voti. Può contare, Berlusconi, di proseguire con questo andazzo?

I più recenti dati economici italiani sono sconfortanti: la produttività è in calo o stagnante da almeno un decennio, al quale vanno aggiunte la deindustrializzazione in atto, soprattutto al Nord, e la fuga dei giovani laureati verso l’estero, la mancanza di ricerca e d’innovazione e di seri piani politici nei settori produttivi. Il debito pubblico, però, è forse l’allarme più evidente.
Il debito pubblico italiano ha raggiunto, a Maggio 2009, un nuovo record a quota 1.741,275 miliardi di euro: rispetto alla rilevazione di Febbraio 2009 (1.707,410)[5], un incremento del 2% in un trimestre! Di questo passo – con le entrate fiscali in calo – ci stiamo avviando verso incrementi record: l’8% annuo? Sulla base di un PIL in calo del 4-5%? Mentre veniamo incantati dal tourbillon delle veline e del regal divorzio, non è che – per caso – qualcuno ha già lanciato il treno sul binario morto, ed aspetta soltanto l’istante per saltar via prima dello schianto?
Questi sono numeri da Argentina, anche se non sarà l’Argentina il nostro futuro: gli argentini sono un popolo dignitoso.

Questo quadro non potrà reggere ancora per molto, e lo sa anche l’attuale governo: ulteriori riforme sulla previdenza potranno “dare un po’ di fiato”, ma l’esito è segnato.
Le occasioni sprecate dalla classe politica, negli ultimi quindici anni, sono state tante ed importantissime: aver bloccato la produzione d’energie rinnovabili – sia con grandi impianti, sia con quella diffusa sul territorio – ha privato l’economia reale di ampie fonti di ricchezza. Basti pensare che 850 MW di produzione idroelettrica da piccoli impianti ancora aspettano che qualcuno vada a “raccoglierli”[6]. Lo stesso accade per l’eolico, per il termodinamico, per le biomasse: è sintomatico che, i pochi impianti per la produzione d’energia elettrica da biomasse, siano quasi tutti di proprietà del gruppo Marcegaglia (!).
Il “diverso corso” italiano sarebbe dovuto iniziare con la produzione diffusa e l’incentivazione della cooperazione, in tutti i settori economici, dall’agricoltura all’energia, dai trasporti alla cooperazione nella ricerca legata all’industria: invece, come è stato evidenziato nella prima parte di questo articolo, motivazioni di “cassetta” elettorale condussero a scenari esattamente opposti, a concentrare la ricchezza, ed oggi è troppo tardi per porvi rimedio.

Per il futuro, non possiamo che aspettarci Berlusconi fin quando vorrà o potrà, giacché l’opposizione è inesistente, velleitaria ed incapace di un progetto politico alternativo, quando non collusa[7].
Fin quando Berlusconi “potrà”?
Dai dati economici che giungono, non ha più molta “aria”: forse un paio d’anni, poco di più. E dopo?
L’ipotesi avanzata da Paolo Guzzanti: prospettiva “alla Putin”, ossia Presidenza della Repubblica all’uomo di Arcore e nomina di un Presidente del Consiglio totalmente inconsistente – Guzzanti fece il nome della Gelmini – per continuare a governare dal Quirinale, è praticabile per l’aspetto istituzionale (ci sembra, però, che Gianfranco Fini stia “studiando” con profitto da Presidente), ma non regge nello scenario economico-sociale, che è il vero problema.
L’uomo, che scese in campo con toni di salvatore, potrebbe lasciarlo con egual stile, ossia con un’uscita di scena “alla Cincinnato”: non sarebbe difficile, per i media che controlla, partorire e pianificare l’evento per farlo apparire come il nobile atto di chi tanto ha fatto per il Paese. Non sono questi, però, i veri problemi, come per le veline.
Chi raccoglierebbe l’eredità di Berlusconi?
Nessuno, è presto detto, ma Berlusconi non è mica eterno.

Il PdL, con l’uscita di scena di Berlusconi, si sfalderà come neve al sole: già nella precedente legislatura, Scajola si vantava di “controllare almeno 80 parlamentari di Forza Italia”.
Si giungerebbe ad una nuova stagione di grande instabilità, poiché la frantumazione del PdL non consegnerebbe all’Italia una forza politica conservatrice di destra – un partito gollista, per intenderci – bensì degli spezzoni di “fu” democristiani, socialisti, radicali, missini…ai quali s’aggiungerebbero ex “forzisti” di tutti i tipi. Grande confusione sotto il cielo.
Ovviamente, tutti cercheranno d’approfittarne e Casini sta giocando già oggi “a babbo morto”, ossia aspetta sulla riva del fiume per raccogliere il maggior numero di profughi ed esuli. Ma non sarebbe lui a godere del maggior vantaggio politico.
L’unico partito che uscirebbe fortemente rafforzato da questo scenario sarebbe la Lega Nord, ma – attenzione – in un quadro di forte squilibrio territoriale. Forse, vale la pena di dare una rapida occhiata ai più recenti sondaggi elettorali[8]:

Popolo della Libertà: 37.4%
Partito Democratico: 26.9%
Lega Nord: 9.8%
Italia dei Valori: 7,7%
UDC: 5,6%
MPA-La Destra-Pensionati: 3,5%
Sinistra e Libertà: 3,1%
Rifondazione/Comunisti Italiani: 2,7%
Altri: 3,4%

Ciò che colpisce (ma non stupisce) è l’avanzare costante della Lega Nord, che è il primo partito dell’area lombardo-veneta:

La Lega e' la prima forza politica in Veneto con il 28,7 per cento rispetto al 27,1 delle Politiche. In Lombardia 22,2 per cento dal precedente 21,6. Balzo anche in Piemonte: dal 12,6 per cento al 14,9. In Liguria passa dal 6,8 al 7,3 per cento e in Friuli Venezia Giulia dal 13 al 14,6. Notevole l'incremento anche in Emilia Romagna, dove il partito del Senatur passa dal 7,8 per cento delle Politiche 2006 all'8,9%[9]

Quando avverrà il default del PdL – causa abbandono di Berlusconi (in qualsiasi modo) – quel terzo circa d’italiani che votano il PdL, a chi si rivolgeranno?
Con la Lega Nord che sfiorerà (o raggiungerà?) la maggioranza assoluta nel Lombardo-Veneto, come sarà possibile arrestare il processo di frammentazione?
L’UE non parteciperà – almeno, ufficialmente – alla eventuale querelle che si scatenerà, considerando anche un ulteriore aspetto: i poteri economici e finanziari del Nord potrebbero puntare proprio sulla secessione per salvare il salvabile dell’economia del Nord Italia.
Neppure la consistenza del Sud come “mercato”, in tempi di globalizzazione, avrà più peso.

L’ipotesi della secessione non è più valutata soltanto dai politici della Lega Nord o da quelli vicini ad essa: anche alcuni “insospettabili” – Riccardo Illy, ex Presidente del Friuli Venezia Giulia da un lato, e Sergio Chiamparino, sindaco di Torino dall’altro – ammettono una “questione del Nord” usando un eufemismo, non potendo dichiarare che esiste oramai una secessione “strisciante”.
A raccogliere il testimone di una eventuale secessione, potrebbe anche non essere questa Lega Nord, ma una coalizione di forze politiche oggi ancora inesistenti, che potrebbero nascere dalla disintegrazione del PdL.
Una secessione, a quel punto anche formale, del Veneto o del Lombardo-Veneto scatenerebbe probabilmente un “effetto domino” non solo sul Nord Ovest, ma anche in alcune aree del centro.

La futura suddivisione dell’Italia potrebbe non essere più quella immaginata dal sen. Miglio – tre aree: Nord “padano”, “Etruria” (aree centrali) e Sud (tutto il resto) – poiché, nel frattempo, regioni come le Marche si sono avvicinate più al Nord, come sistema economico, che all’originaria appartenenza allo Stato della Chiesa. Lo stesso si può dire per la Romagna, e forse anche per l’Umbria, più, ovviamente, la Toscana.
La situazione economica delle due sole repubbliche (Nord e Sud) sarebbe molto diversa, pur considerando una suddivisione del debito interno pro capite: alcune analisi, molto approssimative, sostenevano che il PIL italiano sia prodotto per il 70% al Centro-Nord e per il 30% al Centro-Sud, mentre i consumi sono ripartiti all’incirca per il 60% al centro Nord e per il 40% al Centro-Sud. Un trasferimento di ricchezza del 10% non è poco.
Vorrei pregare i lettori di prendere “con le molle” questi dati, poiché bisognerebbe approfondire ulteriormente la natura di quella “produzione”: anche il settore pubblico partecipa alla produzione di ricchezza, e ben sappiamo che gli apparati pubblici, nel Sud, sono spesso “gonfiati”.
In definitiva, il Nord potrebbe “aggiudicarsi” subito un 10% di reddito e, potendo far fronte meglio al problema del debito, in pochi anni potrebbe avere redditi nell’ordine di quelli francesi, il 15% in più circa rispetto all’Italia. Duemila euro diventerebbero 2.300, che già modificano lo stile di vita, e non c’è quindi da stupirsi per l’incremento della Lega: gli italiani sanno far di conto meglio di quel che si crede.

Il Sud diventerebbe, inevitabilmente, la nazione più povera d’Europa, forse al pari d’alcune aree portoghesi e greche.
E’ veramente difficile ipotizzare quale potrebbe essere il futuro del Sud, tante sono le variabili, soprattutto la presenza, soffocante, del connubio politico/criminale.
Volendo osservare il bicchiere mezzo pieno, la secessione potrebbe finalmente far emergere le molte energia positive che al Sud esistono, giungendo ad un vero e proprio redde rationem nei confronti del potere criminale. Sarebbe il miglior augurio.
Se, invece, dovesse prevalere il bicchiere mezzo vuoto, il Sud s’incamminerebbe sulla via delle piccole repubbliche “criminali” – Kosovo, Colombia, ecc – con esiti difficilmente prevedibili nei confronti dell’Unione Europea.

Siamo giunti a questa conclusione non solo osservando le dinamiche sociali, le impostazioni dei governi negli ultimi 15 anni, la situazione economica e quant’altro, bensì “incrociando” le situazioni ed osservandole alla luce delle leggi che regolano i sistemi complessi.
Qualunque sistema complesso – in Fisica, in Chimica, in Biologia – è sempre alla ricerca dell’equilibrio più stabile, anche quando gode di un equilibrio giudicato “accettabile”. Non sfuggono a questa legge le dinamiche sociali.
Marx immaginò la rivoluzione socialista in due Paesi – Germania e Gran Bretagna – poiché erano le due nazioni più evolute industrialmente, con un vasto proletariato.
Invece, la Rivoluzione d’Ottobre avvenne in Russia, poiché la situazione sociale in quel Paese – per una serie di cause ben note – era diventata insostenibile, al punto che una manciata di rivoluzionari riuscì nell’impresa, per poi incontrare mille impedimenti e difficoltà, soprattutto legate alla constatazione che la gran parte dei russi erano contadini, e non operai.
In altre nazioni (Italia 1922, Germania del dopo Versailles) situazioni di grande instabilità condussero a sistemi di governo autoritari, poiché la strada del confronto democratico era divenuta insostenibile per molte cause, soprattutto economiche.
In tutte le vicende del Novecento, però, la stabilità dei confini non fu quasi mai messa in discussione, salvo modesti “aggiustamenti” che non rappresentarono mai le soluzioni ai problemi (l’occupazione francese del Saarland, il confine polacco, ecc): Danzica, ricordiamo, fu un pretesto e non la causa.
Per tutto il Novecento, la soluzione dei problemi sociali fu ricercata all’interno delle dinamiche sociali: dall’URSS al Fascismo, da Keynes a Friedman.
Oggi, lo stato nazionale non è più un tabù: la globalizzazione dei mercati rende poco importanti confini, culture e popolazioni. Dunque, nuove ripartizioni territoriali sono completamente all’interno della logica globalizzatrice: non esiste nessuna rivoluzione “padana” (o ceca, o slovacca, ecc) ma soltanto la logica che consente, al più forte economicamente, d’imporre al più debole la propria legge. Quella del denaro: nient’altro.

Chi scrive non partecipa con i propri sentimenti a queste scelte, giacché le considera soltanto dei mezzucci e non vere soluzioni. Riconosce, però, che – inevitabilmente – se un sistema non trova più all’interno delle dinamiche sociali soluzioni a problemi soffocanti, le trova riaggiustando i confini.
Una divisione dell’Italia non sarebbe certo l’ecatombe della civiltà: oltretutto, rimanendo in Europa entrambe le repubbliche, non ci sarebbe nessun “muro” né confini paragonabili a quelli di un tempo.
Non si può, però, nascondere che una simile (a nostro avviso, molto probabile) “soluzione” cela il seme mai germinato di una sconfitta: per questo abbiamo desiderato compiere un parallelismo con la Jugoslavia, anche se ci sarà risparmiato il sangue che inondò i Balcani.

La Spagna ha saputo uscire dal Franchismo con grande dignità, e non solo: ha ritrovato rispetto per l’avversario politico ed un plafond di valori condivisi anche nell’aspro dibattito politico, come può essere in una nazione che è permeata dai valori cattolici forse più dell’Italia. Pur con diverse impostazioni, i PACS furono accettati sia da Aznar, sia da Zapatero.
Si dirà: la Spagna è nazione antica, al pari della Francia e della Gran Bretagna. E la Germania? E’ nazione “recente” al pari dell’Italia, ma nacque da un accordo doganale condiviso e meditato, mentre l’Italia fu solo conquistata da uno dei tanti reucci.
Tutto ciò, non basta come giustificazione: abbiamo avuto a disposizione un secolo e mezzo per trovare il nostro equilibrio, e non siamo stati in grado di farlo, con equivalenti responsabilità al Sud ed al Nord.

Qualcuno, quando gli avvenimenti precipiteranno, potrà gridare alla conquistata indipendenza, altri al tradimento dei valori risorgimentali, altri ancora affermeranno che non è la soluzione ai nostri problemi.
Il che, è vero: sarà solo la triste nemesi del nostro fallimento.

[1] Alen Custovic – Eloì, Eloì – Oscar Mondatori – Milano – 2008.
[2] Fonte: Corriere della Sera. http://archiviostorico.corriere.it/1997/gennaio/30/Craxi_svalutazione_Amato_avviso_prima_co_0_9701307812.shtml
[3] Fonte: Il Giornale, 11-08-2005.
[4] Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi Civili.
[5] Fonte, ANSA, 13/5/2009. http://www.ansa.it/opencms/export/site/visualizza_fdg.html_961022165.html
[6] Fonte: Tondi, ENEA.
[7] Vedi le dichiarazioni di Violante alla Camera nel 2003. http://www.youtube.com/watch?v=swntE1iWB5Y
[8] Fonte: Termometro Politico, pubblicato l’8 Maggio 2009.
[9] Gennaio 2009. Fonte: http://www.diariodelweb.it/Articolo/Italia/?d=20090107&id=65089

12 maggio 2009

Non può che finire così (prima parte)

Sinceramente, una campagna elettorale così scipita, priva di contenuti e con un esito scontato non l’avevamo mai vista. E c’è ancora qualcuno che si scalda per sondaggi e proposte.
Pare che tutto l’interesse sia centrato sul fenomeno del “velinismo”, sul divorzio del Capo del Governo, sulle ministre diventate tali per meriti “sul campo”. A nostro avviso, sarebbe più interessante analizzare metodi, contenuti e prassi del Governo e della classe politica, per comprendere che fine faremo. Poiché, quando le “veline” saranno nonne, i nostri figli saranno grandi e si porteranno appresso i frutti di questa stagione disperata.
Preferiamo, quindi, gettare lo sguardo un poco più in là, dove ci troveremo in tristi ambasce fra qualche anno. Per farlo, però, dovremo prima analizzare attentamente cosa bolle in pentola oggi: ecco la ragione dell’articolo scisso in due parti.

Partiamo da un personaggio appena scomparso: Gianni Baget Bozzo, a ragione definito “l’ideologo di Forza Italia” e, oggi, del PdL.
Spesso assegniamo al successo di Berlusconi la solita valenza mediatica, ossia d’aver conquistato l’Italia soltanto grazie alle sue televisioni. In parte è vero: i messaggi ed i valori propagati per anni non sono scivolati via come acqua sulla pietra, ma l’hanno scavata, al punto da modificare – e parecchio! – il costume e la cultura del popolo italiano. L’ho più volte ricordato in alcuni miei articoli[1], ma non è tutto qui.
Il movimento di Berlusconi non s’è nutrito soltanto di tette, culi e telequiz perché, in altre stanze, c’erano almeno due teste pensanti di quelle “fini”: il “diplomatico” Gianni Letta e l’ideologo, Gianni Baget Bozzo.
Il sacerdote, scomparso pochi giorni or sono, era un valente intellettuale conservatore – o, se preferite, reazionario – ma profondamente acculturato, acuto osservatore ed abile nel prevedere i frutti delle mosse politiche che suggeriva. A ragione, Berlusconi ha ammesso che per il suo partito s’è trattato di una grave perdita: lo crediamo bene, Baget Bozzo non era mica Schifani o Scajola!
Figlio della cultura conservatrice della Prima Repubblica – dalla destra DC al PSI di Craxi – può ben essere considerato il vero fondatore di Forza Italia. Ascoltiamolo in una sua dichiarazione[2] rilasciata non molto tempo fa:

“Il Popolo della Libertà sarà un partito nazional-popolare. Il movimento di Berlusconi è nato con un appello rivolto al popolo. Ma il popolo non colto. La sinistra ha il monopolio della cultura in Italia e il premier ha in mano il popolo povero contro quello grasso.”

La dichiarazione di Baget Bozzo è veritiera ad un tempo ma parzialmente errata per altri aspetti: non che l’astuto sacerdote savonese non lo sapesse, ma faceva parte del gioco farlo credere. Finezza democristiana.
E’ verissimo che la sinistra italiana è più radicata fra la popolazione colta, ma non è altrettanto vero che il PdL combatta il popolo “grasso”. E vediamo il perché.
Ci vengono in aiuto i molti rapporti che la Banca d’Italia redige[3] sulla distribuzione della ricchezza in Italia, dai quali si evince che la situazione nel Belpaese è fortemente squilibrata:

il 10% più ricco della popolazione possiede circa il 50% della ricchezza;
Il 50% più povero della popolazione possiede circa il 10% della ricchezza;
Il 40% mediano della popolazione possiede il restante 40%.

Il PIL italiano, per l’anno 2008[4], ammonta a 1535 miliardi di euro: ci rendiamo conto che il PIL non è che un indicatore – e non un parametro – ma, per ciò che andremo ad analizzare, basterà. Calcolando la ricchezza mediante il PIL, ed “incrociandola” con la precedente tabella, si giunge a questa situazione:

il 10% più ricco della popolazione possiede 767,5 miliardi di euro;
Il 50% più povero della popolazione possiede 153,5 miliardi di euro;
Il 40% mediano della popolazione possiede 614 miliardi di euro.

Da cui:

6 milioni d’italiani (ricchi) possiedono 767,5 miliardi di euro;
30 milioni d’italiani (poveri) possiedono 153,5 miliardi di euro;
24 milioni d’italiani (medi) possiedono 614 miliardi di euro.

Dunque:

Un italiano (ricco) ha a disposizione[5] 127.917 euro l’anno;
Un italiano (povero) ha a disposizione 5.117 euro l’anno;
Un italiano (medio) ha a disposizione 25.583 euro l’anno.

Considerando una famiglia media, composta da tre persone, nel 2008 la ricchezza (lorda) della quale hanno beneficiato è stata:

10% ricchi: 383.750 euro
50% poveri: 15.350 euro
40% medi: 76.750 euro

Per sperequazione della ricchezza, l’Italia occupa una delle prime posizioni: più “iniquo” di noi c’è soltanto il Messico, mentre siamo grosso modo al livello di Polonia e Stati Uniti, Paese che è noto per la forte concentrazione di reddito in poche mani. Le altre nazioni europee sono ben distanti da questi valori, come avevamo già chiarito in un precedente articolo[6].
Sarebbe stato più semplice proporre, da subito, il PIL pro capite, ma riteniamo che un’esposizione più dettagliata chiarifichi meglio ciò che andremo ad esporre.
Come si è giunti a questo scenario? E’ veritiero?

La concentrazione dei redditi è, per alcuni aspetti, strutturale del capitalismo: pensiamo alla transizione dal commercio “polverizzato” in tanti piccoli esercizi commerciali ai grandi ipermercati. E’ un fenomeno noto da decenni, chiamato da qualcuno (sinistra) “proletarizzazione dei ceti medi” oppure (destra) “crisi del ceto medio”: la sostanza non muta.
Riflettiamo che, questo scenario, è destinato nuovamente a modificarsi con il successivo passo: dal grande ipermercato reale a quello virtuale, ossia la vendita via Web, che potrà tornare a beneficiare il “piccolo”. Il “piccolo”, tramite E-bay, riuscirà ad insidiare il “grande”? Oppure il “grande” riuscirà, ancora una volta – con “apposite” leggi – a fregarlo? Staremo a vedere.
Nello scenario macroeconomico, la situazione è figlia delle “riforme” impostate da Reagan, poi dalla Thatcher ed applicate da tutti gli schieramenti, in Italia ed all’estero. Meditiamo su quanto di “sinistra” siano stati i governi Blair in Gran Bretagna ma, anche da noi, la cosiddetta “sinistra” non ha scherzato.

Prodi, partì con l’idea di spostare il prelievo fiscale dal lavoro alla rendita finanziaria, per poi non combinare nulla, perdere consensi per non aver indicato una soglia di tassazione e, infine, tassare maggiormente le auto più inquinanti (quelle vecchie, dei poveracci). “Riformò” poi la riforma Maroni sulle pensioni (61 anni d’età, 36 di contribuzione) con quella Damiano (62 anni d’età, 37 di contribuzione). Una serie di splendidi autogol alla propria base elettorale.
Il centro-destra, invece, si guarda bene dal colpire la propria base elettorale – che non è soltanto, come Baget Bozzo voleva far intendere, quella dei “non acculturati” – e lo mostra in tantissime occasioni.
Franceschini propone un prelievo fiscale per i redditi sopra i 100.000 euro da destinare alla ricostruzione dell’Abruzzo: il PdL risponde che “è sbagliato” perché saranno proprio le persone più abbienti, con i loro consumi, a trascinare il Paese fuori della crisi.
Si tratta, palesemente, di una balla colossale perché, chi ha a disposizione 100.000 euro l’anno – crisi o non crisi – non sta certo a speculare sul prezzo di una banana. Il pensionato al minimo sì, e non la compra.
Prova ne sia che, all’ultimo Salone della Nautica di Genova, il settore dei piccoli-medi natanti era in crisi, mentre quello delle “barche da sogno” correva a mille.

Respingendo la proposta di Franceschini, il PdL invia un messaggio chiaro: con noi, i vostri alti redditi non saranno toccati.
La serie continua con le “revisioni” degli studi di settore, sempre bonaria quando governa Berlusconi, con interventi a favore dell’edilizia (mai popolare) come i condoni o la recente legge, che è soltanto un condono ufficializzato e perenne.
Insomma, Berlusconi non bada a spese per proteggere i “suoi”, al punto che la ricostruzione dell’Abruzzo – con il fantastico decreto “Abracadabra”, nel quale i soldi saranno trovati con “nuove lotterie” – è destinata a durare fino al 2034. Quelli che “navigano” intorno ai sessant’anni, l’Aquila non la vedranno mai più.
E, attenzione, non batte ciglio sulla questione del Ponte sullo Stretto – da costruire in zona sismica, violentando due città con quattro piloni che avranno una cubatura paragonabile a quella delle Twin Tower – poiché non può esimersi dal mantenere le promesse fatte a suo tempo in Sicilia, dove controlla l’elettorato dell’intera isola.
Berlusconi – al contrario di quanto affermava Baget Bozzo – è attentissimo a non scontentare i propri elettori (e referenti, a scelta), soprattutto se “grassi”. Altro che cultura.

All’opposto, è abile nello scovare settori della società italiana a lui meno vicini ed a colpirli: uno degli esempi è la famosa questione dei “fannulloni”, creata ad arte da Brunetta.
Non torneremo sulla vicenda mediatica che ha permesso al governo d’imporre una vera e propria “tassa sulla malattia”, perché lo abbiamo già fatto in altri articoli. Sono interessanti, invece, il metodo ed i risultati.
Il metodo è palesemente anti-costituzionale, poiché discrimina i lavoratori rispetto all’art. 3 della Costituzione:

Art. 3. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la liberta e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Se la privazione di parte del salario fosse stata sancita da un accordo sindacale, non ci sarebbe nulla da discutere. Invece, è giunta con un provvedimento legislativo (DM 122, poi convertito in legge) e quindi si tratta di una legge dello Stato che discrimina un lavoratore da un altro: qualsiasi legge, non può sancire una tale disparità fra simili, perché cozza contro i principi costituzionali. Il vero problema, però, è che tutti hanno fatto orecchie da mercante, “opposizione” compresa.
Possibile che nessuno si sia accorto che, introducendo il concetto che i soli lavoratori pubblici debbano essere colpiti se malati, s’infrangeva la loro “dignità sociale”? Come può, un ministro, additare all’opinione pubblica un’intera categoria come “fannulloni”? Oltretutto, un ministro che – quando fu eletto al Parlamento Europeo – fu il più assenteista dei parlamentari italiani?
Vorremmo che tutti, compresi coloro che magari non provano molta simpatia per i dipendenti pubblici, riflettessero sul vulnus giuridico che – in completo silenzio! – è stato consumato: perché?
Poiché Brunetta – che non gode di soverchie simpatie da parte del “capo” – offrì, in cambio della nomina a ministro, corposi “risparmi” nella Pubblica Amministrazione, i frutti del furto. Anche chi è d’accordo con il piccolo ministro veneziano, rifletta: domani, potrebbe toccare ad altri.
Ma veniamo ai frutti.

I dipendenti pubblici, in Italia, sono circa 3.600.000[7]. Quante sono, in media, le assenze per malattia per ciascun dipendente?
Sono 10,6 giorni l’anno, certificati dalla Ragioneria Generale dello Stato ed approvati dalla CISL, che non è certo un sindacato “bolscevico”.
Stiamo quindi parlando di circa 36.000.000 giorni/anno persi per malattia: quanto hanno fruttato al governo?
La decurtazione del salario avviene trattenendo, per ogni giornata di malattia, il salario accessorio: il quale, però, varia parecchio da un’amministrazione all’altra.
Basandomi sui dati che ho per la scuola e per alcune amministrazioni che conosco – e riducendo proprio al minimo il prelievo – potremmo ipotizzare una cifra intorno ai 10 euro/giorno, che è senz’altro errata per difetto.
Quanto fanno 36 milioni per 10? 360 milioni/anno, che in una legislatura “frutteranno” 1,8 miliardi di euro. Complimenti.
La boutade dei “fannulloni” fu soltanto un artifizio mediatico – sostenuto dai media del Presidente del Consiglio (e di Confindustria…) – che fu ottenuto sommando i giorni perduti per malattia con quelli di ferie!
E’ tutto nero su bianco nel documento in nota[8], redatto dalla CISL sui dati della Ragioneria Generale dello Stato.
E’ vero che non mettono le mani nelle tasche degli italiani: le mettono in quelle degli italiani malati, cioè, di una parte degli italiani malati.

Veniamo ora alla nuova pensata del veneziano: la famosa “valutazione” dei dipendenti pubblici mediante gli Smile, le tre faccine (verde, gialla e rossa) grazie alle quali ogni dipendente sarà valutato sul campo, immediatamente, dai fruitori del servizio.
Ciò che non funziona, in questa faccenda – e mi meraviglio che non sia saltato agli occhi a tanti – è che il fruitore del servizio non è parte terza nella questione, bensì parte in causa. Sarà la “scuola” del capo, che di questi imbrogli se n’intende. Spieghiamo meglio.
Uno dei dilemmi della pubblica amministrazione è la valutazione dei dipendenti: perché? Poiché chi dovrebbe valutarli – alti papaveri, portaborse in parcheggio, ecc – se ne frega altamente di farlo, anche perché loro stessi hanno occupato quel posto, al 90%, grazie ad un “calcio”.
Siccome la faccenda è complessa, allora si minimizza tutto e si decide che sarà il cittadino a giudicare. Ma, il cittadino, è in grado di farlo?

Già immaginiamo cosa potrebbe succedere nella scuola: «Guardi, suo figlio più di quattro non riesce a prendere, le ho provate tutte, però…» Faccina Rossa. Dopo qualche faccina rossa, tutti sei. E vai col tango, mentre la scuola va a bagno.
Alla Posta: «Può tornare fra un’ora? Perché, qui, il sistema è andato in tilt…» Faccina Rossa. Nota: la “faccina rossa” la “becca” il poveraccio allo sportello, mica quello che non riesce a far funzionare il sistema informatico.
Al Pronto Soccorso: «Basta! Non si può rimanere ad attendere per ore una visita!» Faccina Rossa. Magari c’è stato un grave incidente, ed il personale è tutto impegnato. L’utente ha ragione, ma il “bersaglio” della faccina rossa dovrebbe essere il capoccione (di nomina politica) che non sa affrontare le emergenze. Il quale – accertata la mancanza per il numero delle faccine rosse – darà una bella lavata di capo al personale e tornerà a fumare il sigaro, tranquillo come un papa.
Il vulnus più grave di un simile provvedimento, però, è di natura giuridica: introduce un concetto devastante, ossia che ci si possa fare giustizia da sé, senza conoscere nulla di ciò che c’è dietro una cattedra, uno sportello, un’autolettiga. Può addirittura intervenire un conflitto d’interessi, del tipo: «Ma quello, non è il tizio che ci aveva notificato la multa da mille euro? E dagli una bella faccina rossa…»
Siamo alla follia, altro che le veline: quelle, servono a coprire ben altre faccende.

E veniamo alla colossale balla che non mettono le mani nelle nostre tasche, “che non hanno aumentato la benzina”.
Oggi (12/5/2009) il barile di petrolio è tornato ad “affacciarsi” oltre quota 60 $/barile, ma era sceso anche sotto i 40 $/barile: qualcuno se n’è accorto? Appena la notizia è stata pubblicata, la “verde” è schizzata a circa 1,28: due ore fa, all’AGIP.
Il prezzo del petrolio, nel Marzo 2006, s’aggirava intorno a 60 $/barile[9] – come oggi – e la benzina intorno a 1,20 euro/litro[10]: non come oggi.
Per tutto questo periodo di bassi prezzi del greggio, il costo dei carburanti s’è mantenuto almeno di 5-7 centesimi sopra il valore di sei anni fa (con identico costo del greggio e medesimo cambio euro/dollaro).
Il consumo mensile di carburanti per autotrazione s’aggira intorno ai 3 milioni di tonnellate[11], sono dunque 3,75 miliardi di litri di carburante[12]. Un misero centesimo, su una simile massa, genera un “gruzzolo” di 37,5 milioni di euro il mese. Siccome, oggi, i prezzi non sono scesi a 1,20 (ossia al prezzo che dovrebbe avere la benzina per un costo del petrolio di 60 $/barile), mentre “oscillano” intorno a 1,25-1,27, sono come minimo 5 centesimi di ladrocinio, che corrispondono a quasi 190 milioni di euro il mese.
Si tratta, a tutti gli effetti, di una truffa compiuta ai nostri danni, che genera – ogni anno – quasi 2,5 miliardi: poi, Tremonti – in Finanziaria – inventerà un prelievo sulle società petrolifere e si spartiranno il malloppo, perché di questo si tratta.

Questi comportamenti: attacco ai diritti dei lavoratori, truffe legalizzate, tagli indiscriminati per tutti i settori pubblici – le Ferrovie, oramai, sono diventate la CA.BE.IT, Carri Bestiame Italiani, le scuole un posto dove fissano i “tetti” per i libri di testo, ma non pensano di darli in comodato come in Francia e Germania – sono il necessario corrispettivo per mantenere “al caldo” il proprio elettorato “grasso”: in Italia, la cura per qualsiasi dissenteria sono i tappi.

A chi è rivolto questo panorama di desolazione? Riprendiamo l’ultima tabella:

10% ricchi: 383.750 euro
50% poveri: 15.350 euro
40% medi: 76.750 euro

Il dato dei ricchi è coerente, mentre il dato dei poveri suscita qualche dubbio. Riflettiamo.
Metà delle famiglie italiane – considerando un prelievo fiscale bassissimo – vivrebbe, in media, con circa 1.000 euro il mese. Siamo ad un livello ancora più basso rispetto alle pensioni minime (512 euro/mese/persona): è possibile?
Se la situazione fosse veramente questa, l’Impregilo dovrebbe essere prontamente richiamata dal Governo per costruire l’infrastruttura più necessaria, essenziale per il Belpaese: una Bastiglia. Perché? Poiché, il giorno seguente, andrebbe sicuramente in scena la presa della Bastiglia.
Non è possibile che metà della popolazione viva avendo a disposizione, mensilmente, 300 euro a persona quando la soglia di povertà è stabilita all’incirca a 600: dov’è l’errore?
Dal punto di vista dell’analisi statistica, non c’è nessun errore: il problema è che sono i redditi dichiarati ad essere falsi!
In quel 50%, sono compresi:

Le circa 5.000 imprese edili che lavoravano completamente in nero, recentemente scoperte dalla Guardia di Finanza;
Gli idraulici che cambiano la guarnizione del rubinetto per 50-100 euro senza fattura;
I meccanici, idem;
I ristoratori, soprattutto nel Meridione, che non possiedono nemmeno il blocchetto delle fatture;
……completate la lista, che è lunga.

E, soprattutto, quel 30% circa del PIL che rappresenta il fatturato della criminalità organizzata politico/mafiosa, come Roberto Saviano ha denunciato e provato. Una “piccola” verità, per la quale ha dovuto fuggire e vive scortato. A margine, notiamo che la regione con la più soffocante pressione mafiosa – la Sicilia – vota all’unisono Berlusconi.
Forse che, i siciliani – come tentava di far credere Baget Bozzo – votano Berlusconi perché “poveri e poco acculturati”? Oppure, il sostegno al PdL viene proprio dai settori della rendita finanziaria politico/criminale che trova il suo apice nell’isola?
Quel 50% di poveri, in realtà, nasconde un sottobosco di redditi altissimi, abilmente mascherati da poveracci: so di scoprire l’acqua calda ma, se vogliamo provare a comprendere come andremo a finire, anche l’acqua calda ha la sua parte.
Personalmente, ho toccato con mano che il reddito – in Italia – è un vero terno al lotto ed è verificato, in pratica, solo per i lavoratori dipendenti. Quando mi trovai, in Consiglio d’Istituto, a dover decidere l’elargizione dei libri di testo da parte della scuola agli allievi poveri e meritevoli, m’accorsi che stavamo fornendo la completa gratuità dei libri a pochi allievi (i bilanci sono “strettissimi”, si tratta di poche unità) e che, quei pochi, venivano tutti accompagnati a scuola in SUV. Per i veri poveri, talvolta, le scuole (se sono in grado…) devono cercare altre soluzioni che non comprendano l’obbligatoria verifica del reddito, poiché i redditi più bassi sono sempre occupati dai figli di commercianti e professionisti.

E la classe media?

40% medi: 76.750 euro

Sempre in media, il 40% delle famiglie italiane ha a disposizione un reddito medio netto (aliquota 33%) mensile di circa 4.000 euro per tredici mensilità, che le tiene lontane dalla povertà. In questa situazione vivono 24 milioni d’italiani.
Non è difficile immaginare che, buona parte di questi elettori (soprattutto coloro che occupano la parte più elevata della fascia), propendano per chi promette loro di non tassare redditi e rendite finanziarie. Se, poi, ciò significa che i servizi offerti dallo Stato sono di bassa qualità, la cosa non turba i loro sonni: hanno sufficienti mezzi per accedere ai servizi offerti dal settore privato (sanità, istruzione, ecc).

Se sommiamo il 10% degli alti redditi con la metà dei redditi medi, troviamo un 30% dei consensi che difficilmente “sfuggono” al PdL: almeno, per le considerazioni puramente economiche, giacché sappiamo che il voto è deciso anche da altri fattori. Non dimentichiamo, però, che il denaro è l’aspetto che più impregna ogni decisione.

Un altro 10% dei consensi all’area del centro-destra proviene dalla Lega Nord, partito che ha tradito tutte le promesse originarie ma che, grazie alla cassa di risonanza delle TV di Berlusconi, riesce ancora a far credere ai suoi elettori di combattere per il Nord. Intanto, i potentati del Sud continuano a gozzovigliare.
Il consenso al partito di Bossi proviene quindi, da un lato, dall’organizzazione sul territorio e dall’altro dai proclami che – puntualmente – i leader lanciano nel circuito mediatico: esiste il traffico d’organi! posti riservati ai milanesi sui tram! respinti i clandestini!
Ogni settimana ne studiano una nuova e, puntualmente, l’apparato mediatico del premier li amplifica: non importa, poi, se tutto finisce nel nulla (cosa sta facendo il Ministro dell’Interno per il traffico d’organi, da lui stesso denunciato?), poiché serve soltanto ad alimentare la fornace della fedeltà, della Gestalt che la Lega Nord è la “castigamatti” del ceto politico lobbista ed ammanigliato a mille rendite di posizione. Invece, ne fa parte anch’essa a pieno titolo.

L’ultima trovata è quella che i lavoratori dipendenti votano in maggioranza il centro-destra: Ragionpolitica pontifica, Brunetta strombazza, Berlusconi sogghigna. Ma non significa niente.
Chi sono questi “lavoratori dipendenti”?
Non abbiamo difficoltà ad immaginare che la moglie di un professionista – impiegata in un ministero, insegnante, dipendente comunale, magari precaria e nell’attesa di un’assunzione che può giungere solo con l’approvazione del politico di turno – voti a destra: seguiamo il reddito, non la professione.
Se perseguiamo la professione – senza prendere in considerazione il reddito – potremmo divertirci nelle fantasmagorie più divertenti: quel che conta, è che almeno 30 italiani su 100 hanno validissimi motivi per affidare al centro destra la difesa dei propri interessi. Esattamente l’opposto di quanto voleva far credere Baget Bozzo.

E’ quindi sbagliato correre appresso alle mille sfaccettature del gossip, del “velinismo”, del “ciarpame politico” – anche se si tratta di una reale decadenza da basso impero, che riesce ad accalappiare qualche voto qui e là, ma altrettanti ne perde per le stesse ragioni – poiché lo “zoccolo duro” che sostiene Berlusconi parte da quel 30% che non ha nessun problema economico. Un 30% incrementato dai tanti “falsi poveri” che ritroviamo nel 50% dei non abbienti e “rifinito” dalle giuste istanze di un Nord preso in giro due volte, dai potentati della rendita meridionale e dai politici della Lega Nord.

Non è una notizia nemmeno l’annunciata estinzione di Alleanza Nazionale – già lo affermavano, allarmati, gli amministratori locali di quel partito una anno fa – poiché l’area d’identificazione politica non corrisponde più ai vecchi recinti ideologici, bensì ad interessi economici: il voto, è una pura questione di mercato. E, qui, ce ne sarebbe da meditare per la sinistra nostrana!
A dimostrazione di quanto stiamo sostenendo, ricordiamo che la querelle di Veronica Lario non ha intaccato il sostegno al governo: sono storie di portafogli, non di “sederi al vento”! Che gli frega, ai tanti che domani potranno scegliere fra un’AUDI ed una BMW per il compleanno del figlio, se la tale fa la velina? Che importa loro se le attricette servono per conquistare qualche politico d’opposizione (pronto, Saccà?)? Domani dovrò scegliere se recarmi in vacanza nel Pacifico o nell’Oceano Indiano: gli italiani? Che s’arrovellino con le loro veline!
Nel frattempo, migliaia d’italiani ogni anno lasciano il Paese per emigrare all’estero[13] in cerca d’occupazione: sono in maggioranza laureati e diplomati, specializzati, e trovano all’estero migliori sistemazioni. In pratica, un grande ateneo come “La Sapienza” di Roma lavora quasi soltanto per produrre ricercatori per altri Paesi. Questa notizia, che dovrebbe preoccupare, non turba un solo istante di chi ci governa. Perché?

Il vero obiettivo di questo governo è, in realtà, difendere lo “zoccolo duro” di benestanti che, pur con le differenze dovute alla diversa epoca, esso ereditò dalla DC.
Uno dei primi provvedimenti presi da Berlusconi – Giugno 2001! – fu il deciso “ridimensionamento” (in pratica, fu il De profundis) della figura del socio-lavoratore nelle cooperative. La giustificazione? Eliminare le “false” cooperative, che oggi – come tutti possono constatare – campano benissimo.
Il vero obiettivo era azzerare la possibilità che piccoli operatori economici potessero unire le loro forze e diventare protagonisti: obiettivo raggiunto.
Con le “veline”, e con il grande interesse mostrato dagli italiani per il fenomeno, è stato steso un velario sulla grande operazione di privatizzazione delle acque: in questo caso, l’obiettivo è quello di sottrarre risorse pubbliche e “convogliarle” verso società controllate dai soliti noti.
Proprio nei giorni scorsi – dopo aver tagliato quasi 8 miliardi alla scuola pubblica – Berlusconi (con il fattivo aiuto di Casini) ha proposto, per la prossima Finanziaria, un “corposo” incremento dei sussidi alla scuola privata. Ne avvertivamo tutti la mancanza.
Ci fermiamo qui, con gli esempi, soltanto per non tediare il lettore.

Qual è, allora, la base sulla quale poggia l’attuale governo?
Non la contrapposizione fra “popolino” e “popolo colto” – tesi sostenuta da Baget Bozzo – bensì quella, eterna, fra abbienti e non abbienti.
I provvedimenti legislativi presi sono tutti centrati per aumentare la differenza fra le classi sociali, poiché si tratta di un feedback positivo, ossia di una fruttuosa simbiosi: più persone s’arricchiscono, più consensi certi.
E per i tanti che s’impoveriscono? Come mai, non esistono forze politiche in grado di rappresentarli? Non si tratta solo di una legge elettorale.
Pur non sottovalutando l’importanza del potere mediatico – panem et circenses è abitudine antica – la principale responsabilità l’hanno coloro i quali dovrebbero contrastare questa deriva, ossia (in un Paese normale) l’opposizione.
Ma l’opposizione, soprattutto in Italia, giunge in larga parte da quel PCI definito da Costanzo Preve “bestione metaforico”: perché? “Bestione” perché elefantiaco e costoso apparato, e “metaforico” perché sempre in antitesi con gli ideali che affermava di sostenere, già ai tempi di Berlinguer.

La mancanza di ricambio, il nepotismo, l’esasperato centralismo di quel partito, hanno condotto i loro epigoni dritti dritti non a difendere il capitalismo – questo sarebbe ancora il meno! – ma a sposarne in modo completamente acritico tutte le espressioni[14].
Oggi, non possono difendere i paria perché, per farlo, dovrebbero criticare proprio il modello del turbocapitalismo e della globalizzazione dei mercati, del saccheggio delle risorse e dell’iniquità sociale. La loro “nuova chiesa”.
Non potendo uscire dal modello che hanno sposato – tutti, sedicenti “comunisti” compresi – finiscono per proporre schiere di pannicelli caldi, che non servono a nulla, ed il loro elettorato – giustamente – li abbandona.
La nostra iattura è figlia di quella impostazione e, se non s’abbatte la pietra angolare che “ricchezza crea ricchezza”, nessun cambiamento è possibile. Hanno il coraggio di farlo i Franceschini, ma anche i Di Pietro ed i Di Liberto? Non ci sembra proprio.
Siamo un Paese che si dice “non avrà futuro”, eppure un futuro in qualche modo l’avrà, nonostante abbia abdicato ad ogni forma di seria elaborazione politica, alla ricerca di una vera classe dirigente, che non si ribella più per esser divenuto lo zimbello d’Europa e che accetta tutto, anche le “balle” più eclatanti, senza dignità. E spreca fiumi d’inchiostro per correr dietro alle “veline”.

Allora, cosa attende l’Italia nei prossimi anni? A risentirci con la seconda parte.

[1] Vedi: http://carlobertani.blogspot.com/2008/11/fuori-del-tempo.html
[2] Fonte: La Repubblica, 8 Maggio 2009. http://www.repubblica.it/2009/05/sezioni/politica/baget-bozzo/baget-bozzo/baget-bozzo.html?ref=search
[3] Fonte: http://www.bancaditalia.it/statistiche/stat_mon_cred_fin/banc_fin/ricfamit/2008/suppl_76_08.pdf
[4] Fonte: ISTAT ed Office for national statistics. Riportato da http://www.libero-news.it/articles/view/447593
[5] Non dobbiamo pensare alla semplice disponibilità finanziaria, bensì ad un complesso di fattori: proprietà fondiarie, azionarie, obbligazionarie, rendite, ecc. D’altro canto, avere una casa di proprietà oppure essere in affitto, o ancora pagare un oneroso mutuo, modifica profondamente la disponibilità finanziaria di una famiglia.
[6] Vedi nuovamente: http://carlobertani.blogspot.com/2008/11/fuori-del-tempo.html
[7] Fonte: Eurispes/CISL 9/2007. http://media.panorama.it/media/documenti/2007/09/20/482ee51c69e83.doc
[8] Fonte: www.fpsinps.cisl.it/Doc/Comunicati/2008/01/AssenzeNelPI21gen08.pdf
[9] Fonte: The Oil Drum.
[10] Fonte: Metanoauto.com.
[11] Fonte: Unione Petrolifera.
[12] Calcolando una densità media fra benzina e gasolio pari a 0,8 kg/l.
[13] Fonte: http://miojob.repubblica.it/notizie-e-servizi/notizie/dettaglio/laureati-italiani-all-estero-pi-pagati-e-pi-soddisfatti/3461172
[14] Per una più esaustiva esposizione della genesi della classe politica italiana, vedi: http://carlobertani.blogspot.com/2008/01/storia-di-lucidatori-di-sedie.html

06 maggio 2009

Piccoli verginelli crescono

Se la vicenda di Veronica Lario e del possibile divorzio da Silvio Berlusconi fosse una questione privata, non si dovrebbe scrivere una sola riga in merito. Ma non lo è.
E, attenzione, non perché Silvio Berlusconi è il Presidente del Consiglio: anche in quella veste, per quanto attiene alla sua vita privata, non deve rendere conto a nessuno.

Taluni hanno citato un parallelismo fra la vicenda di Monica Lewinsky e quella della minorenne di Napoli, ma non sta in piedi, perché Bill Clinton non fu accusato di torbide relazioni sentimentali, bensì d’aver mentito o minimizzato – in prima battuta – sulla vicenda. Quindi, è meglio tracciare dei confini fra le due vicende per non perdere inutilmente del tempo.
In prima battuta, lo status che la Costituzione Americana – datata 1788, è bene ricordarlo – assegna al Presidente è molto simile a quello che aveva il viceré inglese dell’epoca, un tempo nel quale la moralità aveva un diverso peso (meglio? peggio? Non perdiamo del tempo a dissertare inutilmente).
Un secondo aspetto sul quale riflettere – per spiegare l’importanza della sincerità per il Presidente americano – è che gli USA sono la principale potenza nucleare del Pianeta, e la decisione ultima – lanciare o non lanciare? – spetta proprio al Presidente. Ne discende che, l’uomo che siede al 1600 di Pennsylvania Avenue, debba possedere nervi saldi “certificati”. Non è stato così per alcuni casi? Non importa, perché parliamo di regole e non di fatti.

I regimi presidenziali comportano, inevitabilmente, l’intromissione nella vita privata degli individui: chi accetta quei posti, deve sapere che c’è uno scotto da pagare.
Silvio Berlusconi non è un viceré inglese, tanto meno un Peron e nemmeno gira con la famosa valigetta con i codici di lancio: il ruolo che la Costituzione repubblicana gli assegna è di presiedere un Consiglio dei Ministri, ossia di coordinare l’azione di governo e di mediare, per gli interessi nazionali, in ambito internazionale. Nulla di più, finché l’attuale Costituzione è in vigore: rammentiamo che il capo supremo delle Forze Armate è e rimane il Presidente della Repubblica, potere che “ereditò” dal Re.
In questa vicenda, allora, bisognerebbe considerare anche il ruolo di qualche “verginello” – o, comunque, di chi oggi così s’atteggia – e che proprio intonso non è. Ci riferiamo a Gianfranco Fini.
I desideri, gli aneliti, le aspirazioni verso un regime presidenziale non sono stati – in prima battuta – il copione di Silvio Berlusconi, quanto di Alleanza Nazionale e prima ancora del MSI.

Oggi, il Presidente della Camera può verificare nella prassi quali siano i rischi dei sistemi presidenziali: le democrazie che adottano quel principio, hanno costituzioni misurate con il bilancino del farmacista, proprio per cautelarsi dal rischio di ritrovarsi, poi, un Napoleone assiso al trono. Piccola parentesi: non esiste Paese, con o senza regime presidenziale, nel quale il principale imprenditore della comunicazione sarebbe giunto a quella soglia. Nemmeno gl’avrebbero consentito d’avvicinarsi.
L’Italia, invece, pare giocare con il “Risiko” istituzionale più pericoloso che esista: “formattare” o, comunque, tentare di “formattare” la sua architettura istituzionale con giochetti da apprendisti stregoni alla Calderoli, i quali – quando la frittata viene male – si limitano a gettarla ai porci.
Riflettiamo che nessun Paese di una certa importanza ha meditato di rivoluzionare la propria architettura istituzionale, nemmeno nel passaggio dall’URSS alla Russia! Forse che i francesi, consci delle difficoltà insite in un regime presidenziale “bicipite”, si mettono a rifare tutto? O i tedeschi a rimettere in gioco le basi federali nate con lo Zollverein?

Anche altri, presunti verginelli, che sembrano tacere nell’ombra, cedono alle lusinghe di un ritorno al “conducente unico” e ci riferiamo alla scelta – dal punto di vista giuridico ineccepibile – di candidare al Parlamento Europeo tal Emanuele Filiberto. Di Savoia.
Ora, se la riforma del 2002 ha concesso l’elettorato attivo e passivo ai discendenti maschi di casa Savoia, non è detto che sia necessario approfittarne subito e buttarsi “a pesce”. Cos’ha combinato di diverso, il regale rampollo, rispetto alle “veline” che avevano firmato dal notaio il “contratto elettorale” con Berlusconi (poi rinnegato per le dichiarazioni di Veronica Lario)?
Si fa presto a dirlo: ha vinto una gara di ballo. Chi arbitrava, Byron “Rinco” Montero, quello di Italia-Corea? Casini, che si propone come l’alfiere della serietà, della moderazione e del bon-ton è caduto – e parecchio! – di stile.
Eleggere un potenziale erede al trono di una ex casa regnante potrà essere corretto giuridicamente, ma politicamente abbastanza sgradevole: si noti che è stato candidato nella circoscrizione Nord-Ovest, per resuscitare gli istinti “di pancia” dell’azzimato elettorato bugianèn.
E poi (parere personale, senza implicazioni politiche): eleggere un Savoia porta sfiga, ne sanno qualcosa i bulgari che elessero Simeone, poi finito nell’inchiesta di Woodcock che condusse all’arresto di Vittorio Emanuele.
Ricordiamo che, proprio lo scorso 9 Aprile 2009, il giudice Woodcock ha chiesto il rinvio a giudizio per Vittorio Emanuele per quello che è stato definito "Savoiagate", un miscuglio di reati d’associazione a delinquere finalizzata alla corruzione ed al falso.

Se partiamo da queste considerazioni, le dichiarazioni politiche e non personali di Veronica Lario sono importanti, se non altro perché “persona informata sui fatti”.
Quando la Lario[1] si stupisce che il “ciarpame politico" non faccia scandalo e che "per una strana alchimia, il paese tutto conceda e tutto giustifichi al suo imperatore", non sta parlando della sua vicenda sentimentale e nemmeno di quello che, con ogni probabilità, sarà lo strascico economico della separazione.
Termina con un avvertimento sinistro, di quelli che dovrebbero far pensare: “Io ho fatto del mio meglio, tutto ciò che ho creduto possibile. Ho cercato di aiutare mio marito, ho implorato coloro che gli stanno accanto di fare altrettanto, come si farebbe con una persona che non sta bene. È stato tutto inutile”. Una persona che sta male? E di cosa soffre?
Molti, in questi anni, sono stati colti da un dubbio, considerazioni politiche a parte: ma, Berlusconi – con quelle strane manie di grandezza, d’onnipotenza (“L’Unto dal Signore”…) – è proprio “tutto sul suo”?
Adesso, ripensiamo al Berlusconi che fa cucù alla Merkel, che si vanta d’aver sedotto la premier finlandese, che ricorda a Sarkozy che lui “gli ha dato la femme”, che telefona ad Erdogan mentre tutti lo aspettano sulla passerella, e poi, e poi…
Per i presidenzialisti nostrani, ce n’è da meditare.

[1] Dichiarazioni all’agenzia ANSA del 2 Maggio 2009.

03 maggio 2009

Le bugie hanno le gambe corte


Secondo il gen. Rosario Castellano – comandante del contingente italiano in Afghanistan – tutte le procedure e le regole d’ingaggio sono state rispettate. Ed è morta una bambina afgana.
Ascoltiamolo[1], in una dichiarazione che ha rilasciato ad una commissione parlamentare italiana appena giunta, per una coincidenza, in quel Paese:

“I militari italiani coinvolti hanno attuato correttamente tutte le procedure previste e solo quando la vettura era arrivata a meno di dieci metri dal convoglio, i militari hanno fatto fuoco sul vano motore”.

Questo è il testo apparso sulle edizioni del mattino dei giornali.
Sono queste le procedure?
Se così si sono svolti i fatti, dobbiamo concludere che gli afgani hanno la curiosa abitudine di trasportare le loro bambine nei vani motore delle autovetture.
Un colpo di rimbalzo?
E’ ben difficile che, alla distanza di dieci metri, un colpo di mitragliatore, anziché forare la lamiera del cofano (meno di 1 mm di spessore), rimbalzi. Ci sembra anche molto improbabile che giunga a “rimbalzare” fino a distruggere il lunotto posteriore. Se ancora i nostri dubbi sono insufficienti, richiamiamo l’attenzione sul foro d’entrata di un altro proiettile, che è stato certamente sparato quando l’autovettura aveva già oltrepassato il blindato italiano, colpendo la parte posteriore della Toyota.

Ecco, allora, che nelle edizioni del pomeriggio il generale si corregge:

“Giunta a meno di dieci metri dal blindato italiano, il mitragliere ha fatto fuoco prima sul terreno poi contro la vettura.”


Ah, adesso iniziamo a capire: passava una Toyota con a bordo una famiglia che andava ad un matrimonio e pioveva a dirotto. Quali sono le procedure previste per avvertire? Sentiamo nuovamente il generale:

“La pattuglia italiana ha adottato le procedure previste: avvertimento con la mano, con un grido, lampeggiando con gli abbaglianti, infine sparando colpi in aria.”

Più che delle procedure – se il generale ci consente – ci sembrano un condensato di buone intenzioni: “avvertire con un gesto della mano?!?”, “con un grido?!?”, “con i lampeggianti”? Ma, dove credeva mai che si trovasse quel blindato – l’alto ufficiale – sulla tangenziale di Bologna? Il generale è mai stato – per caso, sia chiaro – sul ciglio di una strada mentre passa un convoglio di blindati? Dopo quella del “cofano”, sarebbe capace di far intendere che si riesce ad ascoltare il cinguettio degli uccellini.
Proviamo ad immaginare cos’è una strada afgana dopo decenni di guerra: una pista o poco più, che quando piove si trasforma in un tratturo di fango. E, quando passa una colonna corazzata, s’aggiunge un frastuono dell’accidente.
Poteva, il povero padre afgano – nel volgere di pochi secondi! – vedere il cenno con la mano – Uagliò, spostatevi… – oppure capire il grido (in italiano, ovviamente) – e fermati! – ed interpretare correttamente (tutti gli afgani hanno frequentato un corso sulle procedure d’ingaggio) il lampeggiare dei fari? Sui “colpi in aria” sorvoliamo, che è meglio.

Possiamo suggerire all’alto ufficiale che esistono dei pannelli a forte luminescenza intermittente, delle luci stroboscopie e quant’altro, che possono essere facilmente installati sul primo automezzo della colonna? Vuole qualche indirizzo per comprarlo su E-bay?
Personalmente, preferiremmo che le nostre truppe lasciassero quel Paese – perché non si capisce proprio che cosa ci stanno a fare – vorremmo però ricordare, de minimis, che sarebbe meglio installare sul primo automezzo un pannello con (possibilmente, se non è di troppo disturbo) una scritta lampeggiante nella loro lingua. O è chiedere troppo? Con la lauta indennità di missione che percepisce, caro generale, potrebbe anche cacciare i soldi di tasca sua.

Vediamo allora com’è andata.
I militari italiani non avevano nessuna intenzione d’uccidere quella bambina, chiariamolo subito: la colpa è di chi li comanda.
Siccome le procedure d’ingaggio sono “riviste” sempre al peggio – ossia, libertà di fare fuoco, degli afgani chi se ne frega – nessuno dei tanti papaveri pluri-stellati ha pensato ad una cosa ovvia come un semplice pannello d’avvertimento ben visibile, con qualsiasi tempo.
A quel punto, il mitragliere avrà pure fatto fuoco sul cofano, ma – suvvia, generale, non facciamo ridere i polli – come si può pensare che, in quelle condizioni (pioggia, due veicoli in movimento, paura), il mitragliere potesse tirare come se fosse stato al poligono?
Difatti, non ha smesso di sparare nemmeno quando l’auto aveva superato il suo mezzo, altrimenti non avrebbe colpito la parte posteriore della Toyota. E’ rimasto – come usa dire – con il dito “incollato” al grilletto.
Sa qual è stata la “negligenza” di quei poveri afgani? Quella d’essere dei semplici cittadini e non dei guerriglieri, perché quelli – se vogliono – vi fanno a pezzi, da lontano e con un semplice razzo RPG.
Hanno fatto fuori, con gli stessi mezzi, i Merkawa israeliani in Libano: vuole che ci mettano tanto? Ragioni, generale, invece di “spararle” sulle agenzie.

Adesso – caro il mio generale – per colpa della sua negligenza e della spocchia che avete nel sangue (cosa ci facevano, le palmette dell’Afrika Korp germanico, sulle nostre jeep in Afghanistan?), ci tocca contare pure il cadavere di una bambina di tredici anni.
E le dico “ci” tocca perché lei ha cucita sulla divisa una bandiera, la nostra bandiera, quella dell’Italia che all’art. 11 della sua Costituzione “rifiuta la guerra”. Che è la bandiera di tutti noi, non solo di chi è in missione “di pace”.
Perciò, generale, si vergogni perché ha gettato discredito e vergogna non tanto su di lei – francamente, ce ne potesse fregare di meno – quanto sulla nostra bandiera, che tutti ci rappresenta. Lo rammenti: tutti.
E, soprattutto, non cerchi di mascherare la vergogna con dei mezzucci perché – ricordi – si pecca in pensieri, parole, opere ma anche in omissioni.