31 maggio 2006

Burle di tutto il mondo, unitevi!


Con il recente referendum per l’indipendenza, in Montenegro la democrazia ha toccato il fondo: se vorrà continuare su questa strada, dovrà munirsi di piccone ed iniziare a scavare.
Anzitutto lo scenario: alla presidenza del comitato organizzatore del referendum viene nominato Frantisek Lipka, slovacco, che nel 1992/93 "mise in scena" (è oramai il caso di cambiare linguaggio…) la separazione ceca e slovacca senza uno straccio di consultazione popolare. Deciso così, nei palazzi del potere.
Forti dell’esperienza, nel 2006 in Montenegro la compagnia teatrale decide d’ampliare prospettiva e di gestire anche l’appuntamento elettorale. Fatti i dovuti conti, si fissa il quorum al 55% degli aventi diritto – che in Montenegro sono 480.000 – poiché non è possibile sancire l’indipendenza con la maggioranza semplice ed un quorum al 60% è irraggiungibile.
Detto fatto: chiuse le urne la sera precedente, il 22 maggio alle 3 di notte iniziano a circolare per Podgorica cortei d’auto che plaudono all’indipendenza: lo spoglio non è ancora iniziato, ma per chi sa "fiutare" l’aria dei Balcani quei cortei hanno un preciso significato, mica come i nostri festeggiamenti per una vittoria elettorale o della nazionale di calcio.
Quelle persone sono il segnale che il premier indipendentista Milo Djukanovic inizia ad inviare alla controparte: se il risultato non fosse quello atteso dalla fazione indipendentista (e dall’UE), dietro a quelle avanguardie si muoverebbero altre forze, forse meno festanti e più arcigne.
Fantasie? Sproloqui? No, Djukanovic ha seri motivi per "mostrare i muscoli" già alle tre di notte, perché l’esito è tutt’altro che scontato. Nonostante le precauzioni prese – facilitazioni per il ritorno in Montenegro dei votanti residenti nell’UE, con viaggi gratis, e parallelo "ritardo" nei trasferimenti di quelli provenienti dalla Serbia – la partita è risicata, risicatissima.
Giunge l’alba, un’alba gravida di responsabilità per il piccolo e montuoso paese balcanico, ed inizia lo spoglio: alle dieci e trenta, Frantisek Lipka – lo slovacco – si presenta di fronte ai media nazionali ed internazionali per annunciare che la vittoria è stata raggiunta con il 55,4% dei sì contro il 44,6% dei no. In pratica, per 2.000 voti in più il Montenegro ha sancito l’indipendenza da Belgrado.
Piccolo particolare: alle 10.30 di quel 22 maggio rimanevano da scrutinare circa 25.000 schede elettorali, ossia il 5% degli aventi diritto. Sapremo mai cosa c’era scritto in quelle 25.000 schede elettorali? Forse sì, forse no, ma tanto la notizia era già stata battuta da tutte le agenzie e rimbalzava sui media del pianeta.
Dalla democrazia dell’alternanza a quella degli equilibri, da quella assembleare a quella partecipata, siamo passati alla democrazia dello spettacolo. Il via lo diedero le elezioni americane del 2000 – quando, per un solo voto, a sciogliere il nodo fu un giudice della Corte Suprema USA nominato dal padre di uno degli sfidanti, ovvero Bush II il Giovane – e di lì in avanti sono entrate in scena le "macchinette elettorali", le schede consegnate insieme alle tessere per il pane (Iraq) e quant’altro. Il Montenegro non poteva permettersi quell’armamentario tecnologico, ed allora si torna ai vecchi sistemi: si proclama l’indipendenza per acclamazione cinque ore prima che inizi lo spoglio. Malatempora currunt.

21 maggio 2006

Il ruggito dell’agnello

Mentre gli italiani stanno compiendo in questi giorni un importante passo in avanti – iniziando a capire che il calcio è soltanto la metafora della politica – per le vicende estere si continua a credere che Europa e Stati Uniti siano coloro che menano a loro piacere le danze del pianeta, e questo è un errore.
Se gli USA amano il tintinnar di sciabole, in Oriente si preferisce far ascoltare il fruscio del gas nelle condotte: il ricatto energetico russo è oramai evidente anche per chi fa finta d’esser sordo.
Se gli europei (da noi ENI) non concederanno a Gazprom una quota dei loro mercati il gas russo finirà in Cina che – grazie alla crescita economica ed alle enormi riserve valutarie – può pagare di più rispetto ad europei ed americani.
Forte di questi contratti, Gazprom va a “caccia” di stock di metano nell’intero pianeta e sta acquistando da paesi terzi ciò che un tempo era la riserva di caccia di Exxon/Mobil. Solo dieci anni or sono, un impotente Yeltsin consentiva agli oligarchi russi di spadroneggiare ed alle compagnie americane d’impadronirsi delle riserve russe: in un solo decennio la situazione si è completamente rovesciata, ed oggi sono le “sette sorelle” americane ad essere sulla difensiva nei confronti dell’aggressività del colosso russo.
La Cina ha un contratto per 300.000 barili giornalieri con il Venezuela di Chavez, importa petrolio e gas da paesi come Angola, Sudan, Congo, Nigeria…ed intesse rapporti economici con questi paesi fornendo loro tecnologia, soprattutto in campo militare.
Fra pochissimi anni saremo di fronte ad uno scenario nel quale le tre potenze orientali (Cina, Russia ed India) inizieranno a cogliere i frutti dei loro investimenti in politica estera, ed al cosiddetto “Occidente” non rimarranno che due strade: partire all’attacco in mille piccole guerre nell’intero pianeta o cedere lo scettro.
Per questa ragione è importante seguire lo sviluppo della crisi iraniana, laddove Europa e Stati Uniti non riescono a strappare alle controparti Russia e Cina nemmeno l’avallo per porre sanzioni economiche all’Iran, altro che guerra.
Comunque vadano le cose – con la pace o con la guerra – il destino di Europa e Stati Uniti è segnato: con un indebitamento colossale, ed una crescita economica che è pari ad un terzo rispetto a quella delle economie orientali, il declino è inevitabile.
Tutto ciò pone di fronte l’Europa (ed il nuovo governo italiano) a difficili scelte: seguire gli USA nei loro ruggiti oramai stonati e fuori tempo massimo, oppure gestire un atterraggio “soft” come saggiamente seppe compiere l’Impero Britannico?
Il baricentro mondiale si sposterà inevitabilmente nell’area del Pacifico, molto lontano dal Mediterraneo e dall’Atlantico: da Singapore e da Shangai, così come da New Delhi e da Vladjivostok, è quasi impossibile avvertire timidi belati che vorrebbero apparire ruggiti.

16 maggio 2006

Di crisi d’astinenza da calcio non è mai morto nessuno

Tutto c’attendevamo, in questa infuocata primavera elettorale, meno che il mondo del calcio crollasse su sé stesso. Qualcuno potrà affermare che non è una novità: chi non ricorda giocatori che si vendevano le partite, “combine” d’ogni tipo e quant’altro?
La crisi del calcio fa paura non per gli effetti che produrrà – i quali saranno in ogni modo catastrofici per le finanze d’alcune squadre – bensì perché ha rivelato che l’intero mondo del pallone era un simulacro vuoto, un quadro dipinto solo con i pennelli della corruzione e dell’inganno: qui non si tratta delle solite “mele marce”, è l’intero frutteto che è andato in malora.
Eppure, decine di solerti giornalisti dell’informazione hanno dissertato per decenni sul nulla: serate passate di fronte al teleschermo per capire se un arbitro aveva sbagliato oppure no sono da buttare nel cestino come carta straccia. Hanno rubato milioni di ore agli italiani presentando uno spettacolo completamente fasullo: sarebbe come se oggi – dopo aver trascorso una campagna elettorale lunga un anno – ci raccontassero che avevano scherzato, che Berlusconi e Prodi sono amici per la pelle e che si è trattato solo di una burla.
Lo scherzo però finisce se riflettiamo che quelle migliaia di ore di trasmissioni sono servite per rimpinguare le casse degli sponsor, delle squadre, dei giocatori, delle TV, dei vari “faccendieri”…
Il problema – che in questi giorni tutti cercano di dribblare – è la pesante sconfitta del mondo dell’informazione: qualcuno può ragionevolmente pensare che il mondo dell’informazione sportiva fosse all’oscuro di tutto? E’ veramente difficile da sostenere.
Se ampliamo un poco l’orizzonte, potremmo chiederci come lo stesso mondo dell’informazione ci tratta per cose assai più importanti – la guerra, la situazione economica, l’energia, la giustizia – perché non possiamo pensare che tutti gli allocchi finiscano per fare i giornalisti sportivi e le “teste pensanti” siano convogliate verso la politica e l’economia.
Se il sistema dell’informazione è così fragile da non accorgersi che pochissime persone gestivano in piena libertà il mondo del calcio, ci sarebbe da rabbrividire al pensiero che – nella stanza accanto – chi scrive la pagina politica o quella economica usi gli stessi (fasulli) metodi d’indagine.
In realtà, è il sistema dell’informazione ad essere crollato su sé stesso – prima di quello del calcio – e ciò trae origine dalla struttura stessa dell’informazione. Su quella televisiva c’è poco da dire: il solo paese al mondo che ha come Presidente del Consiglio il maggior proprietario di TV private (oltre all’Italia) è la Thailandia, dove un discusso presidente “muove” maggioranze e parlamentari a suon di scoop sui suoi network.
Il vero “buco nero”, però, è la carta stampata dove – grazie al finanziamento governativo concesso ai giornali di “area politica” (600 milioni di euro l’anno) – il potere politico ha in mano i “cordoni della borsa” per controllare cosa scrivono migliaia di giornalisti, controllati a loro volta da centinaia di direttori, i quali sanno bene che non possono correre il rischio di scontentare i loro mecenate. I quali, a loro volta, per controllare l’informazione usano i soldi pubblici, ossia i nostri.
Non vorremmo che a questo asfittico mondo dell’informazione fosse sfuggito che un certo Licio Gelli ha manovrato per anni la politica italiana come Moggi ha fatto nel calcio, oppure che qualche parlamentare si sia lasciato “comprare” come gli arbitri.
Senza calcio si può anche sopravvivere: senza limpida informazione si finisce per diventare una landa d’automi lobotomizzati, gente senza speranza che si racconta storie mai avvenute, oppure storie accadute e mai conosciute. Enrico Mattei, Piazza Fontana, Ustica, Bologna, Ilaria Alpi…che in Italia sia esistito un “Moggi” che non s’occupava di calcio?

10 maggio 2006

Fra un po’ il TG1 scoprirà anche l’acqua calda


Aspettiamo pazienti, perché Clemente J. Mimun e la sua allegra brigata di trovanotizie prima o dopo riusciranno a meravigliarci: scopriranno il treno a vapore, la lampadina elettrica, il ferro da stiro, diamo loro tempo.
Dopo l’attentato afgano che ha ricondotto in patria le salme di due poveri alpini, l’organetto nazionale ha scoperto la vera ragione dell’efferato crimine: Gulbuddin Hekmatyar – uno dei "signori della guerra" afgano – ha giurato fedeltà ad Osama Bin Laden. Ecco perché ammazzano i nostri soldati: ha giurato…
Il "buon" Hekmatyar era stato riconosciuto dagli americani come "rappresentante regionale": una sorta di "governatore" che regnava nel sud. Su quali sudditi? Sui Taliban ovviamente. Ma non è possibile…
C’è sempre peggio al peggio, credetemi, perché questo losco figuro – che sarebbe dovuto essere un fedele feudatario del filoamericano Karzai – trent’anni fa militava insieme ad Ayman Al-Zawahiri nella Fratellanza Musulmana. Si sarà ravveduto, direte voi.
Quindici anni fa, prima di entrare in Kabul per consegnarla ai Taliban, la bombardò con l’artiglieria per settimane uccidendo 25.000 persone e ferendone 100.000. Appena entrato in città si dedicò alla ricerca di chi aveva sostenuto i sovietici: filo-russi o no che fossero, molti finirono impiccati ai ganci dei carri-attrezzi dopo che avevano loro cavato gli occhi da vivi, tagliato i testicoli ed infilato il tutto in bocca.
Durante il regno dei Taliban il nostro "governatore" si vantava di girare per le vie di Kabul con una bottiglietta di vetriolo in tasca, pronto a spruzzarlo addosso alle donne che non avevano il viso completamente velato.
Dopo la caduta dei Taliban fece di necessità virtù e si dedicò ad opere di bene (sic!) nel sud-est del paese: probabilmente ogni tanto faceva un "salto" in Pakistan, tanto per prendere un tè insieme ad Osama ed a Ayman. Poi, tornava a fare il "governatore" per Karzai.
Al nord, invece, l’ex paracadutista sovietico Dostum – che alterna la vodka al Corano – esige le tasse sulle importazioni e sulle esportazioni verso le repubbliche dell’Asia centrale ed intasca tutto senza inviare niente a Kabul, più i proventi dell’oppio e dei giacimenti di gas.
Questi sono solo due dei "rappresentanti regionali" che gli americani riconobbero come interlocutori validi, contro il parere della Loya Girga – l’assemblea tribale afgana – e dell’ex re Zahir Shah, ma ce ne sono altri. Bella compagnia trovarono: dimmi con chi vai, e ti dirò chi sei. Ovviamente, nulla trapela dagli studi del TG1: chissà se una sola volta – magari molti anni fa – Mimun giurò a sé stesso di raccontarci per una sola volta la verità? Chissà. E chissà quando potremo riportare i nostri alpini a casa. Vivi.

04 maggio 2006

La strategia dell’orbo

Dopo l’atroce morte dei militari italiani a Nassirya è scattata l’inevitabile – quanto vana – caccia ai responsabili, come se fosse possibile decifrare dalle fumose rivendicazioni sul Web oppure dai dati tecnici dell’attentato stesso la “matrice” dell’attacco.
Nella complessa galassia irachena è praticamente impossibile risalire a chi ha deposto materialmente la mina: tutti i gruppi della guerriglia irachena se ne assumeranno la paternità, fin troppo facile da prevedere.
Dai dati tecnici si potrà sapere ancor meno: si tratta di una comunissima mina anticarro costruita negli ultimi vent’anni e qualsiasi esercito del pianeta ne ha a disposizione decine di migliaia. Lo scoppio dell’ordigno espelle verso l’alto un dardo formato da metallo fuso ad altissima temperatura (migliaia di gradi) che penetra la corazza fondendola come una lama calda penetra nel burro: dopodichè, si sprigiona nell’angusto abitacolo un calore pari a centinaia di gradi centigradi. Gli abiti s’incendiano all’istante e si è uccisi in pochi attimi dall’aria rovente che penetra nei polmoni: una fine orribile, possiamo solo sperare che abbiano perso i sensi nell’attimo stesso dell’esplosione.
Più facile invece capire l’obiettivo strategico di un attentato realizzato chiaramente per uccidere in una zona ritenuta “tranquilla” o, almeno, meno pericolosa del resto del paese.
Qui s’innestano due vicende: il contrattacco americano nella zona di Ramadi, che ha lo scopo di colpire uno dei “santuari” della guerriglia sunnita: si tratta dello stesso copione già messo in atto a Falluja, che produrrà migliaia di morti fra la popolazione civile e scalfirà appena le formazioni guerrigliere.
Il secondo motivo è invece più velato e guarda più al domani che all’oggi: qualora il tam tam di guerra nei confronti dell’Iran aumentasse di tono, sarebbero proprio le province meridionali dell’Iraq – Bassora, Nassirya, la zona dei laghi di Amara – ad essere investite poiché di fede sciita e confinanti con l’Iran.
Questo strano attentato ha quindi il sapore di un duplice avvertimento: siamo in grado di colpire le truppe occupanti ovunque – sembrano affermare i guerriglieri – e se sarà attaccato l’Iran nel sud dell’Iraq scoppierà l’inferno. Una ragione in più per limitare il finanziamento della missione (che dovrà essere approvato a giugno) alla sola “benzina per tornare a casa”: altrimenti, i nostri soldati precipiteranno dall’oggi al domani nel prossimo tritacarne che Washington sta preparando per l’Iran. Siamo stanchi di vedere sbarcare le bare dei nostri soldati a Ciampino: cambiamo canale, per favore.