Un gruppo di giovani tedeschi scherza in cerchio, come sanno scherzare i ragazzi tedeschi: uno alla volta, gettano la battuta nel cerchio e gli altri ridono, sorridono o rispondono piccati. Sempre, però, con la mascella alta quando devono far scendere la frase nel gruppo, come a gettare un sasso in uno stagno. Quattro di essi potrebbero soddisfare i requisiti del vecchio Adolfo: uno, scuro, invece, probabilmente porta geni dall’Anatolia, turchi o curdi che siano. L’ultimo potrebbe essere italiano: anch’egli scuro, ma parla tedesco e non italiano.
Accanto a me, una coppia di serbi si saluta prima di partire: lui, con i baffi, i riccioli e qualche stempiatura, sembra uscito da un film di Kusturica mentre lei – bionda e grassoccia – potrebbe stare dietro al banco di una merceria a Novi Sad.
Una famiglia – probabilmente cingalese – sosta per terra fra i binari: colmi di fagotti, con un bambino che non perdono d’occhio un istante, mentre fa correre un giocattolo sul marciapiede della stazione. Anche due agenti della Polfer sostano, accaldati, ma non sembrano prestar loro attenzione.
La coppia, lui e lei francesi, sono ovviamente più chic, come anche in tenuta sportiva sanno essere: parlano piano, sorridono, si scambiano occhiate ammiccanti anche se – ad occhio e croce – hanno già superato la sessantina.
Sono le 10 e 30 quando il treno per Milano fischia e parte e quel vestito d’Arlecchino – con mille idiomi e mille modi di scherzare, d’amare, d’intristirsi un poco nei saluti – si dissolve.
Sono quasi le 11 quando la barista – nera come il carbone – porge a mia moglie la brioche, appena riscaldata, e lei si scotta il labbro. Mia moglie sorride, anche la barista sorride e mostra due file di denti bianchi come la neve, poi accenna delle scuse: «Se la scaldo, la marmellata diventa molto calda. Una signora, poco fa, mi ha chiesto come poteva fare: soffi, gli ho risposto!» Ride di nuovo. Anche una coppia di tedeschi che non ha capito bene, ma ha intuito, annuisce e sorride.
Sorbito il caffé, giro per il minuscolo bar cercando di raggiungere il giornale abbandonato su un tavolino, facendo attenzione a non travolgere la minuscola ragazzina cinese che sciorina una cantilena incomprensibile alla compagna di viaggio. Fuori del bar, scorre lentamente una corposa comitiva di scout accompagnata da due suore: le uniche col vestito “d’ordinanza”, saio marrone. Saranno pure vesti estive, ma che caldo devono avere!
Nell’attesa che la marmellata della brioche raggiunga una temperatura accettabile, scorro il giornale: le solite baggianate del Governo, un po’ di gossip…le intercettazioni…
In basso, in un riquadro, il titolo: “Il padre dei due bambini morti sul gommone, al largo di Pantelleria, racconta”.
Vorrei lasciar perdere – immagino cosa può raccontare un padre che s’è visto morire i figli in braccio – ma non ci riesco e vado alla pagina per leggere.
Racconta che sono morti di fame ma, soprattutto, di sete: disidratati. Al giornalista che chiedeva perché li avesse gettati in mare, l’uomo risponde che non li ha gettati, li ha “posati”.
Un padre non potrà mai gettare un figlio in mare, anche morto: lo poserà, dolcemente, come lo aveva senz’altro posato altre volte, dormiente, in una culla o in un pagliericcio. Non può “gettarli”.
Allora stramaledico il momento che ho aperto quel giornale, perché un universo di dolore si spalanca di fronte ai miei occhi: avranno sofferto? Certo che avranno sofferto: avranno chiesto mille volte “acqua” – chissà in quale lingua – e d’acqua c’era solo quel nemico deserto salato, infame, pronto a trasmutarsi in terra per liquide bare.
Mi chiedo perché solo quei due piccoli di due e quattro anni – Hamid e Fatma, li chiameremo così – non hanno avuto il diritto di far parte del vestito d’Arlecchino che scorre nella stazione. Solo loro.
La parte razionale si fa viva e genera immediatamente mille congetture, “fondate” ragioni, pessime risposte, “corrette” dichiarazioni. Poi, tutto torna a svanire di fronte ai visi cerei – che immagino – di Hamid e Fatma.
Chissà se adesso, con gli occhi dello spirito, veleggiano nel Canale di Sicilia ed osservano le migliaia di tonnellate di ferraglia che gli uomini hanno saputo posare su quel fondo marino, poco più di mezzo secolo fa.
Chiglie sfondate e torri allampanate, su fondali spettrali, per nascondere agli uomini la perfida insulsaggine del loro essere. Di chi fatica per costruire lamiere, le salda, le forma in navi e poi dà il via al colossale gioco al massacro della distruzione: come in un Risiko che gronda sangue, al primo lancio dei dadi la mente superiore si spegne, e l’animalità trionfa.
Oddio, non proprio tutti perdono quella che ritengono “mente”…o forse sì…perché anche i banchieri che intascano sempre denaro, quando una nave scende per la prima o per l’ultima volta in mare, rispondono forse ad istinti più elevati?
Invece, per Hamid e Fatma, qualcuno ha deciso pollice verso: e non si vengano a raccontare storie di “fatalità”, di “sorpresa”, di “impossibilità”, nel pianeta dove i satelliti contano anche quanti peli hai sul culo.
Tornano alla mente i versi di Fabrizio: «E lo Stato s’indigna, s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità…» ma, qui, andiamo oltre qualche provvedimento dettato solo da “audience” post elettorali.
La Chiesa si fa avanti ed afferma che bisogna essere sì “decisi”, ma ci vuole buon senso ed umanità nelle decisioni spinose. Leggasi: controllo dell’immigrazione.
Allora, mi tornano alla mente gli atti del Concilio di Trento – che terminò nel 1563 – quando il matrimonio fra cattolici fu ritenuto valido solo se in forma pubblica, ossia confermato da testimoni e da atti formali. Teniamo a mente quella data, la metà del XVI secolo.
Le disgrazie dell’Africa erano già iniziate da quasi un secolo, giacché nel 1492 – quando partì Colombo – nelle Canarie la popolazione indigena era già stata totalmente sterminata dagli spagnoli, tanto che lo stesso Colombo si fermò per riparare una nave e per godere per qualche ora – prima dell’ignoto – delle “grazie” di Beatriz de Bobadilla, sua antica “conoscenza” e vedova del governatore spagnolo, ucciso dagli indigeni negli ultimi aneliti di ribellione.
Gli spagnoli erano stati preceduti dai portoghesi, da Lanzarote de Freitas a Capo Verde fino a Cabral in Mozambico: anno più anno meno, è all’inizio del ‘500 che l’Europa prende coscienza della vera e propria “miniera” che ha a disposizione. E’ una duplice miniera.
Da un lato del Mare Oceano c’è un continente sterminato del quale non si sa nulla, ma si presume sia zeppo di ricchezze. Dall’altra c’è n’è un altro, poco conosciuto, che si sa però abitato da popolazioni primitive (in senso tecnologico e per i canoni dell’epoca).
Due più due fa sempre quattro e, se l’ipotenusa ha navi ed armi da fuoco, i due cateti saranno precipitati nel servaggio.
Così prende forma la ricchezza europea per almeno tre secoli – non dalla semplice “operosità” delle sue genti, come tanti credono – ma dalla feroce sopraffazione dei “contractors” dell’epoca: il cosiddetto “Triangolo degli Schiavi” fu la base del dominio e della ricchezza europea.
Detto in sintesi: le merci europee (armi, tessuti, ecc) erano vendute ai mercanti arabi di schiavi, i quali scaricavano mercanzie e caricavano “merce umana” per le Americhe. Giunte nelle Americhe, le navi scaricavano gli schiavi e caricavano prodotti grezzi (minerali, cotone, caffé, ecc, estratti o coltivati dagli schiavi) che erano riportati in Europa. Con quelle materie prime, si fabbricavano le merci da riportare ai mercanti in Africa, e l’infernale roulette ripartiva. Così per tre secoli: ghinea dopo ghinea, fiorino su fiorino.
Perché il Concilio di Trento?
Poiché – disgraziati loro – gli africani si convertivano…forse scambiando la croce per un simbolo animista…forse capendoci qualcosa, ma si genuflettevano ed ascoltavano la Messa. Tanto bastava per farne dei cristiani e, i “buoni” missionari del tempo, non potevano che gioirne.
Non erano così contenti i mercanti, i quali si trovavano di fronte al problema di dividere le famiglie – alla partenza od all’arrivo – secondo le esigenze di chi acquistava quella “forza lavoro”. E solo Dio può dividere.
Ecco allora i buoni giuristi cattolici creare la norma: il matrimonio è valido solo se contratto dopo regolari pubblicazioni. Vallo a dimostrare nella savana africana, vai a cercare le “pubblicazioni” sulle navi negriere.
I buoni mercanti di “forza lavoro” gratuita ringraziano, e conferiscono oboli ai santuari. Gli imprenditori ed i banchieri dell’epoca ringraziano per lo scampato pericolo, ed inviano denari al vescovo locale.
I califfi arabi, a loro volta, festeggiano la buona intuizione dei cani infedeli cristiani emettendo freschi "salatich" (permessi), per nuove razzie in altri territori. Tutto funzionò a meraviglia per tre secoli quando, al Congresso di Vienna, improvvisamente, la Gran Bretagna chiese delle limitazioni e la futura abolizione dello schiavismo. Strano: il lupo che diventa vegetariano.
Il “lupo” diventa vegetariano perché – con l’indipendenza delle ex colonie americane – i frutti del pasto erano goduti da altri, ossia dalle ex colonie stesse. Al punto da sostenere a spada tratta la causa sudista – che manteneva la vecchia impostazione del “Triangolo” – contro quella nordista (altrettanto razzista) che usava la clava dell’abolizionismo per sferrare un attacco agli ex imperiali. Ne avrebbero avuto ragione solo grazie ai sommergibili di Doenitz nel 1940, quando – in cambio d’alcune decine di vecchi cacciatorpediniere – gli USA “soffiarono” agli inglesi le basi che avevano nel mondo per “modici” 99 anni.
Curiosi e penosi, allo stesso tempo, gli “illuminati” francesi, che in Patria dissertavano su principi giuridici da fantascienza per l’epoca, mentre sostenevano sotto banco (e nemmeno troppo…) la tratta. In chiave anti-inglese, sia chiaro.
E si giunge al Novecento, dove alla Mecca ed a Medina – giocando sul fatto che le città erano off-limits per gli occidentali – la tratta continua ad essere attuata.
In pochi decenni, ci si mettono tutti: per l’Africa scoppia un’altra disgrazia biblica chiamata “colonialismo”.
Si va direttamente là, per gestire le miniere locali con la mano d’opera a costo pressoché nullo, per farli lavorare come schiavi nella loro terra, per consentire agli europei di riempire le zuccheriere.
Ci si mettono proprio tutti: francesi, olandesi, belgi, tedeschi, inglesi e italiani. Spagnoli e portoghesi hanno abdicato da tempo, e nuovi capi-branco hanno allungato le zanne. Sono i bisnonni di coloro i quali sottoscriveranno il Trattato di Lisbona: buon sangue non mente. Ieri lo zucchero e la gomma, oggi l’Uranio e il petrolio: l’Oro, sempre.
Gli italiani – visto che la cosa ci riguarda – pensarono bene, nel 1935-36, di bombardare – in Etiopia – anche i campi della Croce Rossa Internazionale: tutto documentato nel reportage “Fascist Legacy”, che circola quasi illegalmente in Italia, giacché la Grande TV di Stato non lo ha mai trasmesso, dopo averne acquistato i diritti per l’Italia dalla BBC. Identico trattamento per il film libico “The desert’s lion” – protagonista addirittura Anthony Quinn – che narra le nostre impiccagioni di massa in terra libica.
Mai doppiato e trasmesso: vogliamo, per una volta – dopo aver doppiato anche le schifezze più meschine della filmografia americana – fare un atto d’orgoglio? Doppiatori italiani, dove siete? Registi, produttori, restauratori: dove siete fuggiti?
La nostra percezione dell’Africa e della vicenda dei migranti è minata – sul piano storico – da una trave lunga un miglio marino, conficcata in un occhio divenuto cieco per la troppa salsedine.
Dovremmo inchinarci di fronte a questa gente che sbarca sulle nostre coste, piangere e chiedere scusa.
Siamo colpevoli? No, noi – europei del XXI secolo – non siamo colpevoli per la distruzione di un continente, nel senso che la “colpa” è considerata, generalmente, un sentimento individuale.
La “responsabilità”, invece, valica luoghi e secoli, poiché i frutti delle azioni non scompaiono, bensì generano nuove tragedie. E siamo sì responsabili: noi, proprio noi, perché non è del tutto nostra questa ricchezza. Per secoli, l’abbiamo accumulata spremendo il sangue altrui con un torchio chiamato schiavitù.
Non ci sono assoluzioni, per nessuno: nemmeno per la Chiesa. Provino con un nuovo concilio.
Oggi, mettiamo in dubbio le parole di quel padre poiché ci sembrano troppo dolenti, troppo incongrue con la melensa estate italiana delle abbuffate e delle discoteche. Vogliamo non credere a quelle persone? Benissimo: tre secoli di documentazione storica c’inchiodano alle nostre responsabilità.
La perversione mediatica, giunge ad identificare i migranti come “invasori” e noi – antichi colonialisti – come “portatori di civiltà”. Ieri in Africa, oggi in Asia.
Chissà, se le tonnellate di nequizie che abbiamo – incoscienti – sulle spalle pesano anch’esse, e non ci fanno più fare figli. Non vogliamo più mettere al mondo nuovi lupi? Chissà.
Di certo, con l’attuale trend demografico, fra qualche anno ci saranno soltanto più loro a scaldare pizzette, guidare trattori, accudire animali, potare alberi e raccogliere alimenti. La nostra fisicità, dimenticata, sarà la nostra trappola definitiva.
Finiremo come vecchie e sterili zitelle inglesi, ad osservare il cappellino nuovo della regina, mentre il tempo e gli anni scorrono – oramai – distanti dal nostro vivere.
Loro, fuggitivi da una disperazione che noi abbiamo creato e continuiamo a creare, continueranno ad arrivare e le nostre cannoniere saranno ammutolite, forse dal senso di colpa infuso nelle lamiere da secoli d’ignavia, forse dalla consapevole inutilità del nostro essere. Chissà, se le navi hanno anch’esse uno spirito, chissà se tramandano: dal legno marcescente delle navi negriere, dal tanfo di morte di quelle stive, al puzzo di gasolio nella sala macchine di una corvetta. Chissà.
Gente che non si commuove più, quando due piccoli muoiono a poche miglia dalle spiagge dell’opulenta estate italiana, che nelle città scavalca un morto a terra perché è “fastidioso” senza chiedersi ragione, che non si ferma quando investe un suo simile per non sborsare qualche euro in più d’assicurazione, non merita futuro.
Abbiamo mercificato tutto: quello che non abbiamo considerato, è che esiste anche la merce avariata. Noi.