“Le idee migliori sono proprietà di tutti.”
Lucio Anneo Seneca
E’ quasi impossibile trascorrere un solo giorno senza sbattere contro l’evidenza della realtà energetica italiana: eppure, quel che tiene banco è il penoso teatrino delle intercettazioni telefoniche, delle “veline”, delle leggi ad personam, dei magistrati da assolvere o condannare, dei ministri-ombra di se stessi…
In mezzo a tutto questo bailamme, nessuno parla quasi più dell’evidenza – lampante – che stiamo diventando sempre più poveri per il costo dell’energia.
Come ogni anno, viene pubblicata[1] la classifica delle principali holding planetarie:
1) Exxon Mobil (USA);
2) PetroChina (Cina);
3) General Electric (USA);
4) Gazprom (Russia);
5) China Mobile (Hong Kong);
6) Bank of China (Cina);
7) Microsoft (USA);
8) AT&T (USA);
9) Royal Dutch Shell (UK);
10) Procter & Gamble (USA);
...
36) ENI;
69) Intesa Sanpaolo;
70) Unicredit;
100) ENEL;
…
316) FIAT.
Nelle prime dieci posizioni troviamo ben quattro corporation del petrolio, ed una (General Electric) che fornisce servizi all’industria petrolifera. Se cerchiamo aziende italiane, la prima è ENI (petrolio, 36° posto) ed al 100° troviamo ENEL (energia), mentre FIAT occupa solo la 316° posizione.
Rispetto all’anno precedente, i movimenti “a salire” sono stati tutti delle imprese energetiche, mentre le banche hanno perso terreno: i subprime hanno chiesto dazio.
Tornando alle prime posizioni, è curioso notare che le prime quattro sono occupate da petrolio & affini, mentre la grande Microsoft è solo al settimo posto: senza energia, anche i veloci processori perdono terreno.
Niente di nuovo sotto il sole – verrebbe da dire – e invece qualcosa di nuovo c’è o, almeno, qualcosa che sarebbe meglio meditare.
Si cercano ipotesi fra le più disparate per non riconoscere l’evidenza più limpida: un bene divenuto essenziale, presente in quantità finita nel pianeta e con una domanda in forte crescita (Cina), logicamente, aumenta di prezzo.
E’ pur vero che non tutto l’aumento è reale (riflettiamo sul precipitare del dollaro), ma è altrettanto evidente che anche messer euro non riesce a tener testa al vero bene primario del pianeta, al signor oro nero che ha preso il posto dell’oro giallo nel definire i valori delle monete. Potremmo quasi misurare il valore relativo di euro e dollaro valutandoli sul barile di petrolio.
Il prezzo del greggio[2], dall’estate del 2005 ad oggi, è passato da 60 $/barile agli attuali 140 circa: l’euro, nel medesimo periodo, è passato da 1,2 ad 1,6 sul dollaro (approx)[3]: un barile di petrolio del 2005 costava 50 euro, oggi ne costa quasi 90. Ecco perché la benzina aumenta nonostante l’apprezzamento della moneta europea.
Il prezzo dei carburanti sarebbe dovuto salire dell’80% circa: consideriamo, però, che l’aumento del prezzo va ad incidere sulla parte “industriale” del costo dei carburanti, che è circa la metà perché il resto sono imposte.
Se riflettiamo che la benzina è passata – sempre negli ultimi tre anni – da 1 euro ad 1,5 euro (incremento del 50%), i conti – pressappoco – tornano. Per il gasolio il problema è diverso: siccome il rapporto fra benzina e gasolio, nella distillazione frazionata del greggio, varia poco – e parallelamente è aumentata la richiesta per l’alto numero d’auto a ciclo Diesel in circolazione – l’aumento del prezzo incorpora maggiori costi industriali per soddisfare la domanda.
A margine, notiamo che circolano sul Web storie fantasiose su un fraudolento aumento del greggio, le quali basano queste ipotesi su un prezzo del greggio – nel 2000 – di 60 $/barile, il che è tragicamente falso.
Il prezzo del greggio, nel 2000, oscillò intorno ad un valore medio di circa 25-30 $/barile[4], valore raggiunto rapidamente, dopo aver toccato il minimo degli ultimi vent’anni il 16 febbraio 1999, con un prezzo di 9,82 $/barile[5].
Non cerchiamo quindi lontano dal buon senso ipotesi fantasiose: stiamo vivendo la parabola calante dell’Evo Petrolifero. Qualcuno afferma che il famoso “Picco di Hubbert” è già avvenuto, oppure è prossimo: poco importa, se valutiamo l’andamento del mercato.
Altri affermano che il petrolio è abbondante perché non ha origine biologica (ipotesi che non spiega la presenza di colesterolo nel greggio, la rifrazione della luce polarizzata e la preponderanza d’idrocarburi con atomi di Carbonio dispari, tutte caratteristiche delle molecole di derivazione organica). Se così fosse, basterebbe rivelare dove si trovano i fantomatici ed immensi giacimenti di petrolio d’origine inorganica.
Ultima trovata è la speculazione: vero, verissimo che sui future del greggio si specula a piene mani, ma solo perché la richiesta è in continuo aumento e tale da non guardare troppo in faccia ai prezzi. PetroChina, nell’anno appena trascorso, ha comprato a man bassa diritti d’estrazione in Africa senza badare troppo al prezzo, giacché è più importante garantire energia al colossale apparato industriale cinese che spilluzzicare sui centesimi. La speculazione, dunque, nasce e prospera perché è il mercato stesso a garantirne il successo: provate a speculare sui future dei carri da buoi.
Che ci piaccia o non ci piaccia, dunque, la situazione è di una semplicità disarmante: qualche decennio d’estrazione – a costi sempre maggiori, dovuti anche al progressivo esaurimento dei giacimenti meno profondi ed ai maggiori costi di raffinazione per le sezioni più profonde e dense del prodotto – e poi…carbone a volontà! Per un altro secolo, forse[6].
Dopo esserci immersi nell’universo petrolifero, torniamo agli affari di casa nostra, ovvero a cosa stanno facendo i nostri politici per tentare di trovare soluzione al problema: niente.
Il precedente governo, per non rischiare di commettere errori, decise semplicemente di non far nulla o quasi: l’unico intervento – che segnaliamo più per correttezza che per incisività del provvedimento – è stata l’incentivazione che ha riguardato e riguarda il solare termico, gli impianti per l’acqua sanitaria.
Provvedimento di per sé accettabile, se non fosse che gli italiani che possono sborsare 4-6000 euro per un impianto non sono tantissimi: i più, cercano più che altro di non farsi sbattere fuori di casa per non aver pagato il mutuo. Oppure, vagano negli hard discount alla ricerca del prezzo più basso. Altro che le elucubrazioni di un ambiental-chic come Pecoraro.
L’attuale governo, invece, ha scelto la via del decisionismo: ottimo, verrebbe da dire. Sì, se non avessero “deciso” di prendere la strada sbagliata.
La barzelletta del nucleare italiano è l’ultima trovata di patron Berlusconi e del suo ministro Scajola. Udite udite, popolo, e pascetevi. Fino al 2013, ci sarà la fase di “identificazione” dei siti dove dovrebbero sorgere le famose quattro centrali nucleari: poi, si dovrebbe passare alla costruzione. Sotto controllo militare (!).
Se tutto dovesse filare liscio – cosa assai rara nello Stivale – per il 2020 ci sarebbe il primo KW di produzione nucleare.
Nel frattempo, non sappiamo a quanto potrà arrivare il prezzo dell’Uranio (che sale come un’iperbole, poiché è una fonte non rinnovabile) e non sappiamo nemmeno chi caccerà i soldi per una simile, ciclopica impresa: inizino a scovare i quattrini per Alitalia, come avevano strombazzato. Altrimenti, di tante “cordate”, rimarrà solo la corda per impiccare i lavoratori.
Senza considerare i costi della conservazione delle scorie: se qualcuno ha ancora dei dubbi sulla non convenienza economica del nucleare, legga il mio “Vattelapesca forever” e si faccia un’idea.
Perché tanta sicumera senza senso? Perché ignorano, non sanno, sono…insomma…non mi va d’usare il participio presente di quel verbo…
Uno dei principali ostacoli allo sfruttamento delle energie rinnovabili, riguarda il falso concetto che abbiamo di rivoluzione industriale. Per molti (tantissimi fra coloro che ci governano), la rivoluzione industriale fu quella cosa che nacque in Europa alla metà del Settecento. Prima, regnava il nulla.
Complici gli Illuministi – che ebbero buon gioco nel mostrarsi i veri progressisti dell’epoca – ciò che avvenne prima, sotto il profilo tecnologico, era considerato irrilevante.
In qualche modo corresponsabili dello sciagurato inghippo, furono tanti storici che – del Medio Evo – studiarono più il pensiero filosofico e religioso e poco quello scientifico e tecnologico. Insomma, per i più, il Medio Evo (e parte del successivo Evo Moderno) erano privi di tecnologia.
Ci ha un poco salvati da questa pericolosa impasse la scuola storica francese[7], che iniziò a studiare e catalogare con pazienza le miniature, i rari testi, i quadri…insomma, tutto ciò che poteva in qualche modo squarciare il velo imposto dall’ingombrante pensiero filosofico medievale, e farci osservare come viveva la gente all’epoca. Ricordiamo anche Carlo Maria Cipolla ed il suo (fra i tanti) Uomini, tecniche, economie.
Insomma, cosa raccontano questi storici?
Narrano un mondo povero d’energia, se lo paragoniamo agli attuali consumi, che però riusciva a sfruttare tutto ciò che aveva a disposizione per risolvere la penuria d’energia e migliorare le condizioni di vita delle popolazioni. Riflettiamo che, all’avvento della propulsione a carbone sulle navi, l’intero pianeta era già stato esplorato. A vela.
Tutti sanno che gli olandesi riuscirono a vivere in una terra paludosa prosciugando i polders mediante i mulini a vento: non tutti sapranno quale meraviglia della tecnica erano quei mulini. La potenza non era alta – 10-20 kW al massimo – ed era regolata mediante sistemi di governo delle pale che erano stati mediati dalle attrezzature veliche navali. Anche l’invenzione del pennone girevole su un estremo (boma) fu olandese, quando dovettero risolvere il problema d’utilizzare piccoli velieri, molto maneggevoli, per la sorveglianza delle coste.
Il mulino a vento olandese, oltre che come pompa idraulica, era usato per macinare cereali e spezie (ricordiamo l’importanza della compagnia olandese delle Indie) e per segare il legname. Era, in qualche modo, una “centrale energetica polivalente” dell’epoca, che funzionò a meraviglia per secoli.
Sarebbe interessante valutare – ma le fonti sono purtroppo scarse – il “risparmio energetico”, inteso come forza muscolare economizzata, operato per secoli dagli olandesi mediante i loro mulini. I quali – è bene ricordarlo – non sorsero solo nelle Zeven Provinzen, ma dalla Galizia alla Danimarca.
E dove non c’era vento?
Qui, la pittura è stata d’aiuto agli storici: scorci di fiumi dove sorgevano serie di mulini ad acqua disposti “in cascata”, oppure canali d’alimentazione per i mulini, ruote, macine, ecc. Siccome il mulino ad acqua – in epoca medievale – era spesso privilegio delle famiglie nobili o degli ecclesiastici, qualche fonte scritta è stata ritrovata negli archivi.
Ciò che emerge dalle loro analisi – come un’immagine che prende forma in un bagno fotografico – è un mondo che preannuncia e già riproduce lo schema della rivoluzione industriale: macine per i cereali, ma anche magli per la metallurgia e telai mossi dalla forza dell’acqua. Insomma: l’avvento dei combustibili fossili si “adagiò” su un modello che era già formato!
Essere inconsapevoli di quei fenomeni, che ci sembrano lontani e quindi ininfluenti, è ciò che porta a concludere – come usa fare Franco Battaglia – che le energie naturali sono “energie vecchie” perché già usate dall’uomo in tempi lontani. A parte l’errore di metodo che Battaglia compie quando afferma che l’energia solare è anch’essa “vecchia” – l’uomo non ha mai trasformato l’energia solare in energia meccanica: la usò, ma passando sempre attraverso la fotosintesi vegetale (legname, cereali, ecc) – non si comprende perché quantità d’energia presenti ed abbondanti nel Pianeta debbano essere trascurate soltanto perché – a suo dire – “vecchie”.
Forse perché il simpatico professore emiliano ha studiato la Storia sul Bignami? O perché l’industria termonucleare paga bene i suoi sponsor? Delle due l’una: scelga.
Tutto ciò, è soltanto la classica “immersione” nella Storia?
No, perché chi ha oggi superato la cinquantina, ha ancora visto con i suoi occhi le ultime immagini di quel tempo, gli estremi afflati di quell’epoca.
Non dobbiamo andare troppo lontano: fino a pochi anni or sono, mi recavo ad acquistare la farina in un vecchio mulino ad acqua nell’entroterra ligure. Nell’azienda dove lavorò per molti anni mio padre, l’energia era tratta da una ruota ad acqua collegata ad un alternatore che forniva 40 KWh. 40 KWh non sono proprio niente: possono far ruotare una decina di torni.
Presso la casa dove abitavo da bambino, scorreva una roggia con forte pendenza che alimentava piccole turbine per la produzione idroelettrica e qualche mulino: oggi, la roggia è secca perché nessuno ha più provveduto alla manutenzione.
Mia madre – che durante la Seconda Guerra Mondiale sfollò in un mulino – ricorda quattro mulini dove oggi non ci sono che ruderi, che macinavano cereali ed erano usati per muovere telai per tessere, oltre che per illuminare – grazie ad una dinamo – le abitazioni.
Molti fra noi, scavando un poco nei ricordi familiari, troveranno identici racconti: se non basta, ricordiamo Bacchelli ed i suoi mulini del Po, migliaia di mulini, dalla sorgente al delta.
Insomma, non dovremmo – se vogliamo trovare soluzioni al problema energetico – scervellarci in chissà quali elucubrazioni: potremmo iniziare a ricordare.
Quando è terminato quel mondo?
Fornire delle date è cosa ardua, ma di certo la nazionalizzazione della fornitura elettrica (ENEL) del 1960-61 diede un colpo mortale alla produzione diffusa d’energia elettrica. Ci furono ovviamente dei benefici: la razionalizzazione della distribuzione, che condusse a dei risparmi, ma quello era un altro mondo, per costi, consumi e classe politica.
La nazionalizzazione pose fine all’attività di piccoli e medi produttori (che furono indennizzati) ed inaugurò il metodo della produzione centralizzata, appannaggio di un solo ente statale.
Oggi, si parla di privatizzare il settore elettrico (decreto Bersani del 1999), ma questa “privatizzazione” non parla il linguaggio della produzione diffusa sul territorio: ossia, la ammette, ma solo per impianti di “media taglia”.
Quel “media taglia” significa potenze troppo elevate per una produzione veramente diffusa sul territorio: in pratica, parliamo di decine di MW invece di decine di KW.
Ovviamente, non c’è nulla di male ad installare parchi eolici in località ventose ed isolate (oppure in mare, off-shore) per ottenere cospicui volumi energetici, come non sarebbe male seguire l’esempio spagnolo, che prevede la costruzione di ben 28 centrali termodinamiche (paradossalmente, l’invenzione ed i primi sviluppi sono italiani, di Rubbia e dell’ENEA!). Per farlo, è però necessario “muovere” cospicue risorse e realizzare complessi accordi per i finanziamenti. Eppure, non credo che risolveremmo il problema.
Stabilito che c’è molto da fare per attuare un serio risparmio energetico, che passa per mille canali: dalle lampadine agli elettrodomestici, ai climatizzatori, ecc, la produzione elettrica sarebbe incrementabile solo se fosse veramente diffusa.
La diffusione sul territorio, inoltre, sarebbe un antidoto ai “picchi” di produzione d’alcuni sistemi (come l’eolico), dei quali s’è lamentato il gestore della rete elettrica. Più la “base” è larga e diffusa, più la media tende ad essere costante.
Cosa impedisce il grande passo di un doppio contatore in ogni casa (per chi lo desidera, ovviamente), con un “conto energia” generalizzato?
Due fattori: il primo, già citato, è una sorta di pessimismo di fondo legato ad un’errata valutazione della storia energetica dell’Europa. Il secondo, che quasi ne discende, è la ferrea convinzione che il controllo centralizzato sia la panacea per tutti i mali. Inoltre, garantisce il controllo politico dell’energia e – chi controlla l’energia – oggi controlla la tua vita. Prova a far funzionare il tuo PC a pedali.
Vogliamo ipotizzare alcuni scenari?
Il cosiddetto “micro-idroelettrico” consiste nel produrre poche decine di kWh da rogge, piccoli canali, torrenti, addirittura sfruttando la caduta degli acquedotti. Qualcuno – facendo lo slalom fra le mille pastoie burocratiche – ci è riuscito: il caso di Varese Ligure, che ha vinto il premio “The best 100% Communities Renewable Energy Partnesrship Rural Communities”, indetto dall'UE, come “migliore comunità rurale dell'UE per aver attuato il progetto più completo ed originale di sviluppo sostenibile”, è conosciuto ma scientemente ignorato.
Oltre agli aerogeneratori ed ai pannelli fotovoltaici, gli amministratori del comune hanno installato una turbina sulla conduttura dell’acquedotto, che ha una caduta di 120 metri ed una portata di 8.3 litri/secondo, la quale aziona un alternatore e produce circa 20 MWh l’anno. Si realizzerà a breve un progetto sul torrente Caruana, con due turbine che produrranno circa 1390 MWh annui.
A poche decine di metri dal mio studio, sorge un mulino d’origine medievale che sfrutta un canale di prelievo a monte sul fiume Bormida: da anni, non aziona più le macine direttamente con l’acqua, bensì produce energia elettrica (30 kWh) che vende all’ENEL, per poi acquistarla quando deve azionare i macchinari. Insomma, un semplice conto energia.
A conti fatti, la piccola roggia che alimenta la turbina – la si attraversa con un salto – porta ogni mese nelle casse pressappoco 1500 euro[8], senza far altro che lasciarla girare.
Quante situazioni, potenzialmente simili, ci sono nel Bel Paese? Decine di migliaia? Centinaia di migliaia?
Aggiungiamo la possibilità di sfruttare la corrente lenta dei grandi fiumi con mulini galleggianti, oppure le cadute d’acqua delle chiuse (se si decidesse, finalmente, di metter mano al trasporto fluviale!), gli acquedotti, ecc: insomma, la produzione idroelettrica non è confinata ai soli grandi impianti. Inoltre, la possibilità di consumo “in loco” o nelle vicinanze, ridurrebbe le perdite del trasporto in rete.
Basterebbe richiedere ai comuni il censimento delle cadute d’acqua disponibili, compresi i diritti ancora (eventualmente) esistenti di proprietari d’immobili che godevano della servitù di un corso d’acqua (i discendenti dei mugnai, ad esempio).
Potremmo, a quel punto, avere un quadro d’insieme delle risorse disponibili ed attuare piani per lo sfruttamento. Come?
Prendiamo a paragone la legge che concede incentivi per il solare termico: il cittadino dovrebbe investire 4-6000 euro (ricevendo lo sgravio fiscale del 55%) per risparmiare energia elettrica o gas per gli usi dell’acqua sanitaria.
Per prima cosa, non tutti sono nelle condizioni di ricevere lo sgravio fiscale: un dipendente, a tempo determinato o saltuario, è già tagliato fuori. In altre parole, sono provvedimenti destinati a chi è già garantito.
Inoltre, gli impianti – per essere utilizzati anche nella stagione invernale – sono sovradimensionati e, d’estate, l’acqua viene conservata addirittura sotto pressione a temperature di 180 gradi. Il tutto, per risparmiare sull’acqua calda.
Proviamo invece ad immaginare un investimento simile, che non conduca solo al risparmio sulla bolletta energetica, ma che porti anche un guadagno: se il consumo medio di un’abitazione è di circa un kWh, un piccolo impianto da 10 kWh ne renderebbe 9 all’ENEL, e ci farebbe incassare – al netto dei nostri consumi – 500 euro il mese circa. A quel punto, chiunque capirebbe che l’offerta è vantaggiosa e potrebbe anche accendere un piccolo mutuo per diventare produttore: un investimento che si ripagherebbe in breve tempo ed in assoluta sicurezza, tanto che lo Stato potrebbe tranquillamente esserne garante[9].
Oppure, immaginiamo una serie d’impianti da gestire: sarebbe conveniente – per tutti, cittadini e Stato – investire in formazione (sul modello tedesco) per chi perde il lavoro e volesse diventare gestore di piccoli impianti pubblici. Cinque impianti da 30 KWh, ad esempio, fornirebbero un gettito superiore ai 7.000 euro mensili, che consentirebbero di pagare il gestore, i costi d’investimento ed ottenere anche un gettito nelle casse statali.
Identico modello potrebbe essere seguito per il micro-eolico, laddove con investimenti della stessa grandezza si potrebbero installare aerogeneratori con potenze di picco inferiori ai 20 kW, e diametri dei rotori inferiori ai 10 metri, tanto per accontentare i “puristi” dell’ambiente. Piccole realizzazioni come queste, a pochi chilometri di distanza, sono praticamente invisibili.
E dove non c’è né vento e né acqua?
C’è pur sempre il sole e, se tali provvedimenti fossero attuati, siamo certi che l’industria saprebbe produrre impianti termodinamici di piccola taglia, considerando – come ebbe a dire lo stesso Carlo Rubbia – che “oggi, cioè in fase preindustriale, il costo complessivo dell’impianto oscilla tra i 100 e i 150 euro a metro quadrato. E da un metro quadrato si ricava ogni anno un’energia equivalente a quella di un barile di petrolio[10]”. La previsioni di costo del kW di fonte termodinamica – per il 2020 – è di circa 6 centesimi di euro, contro i 10-11 circa della fase pre-industriale[11]. Altro che le centrali nucleari di Berlusconi.
E per chi abita in città e non ha a disposizione nulla?
Bene: vuoi investire nell’energia? Lo Stato emette dei “bond energia” – con interesse a tasso fisso e garantito – che serviranno per incentivare chi è nelle condizioni di produrla. Con l’iperbolico aumento dei prezzi, sarebbe un affare per chi investe e per chi produce. In alternativa, il sole “picchia” anche sui tetti.
Una politica attenta al recupero dei grandi numeri delle energie rinnovabili – già usate in passato, ma nuovamente utilizzabili con le moderne tecnologie, soprattutto se diffuse sul territorio – sarebbe la vera salvezza dalle “bollette killer” che gli italiani ricevono.
La “bollette energetica” italiana per il 2008 sarà di circa 70 miliardi[12], e per il 2009 – se il trend dei prezzi si manterrà tale – subirà ulteriori aumenti: vivremo strangolati, nell’attesa delle fumose centrali nucleari di Berlusconi del lontano 2020.
Esiste un’alternativa?
Anzitutto, cambiare radicalmente ed in toto questa classe politica incapace di pensare al bene collettivo, allo Stato come universale dei cittadini e non come fonte di guadagni, vantaggi, impunità e prebende.
Infine, torniamo per un attimo alla Storia.
Uno dei fattori – dapprima catalizzante, poi limitante – allo sviluppo energetico, nel Medio Evo, furono i privilegi largamente diffusi che assegnavano alla nobiltà ed al clero lo sfruttamento delle fonti energetiche, soprattutto i mulini ad acqua.
Con l’appannarsi del potere nobiliare ed ecclesiale, e con l’affermarsi della borghesia come nuovo soggetto economico – che, è bene ricordarlo, cominciò prima degli eventi politici generalmente ricordati – avvenne una sorta di “liberalizzazione” ante litteram, ossia gli impianti si moltiplicarono ed iniziò la cosiddetta rivoluzione industriale, all’inizio con la sola forza del vento e dell’acqua.
Ebbene, oggi, non troviamo interessanti parallelismi fra le due situazioni?
Non viviamo forse schiacciati da un potere politico che c’impedisce – al pari della truffa sulla moneta – di creare da soli l’energia che ci serve? Perché, allora, ci sono decine d’adempimenti burocratici da espletare ad ogni passo?
Si tratta del semplice corrispettivo di quello che un tempo era il potere per censo: la nascita ed il nome garantivano la “vita” economica dell’individuo. Oggi, non sono forse le grandi “famiglie” dell’economia – unite ai loro lacché politici – ad impedire qualsiasi riforma che conceda ai cittadini di creare veramente ricchezza?
Immaginiamo una riforma semplicissima, che consentisse “conti energia” a tutti, senza impedirli – di fatto – con le pastoie burocratiche: presento la documentazione, due mesi di tempo e poi vale il principio del silenzio assenso.
Pensiamo di raggiungere un semplice 20% di produzione nazionale (obiettivo caldeggiato, a parole, dall’UE) con mezzi diffusi sul territorio: significherebbero 14 miliardi di euro che rimarrebbero nelle tasche degli italiani e non in quelle delle corporation. Lo signori, invece, s’inventano le Robin tax per gettare un po’ di fumo negli occhi.
Scommettiamo che, riformando in questo modo la produzione energetica, molti italiani tornerebbero ad entrare nei ristoranti senza fare, prima, complessi calcoli sui prezzi esposti? Io, ci scommetterei una cena.
Lucio Anneo Seneca
E’ quasi impossibile trascorrere un solo giorno senza sbattere contro l’evidenza della realtà energetica italiana: eppure, quel che tiene banco è il penoso teatrino delle intercettazioni telefoniche, delle “veline”, delle leggi ad personam, dei magistrati da assolvere o condannare, dei ministri-ombra di se stessi…
In mezzo a tutto questo bailamme, nessuno parla quasi più dell’evidenza – lampante – che stiamo diventando sempre più poveri per il costo dell’energia.
Come ogni anno, viene pubblicata[1] la classifica delle principali holding planetarie:
1) Exxon Mobil (USA);
2) PetroChina (Cina);
3) General Electric (USA);
4) Gazprom (Russia);
5) China Mobile (Hong Kong);
6) Bank of China (Cina);
7) Microsoft (USA);
8) AT&T (USA);
9) Royal Dutch Shell (UK);
10) Procter & Gamble (USA);
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36) ENI;
69) Intesa Sanpaolo;
70) Unicredit;
100) ENEL;
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316) FIAT.
Nelle prime dieci posizioni troviamo ben quattro corporation del petrolio, ed una (General Electric) che fornisce servizi all’industria petrolifera. Se cerchiamo aziende italiane, la prima è ENI (petrolio, 36° posto) ed al 100° troviamo ENEL (energia), mentre FIAT occupa solo la 316° posizione.
Rispetto all’anno precedente, i movimenti “a salire” sono stati tutti delle imprese energetiche, mentre le banche hanno perso terreno: i subprime hanno chiesto dazio.
Tornando alle prime posizioni, è curioso notare che le prime quattro sono occupate da petrolio & affini, mentre la grande Microsoft è solo al settimo posto: senza energia, anche i veloci processori perdono terreno.
Niente di nuovo sotto il sole – verrebbe da dire – e invece qualcosa di nuovo c’è o, almeno, qualcosa che sarebbe meglio meditare.
Si cercano ipotesi fra le più disparate per non riconoscere l’evidenza più limpida: un bene divenuto essenziale, presente in quantità finita nel pianeta e con una domanda in forte crescita (Cina), logicamente, aumenta di prezzo.
E’ pur vero che non tutto l’aumento è reale (riflettiamo sul precipitare del dollaro), ma è altrettanto evidente che anche messer euro non riesce a tener testa al vero bene primario del pianeta, al signor oro nero che ha preso il posto dell’oro giallo nel definire i valori delle monete. Potremmo quasi misurare il valore relativo di euro e dollaro valutandoli sul barile di petrolio.
Il prezzo del greggio[2], dall’estate del 2005 ad oggi, è passato da 60 $/barile agli attuali 140 circa: l’euro, nel medesimo periodo, è passato da 1,2 ad 1,6 sul dollaro (approx)[3]: un barile di petrolio del 2005 costava 50 euro, oggi ne costa quasi 90. Ecco perché la benzina aumenta nonostante l’apprezzamento della moneta europea.
Il prezzo dei carburanti sarebbe dovuto salire dell’80% circa: consideriamo, però, che l’aumento del prezzo va ad incidere sulla parte “industriale” del costo dei carburanti, che è circa la metà perché il resto sono imposte.
Se riflettiamo che la benzina è passata – sempre negli ultimi tre anni – da 1 euro ad 1,5 euro (incremento del 50%), i conti – pressappoco – tornano. Per il gasolio il problema è diverso: siccome il rapporto fra benzina e gasolio, nella distillazione frazionata del greggio, varia poco – e parallelamente è aumentata la richiesta per l’alto numero d’auto a ciclo Diesel in circolazione – l’aumento del prezzo incorpora maggiori costi industriali per soddisfare la domanda.
A margine, notiamo che circolano sul Web storie fantasiose su un fraudolento aumento del greggio, le quali basano queste ipotesi su un prezzo del greggio – nel 2000 – di 60 $/barile, il che è tragicamente falso.
Il prezzo del greggio, nel 2000, oscillò intorno ad un valore medio di circa 25-30 $/barile[4], valore raggiunto rapidamente, dopo aver toccato il minimo degli ultimi vent’anni il 16 febbraio 1999, con un prezzo di 9,82 $/barile[5].
Non cerchiamo quindi lontano dal buon senso ipotesi fantasiose: stiamo vivendo la parabola calante dell’Evo Petrolifero. Qualcuno afferma che il famoso “Picco di Hubbert” è già avvenuto, oppure è prossimo: poco importa, se valutiamo l’andamento del mercato.
Altri affermano che il petrolio è abbondante perché non ha origine biologica (ipotesi che non spiega la presenza di colesterolo nel greggio, la rifrazione della luce polarizzata e la preponderanza d’idrocarburi con atomi di Carbonio dispari, tutte caratteristiche delle molecole di derivazione organica). Se così fosse, basterebbe rivelare dove si trovano i fantomatici ed immensi giacimenti di petrolio d’origine inorganica.
Ultima trovata è la speculazione: vero, verissimo che sui future del greggio si specula a piene mani, ma solo perché la richiesta è in continuo aumento e tale da non guardare troppo in faccia ai prezzi. PetroChina, nell’anno appena trascorso, ha comprato a man bassa diritti d’estrazione in Africa senza badare troppo al prezzo, giacché è più importante garantire energia al colossale apparato industriale cinese che spilluzzicare sui centesimi. La speculazione, dunque, nasce e prospera perché è il mercato stesso a garantirne il successo: provate a speculare sui future dei carri da buoi.
Che ci piaccia o non ci piaccia, dunque, la situazione è di una semplicità disarmante: qualche decennio d’estrazione – a costi sempre maggiori, dovuti anche al progressivo esaurimento dei giacimenti meno profondi ed ai maggiori costi di raffinazione per le sezioni più profonde e dense del prodotto – e poi…carbone a volontà! Per un altro secolo, forse[6].
Dopo esserci immersi nell’universo petrolifero, torniamo agli affari di casa nostra, ovvero a cosa stanno facendo i nostri politici per tentare di trovare soluzione al problema: niente.
Il precedente governo, per non rischiare di commettere errori, decise semplicemente di non far nulla o quasi: l’unico intervento – che segnaliamo più per correttezza che per incisività del provvedimento – è stata l’incentivazione che ha riguardato e riguarda il solare termico, gli impianti per l’acqua sanitaria.
Provvedimento di per sé accettabile, se non fosse che gli italiani che possono sborsare 4-6000 euro per un impianto non sono tantissimi: i più, cercano più che altro di non farsi sbattere fuori di casa per non aver pagato il mutuo. Oppure, vagano negli hard discount alla ricerca del prezzo più basso. Altro che le elucubrazioni di un ambiental-chic come Pecoraro.
L’attuale governo, invece, ha scelto la via del decisionismo: ottimo, verrebbe da dire. Sì, se non avessero “deciso” di prendere la strada sbagliata.
La barzelletta del nucleare italiano è l’ultima trovata di patron Berlusconi e del suo ministro Scajola. Udite udite, popolo, e pascetevi. Fino al 2013, ci sarà la fase di “identificazione” dei siti dove dovrebbero sorgere le famose quattro centrali nucleari: poi, si dovrebbe passare alla costruzione. Sotto controllo militare (!).
Se tutto dovesse filare liscio – cosa assai rara nello Stivale – per il 2020 ci sarebbe il primo KW di produzione nucleare.
Nel frattempo, non sappiamo a quanto potrà arrivare il prezzo dell’Uranio (che sale come un’iperbole, poiché è una fonte non rinnovabile) e non sappiamo nemmeno chi caccerà i soldi per una simile, ciclopica impresa: inizino a scovare i quattrini per Alitalia, come avevano strombazzato. Altrimenti, di tante “cordate”, rimarrà solo la corda per impiccare i lavoratori.
Senza considerare i costi della conservazione delle scorie: se qualcuno ha ancora dei dubbi sulla non convenienza economica del nucleare, legga il mio “Vattelapesca forever” e si faccia un’idea.
Perché tanta sicumera senza senso? Perché ignorano, non sanno, sono…insomma…non mi va d’usare il participio presente di quel verbo…
Uno dei principali ostacoli allo sfruttamento delle energie rinnovabili, riguarda il falso concetto che abbiamo di rivoluzione industriale. Per molti (tantissimi fra coloro che ci governano), la rivoluzione industriale fu quella cosa che nacque in Europa alla metà del Settecento. Prima, regnava il nulla.
Complici gli Illuministi – che ebbero buon gioco nel mostrarsi i veri progressisti dell’epoca – ciò che avvenne prima, sotto il profilo tecnologico, era considerato irrilevante.
In qualche modo corresponsabili dello sciagurato inghippo, furono tanti storici che – del Medio Evo – studiarono più il pensiero filosofico e religioso e poco quello scientifico e tecnologico. Insomma, per i più, il Medio Evo (e parte del successivo Evo Moderno) erano privi di tecnologia.
Ci ha un poco salvati da questa pericolosa impasse la scuola storica francese[7], che iniziò a studiare e catalogare con pazienza le miniature, i rari testi, i quadri…insomma, tutto ciò che poteva in qualche modo squarciare il velo imposto dall’ingombrante pensiero filosofico medievale, e farci osservare come viveva la gente all’epoca. Ricordiamo anche Carlo Maria Cipolla ed il suo (fra i tanti) Uomini, tecniche, economie.
Insomma, cosa raccontano questi storici?
Narrano un mondo povero d’energia, se lo paragoniamo agli attuali consumi, che però riusciva a sfruttare tutto ciò che aveva a disposizione per risolvere la penuria d’energia e migliorare le condizioni di vita delle popolazioni. Riflettiamo che, all’avvento della propulsione a carbone sulle navi, l’intero pianeta era già stato esplorato. A vela.
Tutti sanno che gli olandesi riuscirono a vivere in una terra paludosa prosciugando i polders mediante i mulini a vento: non tutti sapranno quale meraviglia della tecnica erano quei mulini. La potenza non era alta – 10-20 kW al massimo – ed era regolata mediante sistemi di governo delle pale che erano stati mediati dalle attrezzature veliche navali. Anche l’invenzione del pennone girevole su un estremo (boma) fu olandese, quando dovettero risolvere il problema d’utilizzare piccoli velieri, molto maneggevoli, per la sorveglianza delle coste.
Il mulino a vento olandese, oltre che come pompa idraulica, era usato per macinare cereali e spezie (ricordiamo l’importanza della compagnia olandese delle Indie) e per segare il legname. Era, in qualche modo, una “centrale energetica polivalente” dell’epoca, che funzionò a meraviglia per secoli.
Sarebbe interessante valutare – ma le fonti sono purtroppo scarse – il “risparmio energetico”, inteso come forza muscolare economizzata, operato per secoli dagli olandesi mediante i loro mulini. I quali – è bene ricordarlo – non sorsero solo nelle Zeven Provinzen, ma dalla Galizia alla Danimarca.
E dove non c’era vento?
Qui, la pittura è stata d’aiuto agli storici: scorci di fiumi dove sorgevano serie di mulini ad acqua disposti “in cascata”, oppure canali d’alimentazione per i mulini, ruote, macine, ecc. Siccome il mulino ad acqua – in epoca medievale – era spesso privilegio delle famiglie nobili o degli ecclesiastici, qualche fonte scritta è stata ritrovata negli archivi.
Ciò che emerge dalle loro analisi – come un’immagine che prende forma in un bagno fotografico – è un mondo che preannuncia e già riproduce lo schema della rivoluzione industriale: macine per i cereali, ma anche magli per la metallurgia e telai mossi dalla forza dell’acqua. Insomma: l’avvento dei combustibili fossili si “adagiò” su un modello che era già formato!
Essere inconsapevoli di quei fenomeni, che ci sembrano lontani e quindi ininfluenti, è ciò che porta a concludere – come usa fare Franco Battaglia – che le energie naturali sono “energie vecchie” perché già usate dall’uomo in tempi lontani. A parte l’errore di metodo che Battaglia compie quando afferma che l’energia solare è anch’essa “vecchia” – l’uomo non ha mai trasformato l’energia solare in energia meccanica: la usò, ma passando sempre attraverso la fotosintesi vegetale (legname, cereali, ecc) – non si comprende perché quantità d’energia presenti ed abbondanti nel Pianeta debbano essere trascurate soltanto perché – a suo dire – “vecchie”.
Forse perché il simpatico professore emiliano ha studiato la Storia sul Bignami? O perché l’industria termonucleare paga bene i suoi sponsor? Delle due l’una: scelga.
Tutto ciò, è soltanto la classica “immersione” nella Storia?
No, perché chi ha oggi superato la cinquantina, ha ancora visto con i suoi occhi le ultime immagini di quel tempo, gli estremi afflati di quell’epoca.
Non dobbiamo andare troppo lontano: fino a pochi anni or sono, mi recavo ad acquistare la farina in un vecchio mulino ad acqua nell’entroterra ligure. Nell’azienda dove lavorò per molti anni mio padre, l’energia era tratta da una ruota ad acqua collegata ad un alternatore che forniva 40 KWh. 40 KWh non sono proprio niente: possono far ruotare una decina di torni.
Presso la casa dove abitavo da bambino, scorreva una roggia con forte pendenza che alimentava piccole turbine per la produzione idroelettrica e qualche mulino: oggi, la roggia è secca perché nessuno ha più provveduto alla manutenzione.
Mia madre – che durante la Seconda Guerra Mondiale sfollò in un mulino – ricorda quattro mulini dove oggi non ci sono che ruderi, che macinavano cereali ed erano usati per muovere telai per tessere, oltre che per illuminare – grazie ad una dinamo – le abitazioni.
Molti fra noi, scavando un poco nei ricordi familiari, troveranno identici racconti: se non basta, ricordiamo Bacchelli ed i suoi mulini del Po, migliaia di mulini, dalla sorgente al delta.
Insomma, non dovremmo – se vogliamo trovare soluzioni al problema energetico – scervellarci in chissà quali elucubrazioni: potremmo iniziare a ricordare.
Quando è terminato quel mondo?
Fornire delle date è cosa ardua, ma di certo la nazionalizzazione della fornitura elettrica (ENEL) del 1960-61 diede un colpo mortale alla produzione diffusa d’energia elettrica. Ci furono ovviamente dei benefici: la razionalizzazione della distribuzione, che condusse a dei risparmi, ma quello era un altro mondo, per costi, consumi e classe politica.
La nazionalizzazione pose fine all’attività di piccoli e medi produttori (che furono indennizzati) ed inaugurò il metodo della produzione centralizzata, appannaggio di un solo ente statale.
Oggi, si parla di privatizzare il settore elettrico (decreto Bersani del 1999), ma questa “privatizzazione” non parla il linguaggio della produzione diffusa sul territorio: ossia, la ammette, ma solo per impianti di “media taglia”.
Quel “media taglia” significa potenze troppo elevate per una produzione veramente diffusa sul territorio: in pratica, parliamo di decine di MW invece di decine di KW.
Ovviamente, non c’è nulla di male ad installare parchi eolici in località ventose ed isolate (oppure in mare, off-shore) per ottenere cospicui volumi energetici, come non sarebbe male seguire l’esempio spagnolo, che prevede la costruzione di ben 28 centrali termodinamiche (paradossalmente, l’invenzione ed i primi sviluppi sono italiani, di Rubbia e dell’ENEA!). Per farlo, è però necessario “muovere” cospicue risorse e realizzare complessi accordi per i finanziamenti. Eppure, non credo che risolveremmo il problema.
Stabilito che c’è molto da fare per attuare un serio risparmio energetico, che passa per mille canali: dalle lampadine agli elettrodomestici, ai climatizzatori, ecc, la produzione elettrica sarebbe incrementabile solo se fosse veramente diffusa.
La diffusione sul territorio, inoltre, sarebbe un antidoto ai “picchi” di produzione d’alcuni sistemi (come l’eolico), dei quali s’è lamentato il gestore della rete elettrica. Più la “base” è larga e diffusa, più la media tende ad essere costante.
Cosa impedisce il grande passo di un doppio contatore in ogni casa (per chi lo desidera, ovviamente), con un “conto energia” generalizzato?
Due fattori: il primo, già citato, è una sorta di pessimismo di fondo legato ad un’errata valutazione della storia energetica dell’Europa. Il secondo, che quasi ne discende, è la ferrea convinzione che il controllo centralizzato sia la panacea per tutti i mali. Inoltre, garantisce il controllo politico dell’energia e – chi controlla l’energia – oggi controlla la tua vita. Prova a far funzionare il tuo PC a pedali.
Vogliamo ipotizzare alcuni scenari?
Il cosiddetto “micro-idroelettrico” consiste nel produrre poche decine di kWh da rogge, piccoli canali, torrenti, addirittura sfruttando la caduta degli acquedotti. Qualcuno – facendo lo slalom fra le mille pastoie burocratiche – ci è riuscito: il caso di Varese Ligure, che ha vinto il premio “The best 100% Communities Renewable Energy Partnesrship Rural Communities”, indetto dall'UE, come “migliore comunità rurale dell'UE per aver attuato il progetto più completo ed originale di sviluppo sostenibile”, è conosciuto ma scientemente ignorato.
Oltre agli aerogeneratori ed ai pannelli fotovoltaici, gli amministratori del comune hanno installato una turbina sulla conduttura dell’acquedotto, che ha una caduta di 120 metri ed una portata di 8.3 litri/secondo, la quale aziona un alternatore e produce circa 20 MWh l’anno. Si realizzerà a breve un progetto sul torrente Caruana, con due turbine che produrranno circa 1390 MWh annui.
A poche decine di metri dal mio studio, sorge un mulino d’origine medievale che sfrutta un canale di prelievo a monte sul fiume Bormida: da anni, non aziona più le macine direttamente con l’acqua, bensì produce energia elettrica (30 kWh) che vende all’ENEL, per poi acquistarla quando deve azionare i macchinari. Insomma, un semplice conto energia.
A conti fatti, la piccola roggia che alimenta la turbina – la si attraversa con un salto – porta ogni mese nelle casse pressappoco 1500 euro[8], senza far altro che lasciarla girare.
Quante situazioni, potenzialmente simili, ci sono nel Bel Paese? Decine di migliaia? Centinaia di migliaia?
Aggiungiamo la possibilità di sfruttare la corrente lenta dei grandi fiumi con mulini galleggianti, oppure le cadute d’acqua delle chiuse (se si decidesse, finalmente, di metter mano al trasporto fluviale!), gli acquedotti, ecc: insomma, la produzione idroelettrica non è confinata ai soli grandi impianti. Inoltre, la possibilità di consumo “in loco” o nelle vicinanze, ridurrebbe le perdite del trasporto in rete.
Basterebbe richiedere ai comuni il censimento delle cadute d’acqua disponibili, compresi i diritti ancora (eventualmente) esistenti di proprietari d’immobili che godevano della servitù di un corso d’acqua (i discendenti dei mugnai, ad esempio).
Potremmo, a quel punto, avere un quadro d’insieme delle risorse disponibili ed attuare piani per lo sfruttamento. Come?
Prendiamo a paragone la legge che concede incentivi per il solare termico: il cittadino dovrebbe investire 4-6000 euro (ricevendo lo sgravio fiscale del 55%) per risparmiare energia elettrica o gas per gli usi dell’acqua sanitaria.
Per prima cosa, non tutti sono nelle condizioni di ricevere lo sgravio fiscale: un dipendente, a tempo determinato o saltuario, è già tagliato fuori. In altre parole, sono provvedimenti destinati a chi è già garantito.
Inoltre, gli impianti – per essere utilizzati anche nella stagione invernale – sono sovradimensionati e, d’estate, l’acqua viene conservata addirittura sotto pressione a temperature di 180 gradi. Il tutto, per risparmiare sull’acqua calda.
Proviamo invece ad immaginare un investimento simile, che non conduca solo al risparmio sulla bolletta energetica, ma che porti anche un guadagno: se il consumo medio di un’abitazione è di circa un kWh, un piccolo impianto da 10 kWh ne renderebbe 9 all’ENEL, e ci farebbe incassare – al netto dei nostri consumi – 500 euro il mese circa. A quel punto, chiunque capirebbe che l’offerta è vantaggiosa e potrebbe anche accendere un piccolo mutuo per diventare produttore: un investimento che si ripagherebbe in breve tempo ed in assoluta sicurezza, tanto che lo Stato potrebbe tranquillamente esserne garante[9].
Oppure, immaginiamo una serie d’impianti da gestire: sarebbe conveniente – per tutti, cittadini e Stato – investire in formazione (sul modello tedesco) per chi perde il lavoro e volesse diventare gestore di piccoli impianti pubblici. Cinque impianti da 30 KWh, ad esempio, fornirebbero un gettito superiore ai 7.000 euro mensili, che consentirebbero di pagare il gestore, i costi d’investimento ed ottenere anche un gettito nelle casse statali.
Identico modello potrebbe essere seguito per il micro-eolico, laddove con investimenti della stessa grandezza si potrebbero installare aerogeneratori con potenze di picco inferiori ai 20 kW, e diametri dei rotori inferiori ai 10 metri, tanto per accontentare i “puristi” dell’ambiente. Piccole realizzazioni come queste, a pochi chilometri di distanza, sono praticamente invisibili.
E dove non c’è né vento e né acqua?
C’è pur sempre il sole e, se tali provvedimenti fossero attuati, siamo certi che l’industria saprebbe produrre impianti termodinamici di piccola taglia, considerando – come ebbe a dire lo stesso Carlo Rubbia – che “oggi, cioè in fase preindustriale, il costo complessivo dell’impianto oscilla tra i 100 e i 150 euro a metro quadrato. E da un metro quadrato si ricava ogni anno un’energia equivalente a quella di un barile di petrolio[10]”. La previsioni di costo del kW di fonte termodinamica – per il 2020 – è di circa 6 centesimi di euro, contro i 10-11 circa della fase pre-industriale[11]. Altro che le centrali nucleari di Berlusconi.
E per chi abita in città e non ha a disposizione nulla?
Bene: vuoi investire nell’energia? Lo Stato emette dei “bond energia” – con interesse a tasso fisso e garantito – che serviranno per incentivare chi è nelle condizioni di produrla. Con l’iperbolico aumento dei prezzi, sarebbe un affare per chi investe e per chi produce. In alternativa, il sole “picchia” anche sui tetti.
Una politica attenta al recupero dei grandi numeri delle energie rinnovabili – già usate in passato, ma nuovamente utilizzabili con le moderne tecnologie, soprattutto se diffuse sul territorio – sarebbe la vera salvezza dalle “bollette killer” che gli italiani ricevono.
La “bollette energetica” italiana per il 2008 sarà di circa 70 miliardi[12], e per il 2009 – se il trend dei prezzi si manterrà tale – subirà ulteriori aumenti: vivremo strangolati, nell’attesa delle fumose centrali nucleari di Berlusconi del lontano 2020.
Esiste un’alternativa?
Anzitutto, cambiare radicalmente ed in toto questa classe politica incapace di pensare al bene collettivo, allo Stato come universale dei cittadini e non come fonte di guadagni, vantaggi, impunità e prebende.
Infine, torniamo per un attimo alla Storia.
Uno dei fattori – dapprima catalizzante, poi limitante – allo sviluppo energetico, nel Medio Evo, furono i privilegi largamente diffusi che assegnavano alla nobiltà ed al clero lo sfruttamento delle fonti energetiche, soprattutto i mulini ad acqua.
Con l’appannarsi del potere nobiliare ed ecclesiale, e con l’affermarsi della borghesia come nuovo soggetto economico – che, è bene ricordarlo, cominciò prima degli eventi politici generalmente ricordati – avvenne una sorta di “liberalizzazione” ante litteram, ossia gli impianti si moltiplicarono ed iniziò la cosiddetta rivoluzione industriale, all’inizio con la sola forza del vento e dell’acqua.
Ebbene, oggi, non troviamo interessanti parallelismi fra le due situazioni?
Non viviamo forse schiacciati da un potere politico che c’impedisce – al pari della truffa sulla moneta – di creare da soli l’energia che ci serve? Perché, allora, ci sono decine d’adempimenti burocratici da espletare ad ogni passo?
Si tratta del semplice corrispettivo di quello che un tempo era il potere per censo: la nascita ed il nome garantivano la “vita” economica dell’individuo. Oggi, non sono forse le grandi “famiglie” dell’economia – unite ai loro lacché politici – ad impedire qualsiasi riforma che conceda ai cittadini di creare veramente ricchezza?
Immaginiamo una riforma semplicissima, che consentisse “conti energia” a tutti, senza impedirli – di fatto – con le pastoie burocratiche: presento la documentazione, due mesi di tempo e poi vale il principio del silenzio assenso.
Pensiamo di raggiungere un semplice 20% di produzione nazionale (obiettivo caldeggiato, a parole, dall’UE) con mezzi diffusi sul territorio: significherebbero 14 miliardi di euro che rimarrebbero nelle tasche degli italiani e non in quelle delle corporation. Lo signori, invece, s’inventano le Robin tax per gettare un po’ di fumo negli occhi.
Scommettiamo che, riformando in questo modo la produzione energetica, molti italiani tornerebbero ad entrare nei ristoranti senza fare, prima, complessi calcoli sui prezzi esposti? Io, ci scommetterei una cena.
[1] Fonte: Repubblica, 28 – 6 – 2008.
[2] Fonte: www.traderlink.it.
[3] Ibidem.
[4] Fonte: Bloomberg.
[5] Fonte : EIA, Energy Information Administration (USA).
[6] Il metano segue, all’incirca, l’andamento dei prezzi e le previsioni d’esaurimento del petrolio.
[7] Ricordiamo, ad esempio, la rivista "Annales" e gli storici Lucien Febvre e Marc Bloch.
[8] Considerando un prezzo medio di vendita del kWh, nelle 24 ore, di 0,07 euro, dato tratto dalla “Borsa elettrica”.
[9] Perché, se lo Stato si fa garante per circa 3 miliardi di euro nei confronti degli investitori privati per la costruzione del Ponte di Messina, non potrebbe fare la stessa cosa per un investimento sicuramente più redditizio e solido?
[10] Fonte: intervista concessa a Repubblica da Carlo Rubbia nel 2004.
[11] Fonte: dati forniti nel Giugno del 2007 da Carlo Rubbia ad Agor@ Magazine, citando le previsioni della Banca Mondiale, del Dipartimento per l’Energia americano e della IEA (International Energy Agency).
[12] Fonte: Ansa da Nomisma Energia, 10 Maggio 2008.